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Fantasmagorie e domatori di fantasmi 

Ripubblico la recensione al bellissimo libro di Marco Maggi, Modernità visuale nei Promessi Sposi. Romanzo e fantasmagoria da Manzoni a Bellocchio, Bruno Mondadori, Milano 2019, apparsa su “L’Indice dei libri del mese”, luglio-agosto 2020.

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Possiamo solo immaginarcelo quel domatore di fantasmi, quel mago della luce e della notte, sciamano di una tecnologia nascente, capace di dar vita alle ombre proiettandole nel cuore della tenebra con un fascio luminoso che pareva sbocciare dal nulla. Nel marzo 1798 il belga Étienne-Gaspard Robertson, che due anni prima aveva proposto al Direttorio rivoluzionario di incendiare la flotta degli odiati inglesi con un immenso specchio di Archimede, incominciò a far balenare sulle piazze di Parigi le sue fantasmagorie davanti a un pubblico stupefatto, terrorizzato dal fantôme artificiel che sembrava «avanzare fin sotto gli occhi dello spettatore e, nel momento in cui costui stava per emettere un grido, scompariva a una velocità inimmaginabile». Per calmare la folla intervenne anche la polizia: forse qualche rivoluzionario ebbe paura, ad onta dell’illuministica Dea Ragione, che quella macchina diabolica potesse resuscitare il fantasma di Luigi XVI, “il cittadino Luigi Capeto” ghigliottinato cinque anni prima.

Con una certa enfasi romanzesca («…si udivano un frastuono di fulmini e le note laceranti dell’armonica a bicchieri…») lo stesso Robertson racconta i suoi spettacoli spettrali nei Mémoires, pubblicati molti anni più tardi (1831), quando ormai quella moda di fantasmi un po’ da baraccone, eredi della lanterna magica sperimentata da Leonardo da Vinci a Athanasius Kircher e Christiaan Huygens, andava declinando, paradossalmente, anche perché cominciavano a circolare i primi daguerrotypes. Gli scatti fotografici che acciuffavano la luce trasformando la realtà in immagine fecero sfumare la passione orrorosa per gli spettri proiettati nel buio. Già dalla fine degli anni Venti la fotografia aveva dimostrato che si può “disegnare la luce”, afferrare al volo il moto del sole e delle ombre, fermando il tempo sulle lastre di rame impresse. Le prime con le vedute di Le Gras dalla finestra realizzate da Niepce (1827); e poi lo straordinario Boulevard du Temple di Daguerre (1838), dove a causa dei tempi lunghi di esposizione i corpi dei passanti svanivano proprio come fantasmi, e restava solo la traccia di un lucidascarpe e del suo cliente, gli unici immobili.

Nel gennaio 1839 François Arago presentò ufficialmente all’Académie des Sciences et des Arts l’invenzione di Lousi Daguerre. Un fisico italiano, Macedonio Melloni, amico di Alexander von Humboldt, gridò la sua stupefazione: «Chi avrebbe creduto pochi mesi fa che la luce, essere penetrabile, intangibile, imponderabile, privo insomma di tutte le proprietà della materia, avrebbe assunto l’incarico del pittore disegnando propriamente di per se stessa, e colla più squisita maestria quelle eteree immagini ch’ella dianzi dipingeva sfuggevoli nella camera oscura e che l’arte si sforzava invano di arrestare?».

A Parigi, già nel 1805 e poi nel 1819-20, Alessandro Manzoni, che amava le lanterne magiche (se ne ricorderà descrivendo la sarabanda d’immagini nella mente di Renzo, la notte infernale in riva all’Adda), si era incantato di fronte alle fantasmagorie di Robertson che promettevano movimento e finzione di vita, un secolo prima del cinematografo. E poi aveva studiato le opere di Louis-Sébastien Mercier, «l’autore delle pagine forse più entusiastiche scritte sulla fantasmagoria», come dimostra Marco Maggi nella sua ricerca bellissima, decisiva dopo quelle di Max Milner, Ezio Raimondi, Michele Cometa, Silvano S. Nigro, Ferdinando Mazzocca, Massimiliano Mancini, per comprendere uno scarto cruciale nei saperi e nelle pratiche dell’immaginario fra Illuminismo ed età romantica. Per Mercier lo spettacolo allucinatorio, «traboccante di fantasmi mutevoli, mobili, aerei», acquistava potenza filosofica, come «l’emblema di un altro sole che illumina un altro universo»: un punto luminoso acceso nella profondità delle tenebre fa emergere alla coscienza «l’incessante mutare del tutto», e nel contempo dà forma allegorica al processo conoscitivo.

Per Robertson il gioco della fantasmagoria diventava un ambiguo «metodo di illuminazione critica» proiettato a «superare il razionalismo illuministico», un radicale «progetto di superamento della parola scritta attraverso esperienze visuali di tipo immersivo». Marco Maggi dimostra con prove formidabili come Manzoni diffidasse proprio della full immersion, delegando il compito di smascherare gli inganni della ragione alla «natura riflessiva» della lingua, arricchita da un rapporto dialettico con l’immagine, che la illustra imponendo una presa di distanza nello sguardo sul mondo: «La messinscena romanzesca della fantasmagoria rende infine possibile il giudizio sul disordine della storia». E questa «messinscena» non è più una fantasmagoria allucinatoria, bensì un cosmorama composto di parole e di illustrazioni che vibrano di retorica degli affetti. Non un cinematografo anzitempo, ma un Gran Teatro del Mondo che molto deve a Shakespeare e a Cervantes, a Caravaggio e alla visualità dell’universo barocco: un romanzo-teatro della memoria, capace di conservare e riprodurre la storia di una civiltà; un libro-panorama che grazie alla sua rivoluzionaria «tessitura intermediale» riesce a “proiettare” nell’immaginario del lettore un’intera visione del mondo.

Nella laboriosa metamorfosi d’impianto e di scrittura che porta il Fermo e Lucia a diventare I Promessi Sposi (prima i tre volumetti ancora settecenteschi del 1827, poi lo splendore dell’edizione illustrata, nel 1840), per controllare il «“guazzabuglio” interno dei personaggi» e al contempo per far luce sul caos della storia Manzoni plasma, entro il nuovo spazio di cultura visuale in cui il romanzo prende vita, lo strepitoso dispositivo multimediale della “Quarantana”, indirizzando Francesco Gonin e i suoi collaboratori nella realizzazione di un cosmorama in cui davvero, secondo la formula di Walter Benjamin, un universo «giunge a leggibilità».

La più raffinata delle intuizioni di Maggi, in un libro splendidamente benjaminiano nel tema, nell’altezza di scrittura e nel metodo di indagine, è che questo dispositivo multimediale deve molto non più solo alla fantasmagoria, ma appunto al cosmorama, forma spettacolare inventata da un oscuro signore nato a Mondovì nel 1763, di nome Enrico Gazzera, e fulmineamente diffusa nel primo Ottocento fra Inghilterra, Francia e Italia. Le prove che Maggi ci regala, prima fra tutte la dimostrazione di come alcune delle lastre di Gonin siano la stupefacente ripresa di figure apparse nel 1835 sul «Cosmorama pittorico», la «prima vera e propria rivista italiana illustrata», lasciano a bocca aperta per la novità e la solida forza filologica.

Si coglie appieno, così, la nuova visione del mondo del perfetto, inedito libro-cosmorama manzoniano. Essa si forma attraverso lo sguardo nuovissimo che da «Quel ramo del lago di Como» discende lungo le «due catene non interrotte di monti», poi sulle «larghe e inuguali pezze di porpora» del tramonto in cui passeggia un curato di campagna, sulle «due viottole», sul «tabernacolo», ed entra infine nel teatro dei pensieri di don Abbondio, dei bravi, di Renzo e Lucia e delle altre figurine del romanzo. Per la «“porosità” tra forme letterarie» (il termine è quanto mai benjaminiano) nella Quarantana vediamo accendersi un fascio di luce onirico sulla scena piccola e sterminata di un teatro morale, di un dramma storico trasformato in romanzo. La distanza fra la realtà e la sua rappresentazione non è più popolata da spettri allucinanti, ma dall’ironia, «la parola che si radica nella riflessione»: nel doppio senso che può assumere il termine “riflettere”, visto che come in «un passage interno» il romanzo-cosmorama “rappresenta” un universo in miniatura, facendo del nuovo sguardo sul mondo la «cifra della modernità».

Se Benjamin poté parlare di una «Napoli porosa», allegorica come un teatro di fastose rovine barocche, Marco Maggi ci invita ora a scoprire la «Milano porosa» sei-ottocentesca, il cui fantasma Manzoni proietta per i suoi lettori-spettatori moderni, «luogo di memoria di una città istituito nel momento della sua turbolenta immissione nella modernità». Quei lettori-spettatori siamo noi, uomini del cinema, impigliati nella «rete» informatica, eredi del cosmorama-Promessi Sposi e del Mondo Nuovo di Giandomenico Tiepolo (1791): di spalle, come l’Angelus Novus fissiamo l’incantesimo che non si scorge, dietro il muro: è il progresso, «la tempesta che soffia dal paradiso». Maggi stesso lo aveva già riconosciuto acutamente in un suo magnifico saggio (Walter Benjamin e Dante. Una costellazione nello spazio delle immagini, Donzelli 2017): «Il culmine della visione coincide con il suo crollo, l’immedesimazione fa tutt’uno con la caduta».

corrado.bologna@sns.it

L'autore

Corrado Bologna
Corrado Bologna
Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.