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Dal “villaggio oscuro” di Eugenio De Signoribus all’universo luminoso della contemplazione poetica

“La parola di Dio è superiore alla sapienza del mondo perché non solo i suoni delle parole ma anche le cose indicate hanno un significato”.

L’affermazione è del Magnus Contemplator, il mistico Riccardo di San Vittore (Scozia 1110 circa-Parigi 1173), di cui si narra che fosse talmente immerso nella speculazione filosofica e nella contemplazione teologica e con tanto sovrumano acume – a considerar fu più che viro – (Dante, Paradiso, X, 132), al punto che gli parve che la stessa morte tardasse a venire – a morir li parve venir tardo – (Dante, Paradiso, X,135). Nel suo libro Beniamin minor Riccardo aveva scritto: “Bisogna sapere che un medesimo oggetto, in un modo è visto dal pensiero, in un altro è investigato dalla meditazione, in un altro ancora è ammirato dalla contemplazione”. Cogitatio, Meditatio, Contemplatio, tre diverse forme di rapportarsi con il mondo e di interagire con esso. Fermiamoci nel gradino più alto, la contemplatio. La sosta sarà assai breve. “Un lampo” la definisce Eugenio De Signoribus, capace però di generare una luce nuova della quale sarà poi impossibile non tener conto o dimenticarsi. Ancora Riccardo aveva scritto: “La contemplazione tutto abbraccia e quando vuole si innalza alle cose somme. Il pensiero è privo di fatica e di frutto. Nella meditazione c’è travaglio e frutto. La contemplazione è senza travaglio ma ricca di frutto. Nel pensiero si divaga, nella meditazione si investiga, nella contemplazione si ammira”.

La poesia quindi, nella sua suprema accezione, dovrebbe soltanto, per così dire, contemplare e ammirare? È lo stesso Eugenio De Signoribus a chiederselo nei sette meditativi – “ricchi di frutti” avrebbe detto Riccardo –  capitoletti che ci guidano a una lettura più pertinente del suo prosimetro Nel villaggio oscuro (Manni Editori, 2023). E la domanda si manifesta rafforzata da un periodo ipotetico con l’incertezza di ben due protasi: “Se l’affermazione di Riccardo di San Vittore [che abbiamo riportato all’inizio] si chiudesse qui e se il nome, che mai andrebbe pronunciato invano, venisse sostituito con la parola “poesia”, si potrebbe accertarne la definizione?” La risposta o le risposte, pur non esplicitate con argomenti teorici o teologici, tendono però ad essere intuitivamente negative. E non solo perché una delle due protasi, prevedendo addirittura la “sostituzione” di quel nome di cui Riccardo aveva scritto che “è da sé e per sé e dall’eternità e da cui traggono esistenza tutte le cose che non hanno da sé il loro essere né sono capaci di averlo” e  che già otto secoli prima era stato codificato nella formula del Simbolo niceno del “per quem omnia facta sunt cambierebbe radicalmente ogni prospettiva, ma perché, senza più l’oggetto-soggetto della contemplatio, si annullerebbe ogni possibilità di dare un qualche significato, come suggerisce lo stesso Eugenio De Signoribus, a “tutto l’umano, nel suo limite e nel suo illimite”. Dunque la discesa di cielo in cielo e di gradino in gradino avviene non per dimenticare o negare l’esistenza di una parola “superiore alla sapienza del mondo” ma per averne una ”indicibile nostalgia”. Stanno qui le ragioni più intime e vere di quella che il poeta di Cupra Marittima chiama la “costruzione del poema”. Chi scrive infatti “non può pensare che tutto sarà abbattuto, o che sia ormai inutile o perduto…Spera. Deve sperare”. La parola e l’amore che si nutre per essa sbocciano infatti su un crinale assai scivoloso che sta simultaneamente dentro e fuori dal tempo storico e costantemente ci segnala nuovi orizzonti, anch’essi dentro e fuori la storia: “L’amore della lingua contiene gli altri amori, dal loro annuncio alla loro consumazione. Va oltre”. Ed è in questo andare che la parola spezza le catene della “turbinosa” vicenda umana e, pur restando a questa ”gemella”, è capace di generare “l’altra nascita”:

Accoglienza della prosa

Quando esci, parola,
di scatto o pensierosa

e vai in compagnia
per sciogliere la pena

ti seguo per via
ti lascio andare

anche se la scena
non è che turbinosa…

né ti chiedo di rientrare
né al mio respiro ti piego

tu sei l’altra nascita a me
la gemella dagli occhi chiari

Ritornano in mente i versi di Dante: “Trasumanar significar per verba / non si porìa: però l’essemplo basti / a cui esperïenza grazia serba.” Non si potrebbe ma accade. E la parola chiave per entrare nell’esperienza salvifica di trascendere la natura umana è “grazia”, la divina gratuità del bene, del bello, del giusto. Esperienze di cui vi sono pur tracce anche nella comune vita terrena. Ma la parola “grazia” non la troveremo nel villaggio oscuro”. Un’assenza che pesa, carica forse di significati da disvelare e che comunque ci induce ad una ricerca più attenta. E infatti restano aperti tutti gli impervi sentieri – “un tortuoso arrancare” – e quella caparbia ostinazione a “sperare” attraverso la quale, forse proprio perché non nominata né evocata, la “grazia” potrebbe finalmente “entrare in quell’inizio // che non conosce il male e nessun pegno”. Sono i versi con i quali il “poema” si chiude. Un lungo cammino è stato percorso nelle tenebre. Anche un angelo sceso “nella stanza muffosa” non fu fatto entrare e quel rifiuto resta imperdonabile, seppur dall’angelo stesso già perdonato. Ma proprio gli ultimi versi lasciano intravedere la reale possibilità della Contemplatio di cui aveva teorizzato Riccardo. Da qui può nascere una nuova poesia che, conoscendo e assumendo tutto il male, sa però indicare un percorso – “e inoltrarsi fino alla grotta / dove ci scoprimmo umani” – e farci ancora partecipi della serenità del bene:

(non mi rassegno)

chissà se dopo un tortuoso arrancare
s’arriva a un chiaro punto di snodo
da cui scorgere un luogo senza danno…

oppure, abbandonata la finestra,
scavare sotto la propria soglia
e scansare imbucarsi scurricolare

e inoltrarsi fino alla grotta
dove ci scoprimmo umani

(e non nati al solo declinare,
quali siamo, malati deviati
che mai vedremo il tempo nuovo)

e nei graffiti reperire il segno
d’un altro seme e nel silenzio
entrare in quell’inizio

che non conosce il male e nessun pegno

paolo.ottaviani@libero.it

 

L'autore

Paolo Ottaviani
Paolo Ottaviani è nato a Norcia nel 1948 e vive a Perugia. Laureato in Filosofia con una tesi su Giordano Bruno, ha pubblicato negli Annali dell’Università per Stranieri di Perugia saggi sul naturalismo filosofico italiano. È stato direttore della Biblioteca della medesima Università e ha fondato la rivista Lettera dalla Biblioteca. In poesia ha fra l’altro pubblicato: Funambolo (Edizioni del Leone, Spinea, 1992) con prefazione di Maria Luisa Spaziani; Geminario (Edizioni del Leone, 2007), poemetto bilingue vergato in un idioletto neo-volgare e in lingua italiana, con una nota di Paolo Ruffilli;  Il felice giogo delle trecce (LietoColle, 2010) vincitore del Premio “Verba Agrestia”; Trecce sparse (Grafiche Fioroni, 2012) quaderno d’arte diretto da Eugenio De Signoribus; Nel rispetto del cielo (puntoacapo Editrice, 2015) con postfazione di Mauro Ferrari; La rosa segreta – Velate assenze d’armoniche rime (Manni Editori, 2022).