Vladimiro Giacché, laureato e perfezionato in filosofia alla Scuola Normale di Pisa, lavora nel settore finanziario. Già presidente del Centro Europa Ricerche, è responsabile della direzione Comunicazione, Studi e Innovazione Digitale presso la Banca del Fucino (Roma). È autore di numerosi libri di argomento economico e filosofico. Oltre al testo qui discusso, si ricordano in particolare: Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della Logica di Hegel (Pantograf 1990), La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea (2008, 3a ed. Imprimatur 2016), Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa (2013, 2a ed. Diarkos 2019), e Hegel. La dialettica (Diarkos 2020). Ha inoltre curato edizioni degli scritti economici di Karl Marx (Il capitalismo e la crisi, Derive/Approdi 2009, 2a ed. 2010) e Lenin (Economia della rivoluzione, Il Saggiatore 2017).
La storia della filosofia di Vladimiro Giacché – di cui oggi discutiamo il primo volume, Filosofia dell’Ottocento. Dall’idealismo al positivismo, di un più ampio progetto che intende abbracciare l’intera storia del pensiero occidentale dall’inizio dell’Ottocento ai giorni nostri – è mossa e sostenuta da due convinzioni fondamentali: la prima, che la filosofia sia ancora rilevante nel panorama attuale; la seconda, che il suo metodo debba essere il metodo storico. In rifermento alla prima questione le pongo una domanda che, diversamente declinata, fu peraltro di fondamentale importanza in tutte le correnti filosofiche che questo volume mette a tema: che rapporto ritiene vi sia, o meglio quale debba esservi, oggi, tra la filosofia e le altre discipline, come le scienze naturali, l’economia o la politica?
Il rapporto tra la filosofia e le altre discipline è cambiato più volte nel corso del tempo. Nel periodo tra Idealismo e Positivismo si passa da una concezione della filosofia come “scienza delle scienze”, gerarchicamente sovraordinata alle scienze particolari, a un rovesciamento di fronte pressoché completo: per i positivisti solo le scienze possono fornire risposte agli enigmi fondamentali dell’universo. Non è un caso che sul finire dell’Ottocento Nietzsche si facesse beffe di una filosofia ridotta a “guardiano di confine delle scienze” (più o meno quella che nel Novecento sarebbe stata chiamata “epistemologia”). Ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, quando ho compiuto i miei studi universitari, erano in molti a ritenere che la filosofia non potesse essere sensatamente nient’altro che questo: epistemologia. Il marxismo stesso – le cui quotazioni erano già in forte ribasso presso gli intellettuali – era ormai stato abbandonato in quanto concezione complessiva del mondo e veniva flebilmente difeso insistendo (in maniera quantomeno semplificatoria) sul passaggio di Marx dalla filosofia alla scienza (economica).
Mi sembra che per lo più gli sviluppi recenti non facciano che portare alle estreme conseguenze quella impostazione del rapporto filosofia/scienze: una filosofia come sapere residuale, che al massimo può “riflettere” sulle scienze. Personalmente non mi ritrovo in questo approccio. Io credo che la filosofia possa ben essere “riflessione su”, meta-teoria. Ma anche che uno dei suoi compiti fondamentali resti quello di articolare un più complessivo discorso sul mondo. Le grandi filosofie sono tali perché ridisegnano il mondo, cioè ridefiniscono le categorie attraverso le quali in generale lo pensiamo. Dire questo non significa presumere che la filosofia non debba avere alcuna interazione con le discipline scientifiche. Al contrario: il pensiero filosofico deve situarsi all’altezza del sapere scientifico del proprio tempo. Ma il suo proprium non può ridursi al compito di spiegare agli scienziati cosa stanno facendo senza esserne consapevoli.
La scelta del metodo storico-filosofico, che lei ritiene superiore a quello “per problemi”, nel volume è in ogni caso motivata da ragioni teoriche. Nell’Introduzione lei argomenta che la conoscenza storica, ed in particolare la conoscenza della storia della filosofia dell’Ottocento, assolve a due funzioni di capitale importanza nel mondo contemporaneo: da una parte farci meglio comprendere l’orizzonte concettuale del presente, dall’altra renderci disponibili orizzonti teorici alternativi. A proposito del primo punto, può darci alcuni esempi di paradigmi teorici e categorie ermeneutiche che, elaborate nella prima metà dell’‘800, sono ancora oggi schemi concettuali dominanti nella nostra visione del mondo?
Proporrei due esempi. Il primo riguarda la filosofia politica: la prima metà dell’Ottocento vede un vasto spettro di concezioni, che vanno dal tradizionalismo francese al liberalismo sino al socialismo, e che possono essere considerate in qualche modo archetipiche rispetto alle diverse posizioni e concezioni del pensiero politico successivo. È difficile ad esempio contestare che per il pensiero liberale contemporaneo le concezioni di pensatori quali Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville rappresentino tuttora un’importante fonte di ispirazione.
Il secondo esempio riguarda la soggettività, o meglio quella costellazione di concetti che possiamo delimitare facendo riferimento all’io, al soggetto, alla coscienza e alla coscienza di sé. Continuo a ritenere fondanti le riflessioni idealistiche (e romantiche) a questo riguardo. La stessa distruzione della nozione di soggetto, che si afferma in varie forme dal tardo Ottocento in poi, ha come referente polemico il concetto idealistico di soggettività. Questo concetto è tuttora ben presente nel dibattito contemporaneo, vuoi come ideale regolativo, vuoi in termini negativi – ossia come una concezione che non ci possiamo più permettere.
Non dimenticherei poi le riproposizioni inconsapevoli, le affinità – anche inattese e sorprendenti – tra concetti nati nei primi decenni dell’Ottocento e modelli concettuali contemporanei. Ritengo ad esempio che la nozione di “autopoiesi” proposta negli anni Ottanta del secolo scorso da Maturana e Varela fosse assai più prossima al concetto hegeliano di “autofinalità” di quanto i suoi autori fossero disposti ad ammettere. Ma anche le riflessioni di un Bateson sui meccanismi di retroazione negativa sono traducibili senza troppe forzature in un linguaggio filosofico hegeliano.
E tuttavia, se pure questo canone maggiore della storia della filosofia ha il grande merito di renderci più consapevoli circa la genesi e i presupposti dei modelli culturali oggi dominanti, il volume ha il pregio di mettere in luce un “secondo” itinerario storico-filosofico sommerso, che carsicamente si intreccia con quello infine risultato vittorioso e dunque convenzionalmente esposto nei manuali di storia della filosofia. Lei evidenzia come questi paradigmi alternativi, risultati di fatto perdenti all’epoca in cui sono sorti, sono oggi ancora fondamentali per offrirci possibilità alternative di comprensione dell’attualità: se queste soluzioni non sono state fertili nel presente in cui sono sorte, ciò non significa che non possano essere feconde nel nostro presente. Perché una prospettiva teorica a suo tempo sconfitta dovrebbe essere oggi nuovamente esplorata? Una filosofia perdente nel suo presente non dovrebbe esserlo a fortiori nel nostro?
Credo che la risposta a queste due domande sia in grado di restituirci uno dei principali motivi di interesse della storia della filosofia. A patto che si rifiuti una concezione della storia della filosofia quale storia unilineare, fatta di superamenti e di incorporazione senza residui, all’interno dell’orizzonte di pensiero tempo per tempo egemonico, di quanto vi era di valido nelle filosofie del passato.
La verità è che ogni epoca della storia del pensiero si costruisce i propri padri, e lo fa in modo per forza di cose idiosincratico, brutalmente selettivo e semplificatorio. Scegliendo i suoi temi, i suoi eroi e i suoi nemici. Già questo fa venir meno la plausibilità dell’idea della storia della filosofia come una “corte di giustizia” filosofica in grado di pronunciare sentenze inappellabili. Questo ovviamente non significa che nella storia del pensiero filosofico non vi siano concezioni che vengono effettivamente confutate e superate. Significa una cosa diversa: che non necessariamente le concezioni risultate perdenti nella loro epoca sono state effettivamente confutate dalle filosofie che hanno prevalso.
Tra l’altro, sono numerosi i casi di pensatori che furono privi di un’influenza significativa sul pensiero del proprio tempo perché le loro opere non furono pubblicate durante la loro vita. Si pensi a Leopardi, il cui Zibaldone fu pubblicato solo decenni dopo la sua morte. Ma parti significative anche del lascito teorico di autori quali Novalis o Hölderlin hanno dovuto attendere il Novecento (e talvolta il secondo Novecento) per essere pubblicate.
Tutto questo può aiutarci a considerare la storia della filosofia non come un grande fiume che accoglie numerosi affluenti e va verso uno sbocco necessario, ma piuttosto come un reticolo di concezioni del mondo, come un repertorio di sistemi di pensiero che vale la pena di conoscere in quanto tali, e non in quanto hanno prodotto qualcos’altro: si tratta di un patrimonio che è prezioso precisamente in quanto può determinare un sostanziale arricchimento della nostra prospettiva sul mondo.
L’impianto teorico-metodologico del volume mi pare solcato da una tensione: da una parte il rifiuto di una concezione teleologicamente orientata della storia della filosofia, dall’altra la convinzione che la storia della filosofia non si riduca, secondo la celebre immagine hegeliana da lei stesso citata, a un rapsodico elenco di opinioni di ogni sorta. Com’è possibile giustificare una concezione organica e non convulsa della storia della filosofia senza far ricorso a un impianto finalistico?
Questo punto è molto importante. Io credo che sia essenziale evitare di cadere in due trappole di opposta natura.
La prima consiste nel ridurre la storia della filosofia al resoconto di opinioni diverse che si snodano nel tempo confutandosi a vicenda. E a questo riguardo è importante capire – e far intendere al lettore – come le filosofie si alimentino del confronto con il milieu culturale della propria epoca e con il pensiero dei predecessori (più o meno immediati), trovando soluzioni per problemi non risolti da questi ultimi e abbandonando percorsi teorici ritenuti inadeguati. La metafora del superamento ha qui una sua indubbia validità.
Ma bisogna evitare di cadere nell’altra trappola, speculare alla prima: ossia fare l’errore di ritenere che la storia della filosofia sia solo questo. Questo secondo errore ha una duplice radice. In primo luogo, nasce dal trascurare che – come osservavo prima – non tutte le posizioni che non sono risultate vincenti (ossia influenti sui contemporanei e sugli immediati successori) erano state effettivamente superate nel dibattito filosofico dell’epoca. In secondo luogo, nasce dal fatto che non si dedica sufficiente attenzione al mutamento nel tempo degli stessi contesti culturali di riferimento: si tratta di mutamenti che determinano un cambiamento nelle gerarchie dei problemi (problemi prima poco importanti possono balzare in primo piano, sconvolgendo le gerarchie d’importanza tra pensatori), e prima ancora nello stesso linguaggio filosofico che viene adoperato. Quest’ultimo aspetto è di grande importanza: esso comporta l’abbandono puro e semplice di determinate categorie filosofiche e di interi sistemi/modelli di pensiero, talora anche molto sofisticati. Si pensi ad esempio alle discussioni nate sulla base della filosofia di Kant e poi alla dissoluzione di quella koinè linguistico-concettuale nel giro di pochi decenni. Ora, il punto è che la confrontabilità stessa di concetti e teorie nati su terreni culturali e linguistici differenti non è affatto scontata, e comunque è tutt’altro che immediata.
Quindi la mia risposta alla sua domanda è questa: la storia della filosofia non è una rapsodia di pensieri, ma neppure un percorso lineare e in continuo progresso. L’analisi storica delle idee ci serve appunto per comprendere lo sviluppo delle teorie filosofiche entro contesti determinati. Questo è l’obiettivo che mi sono prefisso con il mio libro.
Vengo ora alla struttura del volume, coerente con la concezione di storia della filosofia fin qui tratteggiata. Ogni capitolo espone i caratteri fondamentali del periodo o dell’autore di volta in volta considerato; segue una sezione antologica e, nella maggior parte dei capitoli, un’interessante e singolare sezione denominata La critica: qui vengono presentate alcune letture divenute un “classico” della letteratura critica oppure (dove la disgiunzione va interpretata come un vel, non come un aut) l’interpretazione degli autori da parte di filosofi successivi, che va quasi a comporre una storia filosofica della filosofia, come nel caso della lettura hartmanniana dell’idealismo tedesco, o l’interpretazione di Fabro del pensiero di Kierkegaard. Potrebbe spendere qualche parola sulla scelta di inserire tali letture critiche, che mi pare uno tra gli aspetti più originali del volume? In particolare, in che misura l’occhio del filosofo può condizionare la sua ricostruzione storico-filosofica? E ancora: la differenza tra la storia della filosofia dello storico e la storia della filosofia del filosofo è una differenza di merito o solo di grado?
La scelta di inserire nel testo letture critiche è in fondo coerente con l’assunto, su cui ci siamo già intrattenuti, che la tradizione filosofica abbia la natura di un dialogo mai chiuso. I filosofi che, a distanza magari di più di un secolo, rileggono filosofi precedenti, intessono un dialogo che è parte integrante della storia della filosofia. Si pensi all’importanza della rilettura di Spinoza per le filosofie idealistiche e romantiche.
Le letture critiche hanno una duplice utilità: ci aiutano a comprendere meglio i filosofi di cui trattano, e ci consentono di osservare in concreto come sia possibile gettare un ponte tra fasi anche molto diverse della storia della cultura e della filosofia. L’operazione che Nicolai Hartmann compie sull’idealismo tedesco, al pari di quella di Cornelio Fabro su Kierkegaard, ha il senso di un recupero e al tempo stesso di una prosecuzione in un diverso contesto teorico-culturale. In entrambi i casi non si tratta di semplici interpretazioni storiografiche, ma di prese di posizione teoriche in proprio, più o meno esplicite.
È del tutto evidente che la ricostruzione storico-filosofica di un sistema di pensiero da parte di un filosofo successivo non si riduce a un’operazione di filologia, ma innesta un contenuto, un’intenzione teorica originale nella lettura del pensatore con cui si confronta. Detto questo, io credo – per rispondere alla sua ultima domanda – che sia davvero difficile tracciare una netta linea di demarcazione tra storico e filosofo: un interprete che si confronta con un filosofo del passato non può non leggerlo con le categorie filosofiche che il suo tempo gli ha consegnato. Direi quindi che la differenza è solo di grado – o, se si vuole, di consapevolezza.
Vorrei ora soffermami su alcuni temi specifici della sua Filosofia dell’Ottocento. Il primo non può che essere la figura di Hegel, tanto per ragioni oggettive quanto in relazione alla sua biografia intellettuale: nel primo senso è noto come il sistema hegeliano costituisca l’acme di una linea di sviluppo della filosofia tedesca che sarà di fatto un punto di non ritorno; tengo d’altra parte a sottolineare che Hegel è stato sempre un punto di riferimento del suo percorso intellettuale, dalla sua tesi di perfezionamento alla Scuola Normale Finalità e soggettività. Forme del finalismo nella Scienza della logica di Hegel (Pantograf 1990) alla recente monografia Hegel. La dialettica (Diarkos 2020), una completa introduzione al pensiero del filosofo di Stoccarda. Ora, lei insiste giustamente sul carattere sistematico della filosofia hegeliana, che sarà d’altro canto uno dei punti in vario modo contestato dai suoi critici; lasciando al suo volume la discussione di questo crocevia fondamentale della filosofia dell’‘800, le chiedo: ha ancora senso, oggi, parlare di sistema o di filosofia sistematica? Questo aspetto dell’hegelismo è ormai caduco e irrimediabilmente sorpassato, o può essere recuperato in forme differenti, come nel ‘900 ad esempio ha tentato di fare Nicolai Hartmann? La domanda è ancora più urgente se pensiamo che spesso si è tentato di salvare e attualizzare alcuni contenuti particolari della filosofia hegeliana a prescindere dalla forma sistematica in cui solo, invero, essi trovavano fondamento. Da questo punto di vista mi pare sempre stimolante il dilemma formulato in un articolo del 1999 da Rolf-Peter Horstmann (What is Hegel’s Legacy and What Should We Do With It?) per cui da una parte lo studioso sarebbe portato a salvare, della filosofia hegeliana, alcune parti di perdurante interesse per il panorama filosofico attuale, senza avvedersi del fatto che tali parti trovano la loro giustificazione ultima proprio in quella “totalità” che oggi pare insostenibile; d’altra parte, tuttavia, accogliere l’impianto sistematico hegeliano sembra appunto impossibile. Siamo dunque costretti a rinunciare tanto all’idea di sistema quanto a specifiche argomentazioni e tesi particolari della filosofia hegeliana?
La forma sistematica è caduta in discredito, e non da oggi. Si può dire che sin dagli anni Trenta dell’Ottocento – di fatto, subito dopo la morte di Hegel – questo aspetto della filosofia hegeliana sia stato oggetto di critiche convergenti, provenienti anche da filosofi per il resto molto diversi tra loro. Tra i pensatori di maggiore levatura, soltanto Schopenhauer, se per un verso rifiutò il sistema nella forma proposta da Hegel (che riteneva un ciarlatano), d’altra parte tentò a sua volta di costruire un sistema filosofico. Nel Novecento soltanto due filosofi si sono assunti l’onere di costruire un sistema: Nicolai Hartmann e il tardo György Lukács, che con la sua Ontologia dell’essere sociale provò a costruire un sistema filosofico materialistico. Nessuno dei due tentativi è stato particolarmente felice, a mio modo di vedere.
Dal punto di vista interpretativo, è chiaro che la filosofia di Hegel deve essere intesa come un tutto organico, come una totalità. Ma qui sono necessarie due precisazioni. In primo luogo lo stesso impianto sistematico hegeliano non è privo di forzature e di aspetti che contraddicono la pretesa hegeliana di costruire un percorso teorico interamente “necessario”. In secondo luogo, nulla vieta di rifiutare il sistema e al tempo stesso utilizzare con profitto specifiche categorie e modelli teorici. Quando il Marx dei Grundrisse e poi del Capitale definisce il capitale come “soggetto”, si richiama in maniera evidente al lascito teorico hegeliano, pur rifiutando l’impianto sistematico della filosofia di Hegel. Secondo Horstmann questo procedimento non sarebbe legittimo. Ma la storia della cultura procede precisamente così, ed è abbastanza ingenuo pensare che le cose debbano andare in modo diverso. Né ha senso eccepire, nei confronti di chi affermi la validità di determinate categorie e modelli di pensiero di filosofi del passato, che soltanto l’accettazione del contesto in cui esse erano inserite né legittimi il riuso attuale.
Il motivo è molto semplice: ogni testo filosofico è una riserva di significati virtualmente infinita, così come ogni opera d’arte (Salvatore Settis ha scritto di recente pagine di grande importanza sul “riuso” di manufatti artistici, ponendo l’accento sull’“instabilità semantica degli oggetti d’arte”). Ogni interpretazione ricostruisce il significato in base a presupposti linguistici/storici/culturali suoi propri, e con ciò stesso lo ricrea. Ogni atto di interpretare un significato crea nuovo significato. Questo ha un’importante implicazione: ogni interpretazione, anche l’interpretazione più “corretta”, non chiude un testo ma lo apre necessariamente a nuovi significati, nuove e ulteriori connessioni, nuove interlocuzioni. Tutto ciò non ha nulla a che fare con l’esaltazione dell’arbitrarietà interpretativa: non è un “liberi tutti” ermeneutico, non è un anything goes. Semplicemente, ogni interpretazione è storicamente determinata, ed è parte di quella creazione di significati che chiamiamo cultura. La vera giustificazione del lavoro di rilettura e utilizzo di filosofi precedenti da parte dei pensatori successivi non potrà quindi consistere nella mera correttezza metodologica e precisione filologica, magari nella forma di una sorta di “olismo interpretativo”. Essa consiste invece nella capacità di dire, anche avvalendosi di quei materiali preesistenti, qualcosa di importante su di noi e sul mondo.
Il capitolo su Hegel è inoltre arricchito da una parte intitolata Una controversia filosofica: si tratta di alcune pagine dedicate al celebre dibattito sulla razionalità del reale. Dopo aver riportato la tesi hegeliana tanto nella versione della Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto quanto nella versione dell’annotazione al paragrafo 6 dell’Enciclopedia berlinese, lei ne propone l’interpretazione che diedero Rudolf Haym, il quale nelle parole di Hegel lesse l’accomodamento alle condizioni politiche dell’epoca, e Friedrich Engels, che al contrario rifiutò di vedere in Hegel il filosofo della restaurazione. Lei si sente più vicino alla lettura di Haym o di Engels? Tende a leggere la tesi hegeliana sulla razionalità del reale “da destra” o “da sinistra”?
Sul tema dell’identità di realtà e razionalità, come ricorda lo stesso Engels, la scuola hegeliana si divise. Va detto del resto che le stesse formulazioni hegeliane si prestavano a interpretazioni diverse. Ritengo comunque più fedele allo spirito del pensiero hegeliano l’interpretazione di Engels (la lettura “da sinistra”). Ricordo che Remo Bodei, in una sua lezione in Normale, richiamò la nostra attenzione sul fatto che nell’edizione dei manoscritti degli uditori della Filosofia del diritto di Hegel curata da Karl-Heinz Ilting si trovava effettivamente un passo assolutamente rispondente all’interpretazione di Engels: “ciò che è razionale diventa reale”. Devo dire che la cosa non mi sorprese.
Un altro capitolo piuttosto interessante è quello dedicato alla filosofia italiana dal primo Ottocento all’Unità. Di questo capitolo mi colpiscono soprattutto due aspetti: il primo è il grande spazio riservato al pensiero di Giacomo Leopardi, per cui lei rivendica un’autentica caratura filosofica, misconosciuta fino a pochi decenni fa e ancora oggi non riconosciuta a pieno titolo dalla totalità degli interpreti. In che modo è possibile giustificare il carattere filosofico del pensiero leopardiano? E su quali temi la riflessione di Leopardi è, a suo avviso, maggiormente originale?
Credo in effetti che il pensiero di Giacomo Leopardi – che all’epoca in cui scriveva le Operette morali si definiva “filosofo di professione” – rappresenti uno dei momenti più alti della filosofia italiana dell’Ottocento. La sua consequenzialità teorica e onestà intellettuale (che si traducono in concreto nel superamento e nell’abbandono delle proprie precedenti posizioni ogni qual volta Leopardi giunge a vederne i limiti e l’insufficienza), la progressiva distruzione di concetti metafisici (spingendosi sino a definire lo “spirito” come “una parola senza idea”), il materialismo conseguente, la lotta contro lo spiritualismo ma al tempo stesso anche contro l’ottimismo storico e contro ogni illusione che il “progresso” possa porre fine alla felicità individuale: tutti questi aspetti sono di estrema originalità, direi eversivi nel panorama della filosofia italiana dell’epoca.
Un secondo aspetto che mi colpisce del capitolo dedicato alla filosofia italiana è l’acribia con cui lei ricostruisce, dopo la filosofia di Leopardi, il pensiero di Romagnosi, Ferrari e Cattaneo, lo spiritualismo Galluppi, Rosmini e Gioberti, la figura di Mazzini e l’hegelismo napoletano nelle figure di Spaventa, Vera e De Sanctis. Mi colpisce in particolare l’attenzione con cui lei tiene a sottolineare il legame di questi pensatori, spesso mossi dall’interesse per il pendant giuridico-sociale della riflessione filosofica, con le istituzioni politiche del loro tempo, e il loro diretto impegno civile negli eventi storici che portarono all’Unità d’Italia. La filosofia italiana della prima metà dell’Ottocento è in effetti maggiormente legata alle dinamiche storico-politiche del suo tempo rispetto alle coeve filosofie europee?
Forse non “maggiormente”, almeno rispetto alle correnti di pensiero della Francia contemporanea. Ma sicuramente il tema politico in Italia è fondamentale e attraversa filosofie per il resto molto lontane tra loro. Trovo di grande interesse in particolare la funzione giocata dagli hegeliani di Napoli nella creazione di una coscienza nazionale e poi – più concretamente – nella costruzione dello Stato unitario. Ma sarebbe sbagliato, ad esempio, sottovalutare i contributi di un Cattaneo e di Gioberti, pensatori ad altri riguardi agli antipodi. Per non parlare di Mazzini.
L’ineludibilità del contesto storico mi pare un tema invero centrale in tutta la sua ricostruzione delle filosofie dell’Ottocento. La sua storia della filosofia è infatti sempre attenta a evidenziare il fondamentale legame tra la speculazione filosofica, depositata nelle dottrine dei filosofi, e il contesto storico in cui esse sorgono, nel senso delle istanze storico-sociali che le condizionano e a cui esse tentano di dare risposta. La prima sezione, per esempio, opportunamente riconduce lo sviluppo della filosofia postkantiana alle aporie del sistema di Kant, ma al contempo spiega le differenze tra i diversi sistemi idealistici di Fichte, Schelling, Hegel e gli atteggiamenti politici dei romantici come i fratelli Schlegel e Novalis anche in riferimento all’evento storico fondamentale del XVIII secolo, vale a dire la Rivoluzione Francese e i sui successivi sviluppi. Non meno importante, anche se forse più scontato, è il rilievo dato ai progressi scientifici del XIX secolo e alla divulgazione tra il pubblico colto dei nuovi risultati della scienza per la nascita delle filosofie positiviste. Da questo punto di vista mi pare che il volume metta chiaramente in luce che la filosofia debba necessariamente avere una storia non solo nel senso ordinario per cui essa ha un’evoluzione nel tempo, ma anche e forse soprattutto nel senso per cui ogni filosofia è notevolmente influenzata dal presente in cui essa sorge, cioè dalla storia “civile” in cui si muove. In questa direzione le chiedo: come si trova il giusto mezzo tra una storia della filosofia che misconosce il ruolo dell’attualità storica nella genesi di una dottrina filosofica e una storia della filosofia che risolve le peculiarità delle filosofie nelle specifiche circostanze storiche da cui esse verrebbero deterministicamente dedotte?
La sua domanda centra uno dei principali problemi metodologici con i quali ogni storico della filosofia è costretto a confrontarsi. Ci sono – chiamiamoli così – due opposti estremismi.
Da un lato un approccio “insulare” e astratto della storia della filosofia: quello per cui una filosofia ne genera un’altra, in una successione in cui i concetti sono generati (o eliminati) da altri concetti, senza alcun rapporto con la politica e la società del tempo. È la concezione che rappresenta il bersaglio polemico di Marx ed Engels nella loro critica ai Giovani hegeliani contenuta ne L’ideologia tedesca: «a nessuno di questi filosofi è venuto in mente di ricercare il nesso esistente tra la filosofia tedesca e la realtà tedesca, il nesso tra la loro critica e il loro proprio ambiente naturale».
Ma Marx ed Engels caddero nell’estremo opposto allorché dichiararono: «La morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero».
Non è così. La filosofia ha una storia, ha uno sviluppo, benché questa storia e questo sviluppo abbiano un nesso con la situazione generale della cultura e della società del tempo. Questo è il difficile equilibrio che a mio giudizio uno storico della filosofia deve conservare: nessuna filosofia si sviluppa nel vuoto pneumatico, ciascuna ha ben precisi rapporti con la società così come con la cultura entro le quali si muove; ma d’altra parte nessuna filosofia può essere semplicemente dedotta dalle condizioni materiali di produzione o dalla cultura del suo tempo (cosa su cui del resto il tardo Engels – e tra i suoi primi interpreti il nostro Antonio Labriola – dimostrarono di avere le idee chiare). Credo che rispetto a questa esigenza di integrare, di far dialogare tra loro la storia interna della disciplina e la storia esterna non ci siano scorciatoie possibili.
francescaannamaria.gambini@studenti.unipg.it e francesca.gambini1@unicatt.it
L'autore
- Francesca Gambini è dottoranda in Scienze Umane, curriculum filosofico, presso l’Università degli Studi di Perugia, dove svolge una ricerca su res singulares e relazioni intrasostanziali nella metafisica di Spinoza. In precedenza si è occupata del pensiero hegeliano, discutendo una tesi sui rapporti tra Realität e Wirklichkeit nella Scienza della logica di Hegel presso l’Università Cattolica di Milano, ove attualmente è cultrice della materia per la cattedra di Storia della filosofia. Ha ottenuto un diploma di specializzazione presso la Scuola di Alti Studi della Fondazione San Carlo di Modena ed è stata borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli.