L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Ho letto questo ricordo di Chiara Frugoni (scomparsa il 10 aprile 2022) a Ferrara, nella sala Agnelli della Biblioteca Ariostea, nel pomeriggio di venerdì 21 aprile 2023, su invito della Associazione Amici della Biblioteca Ariostea. Alla fine dell’articolo si troverà un pdf dal titolo “Ricordo di Chiara Frugoni” con le immagini che ho proiettato quel giorno, e che costituiscono parte integrante del mio discorso. Il legame fra parole, immagini, emozioni, ricostruzione storica, fu per Chiara Frugoni un nodo indissolubile, su cui si fondarono la sua visione del mondo e il suo metodo di ricerca.
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Tenerezza è la prima parola che mi spunta sulle labbra pensando a Chiara, la santa di Assisi. E non è un caso se da quella meravigliosa battezzatrice abbia tratto un nome parlante e una tenera forza tenace anche Chiara Frugoni (ILL. 2), che sulla Chiara francescana ha scritto una biografia mirabile, Una solitudine abitata. Chiara d’Assisi (Laterza 2006). Nomen est omen, si vorrebbe dire, riandando con la mente alla celebre quartina montaliana degli Ossi di seppia:
Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è la ventura delle venture.
Chiara Frugoni incantava per la «chiarità» del suo parlare, pensare e scrivere, per la semplicità, conquistata con immenso lavoro di scavo e di selezione, con cui riusciva a far aggallare «le cose oscure» illuminandole nella propria ricerca, sempre tessuta di parole e immagini, in un intreccio di mirabile dottrina e rarissima eleganza: stile di pensiero incarnato a perfezione in stile di scrittura. Lo splendore del suo metodo di lavoro si lega soprattutto a quest’accoppiamento giudizioso: di qua immagini scelte, in una sterminata disamina, perché capaci di raccontare la Storia con la maiuscola annodando fra loro le storie con la minuscola, dettagli figurativi scovati con geniale fiuto per il granello di polvere, per la briciola, per il taglio prospettico che condensa il significato dell’insieme; di là parole sensibili, vibratili, dotate di energia in cui si focalizzano discorsi ampi e profondi, rispecchiati proprio nelle figure, nelle “illustrazioni”. Soprattutto, le immagini sono (come le paroles gelées di Rabelais) voci congelate di una civiltà, che restituiscono silenziosamente la parola alle “piccole storie”, alle “piccole cose quotidiane” sperdute nell’oceano delle “cose grandi”. Il progetto di Chiara Frugoni è limpido fin dai titoli, eloquentissimi, colmi di ironia e di affabilità: Una lontana città. Sentimenti e immagini nel medioevo (Einaudi 1983); La donna nelle immagini, la donna immaginata (saggio compreso nella Storia delle donne, Laterza 1990); Francesco e l’invenzione delle stimmate. Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto (Einaudi 1993); Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali (Laterza 2001); L’affare migliore di Enrico. Giotto e la cappella Scrovegni (Einaudi 2008); La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo (Einaudi 2010); Vivere nel Medioevo. Donne, uomini e soprattutto bambini (Il Mulino 2017); Donne medievali. Sole, indomite, avventurose (Il Mulino 2021).
Nella mia copia di Vivere nel Medioevo ho conservato un delizioso calendarietto dal titolo Giorni medievali, che immagino (non ricordo bene) sia stato unito al volume per cura editoriale: vi sono isolate alcune immagini di straordinaria tenerezza, accompagnate da didascalie che da sole valgono un intero racconto. Soprattutto appassionano Chiara le donne in tutti i loro ruoli nella cultura medioevale: in primo luogo quello di sposa e di madre. E allora ecco le culle (ILL. 3), dove può nascondersi anche il diavolo, che assume le forme di un neonato rapito, come in Matteo di Bartolomeo (ILL. 4); ecco le bambole (ILL. 5), i piccoli che imparano a camminare nei “girelli” (ILL. 6-7), i neonati nel porte-enfant sulle spalle della madre in viaggio (ILL. 8), ecco i giochi infantili, ma anche per adulti, come i burattini (che trae dai bas-de-page strepitosi del mio amatissimo ms. Bodley 264, il più fascinoso Roman d’Alexandre di ogni tempo: ILL. 9-11). La donna e la sua condizione storica sono centrali, fin dalla copertina (ILL. 12) dove, cogliendo con un flair da naso-per-tartufi un dettaglio formidabile in un codice della Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi (ms. 5206, del 1490 circa), Chiara gioca sullo slittamento dello sguardo mentale dal letto (in cui il sesso è solo castamente immaginato) al concepimento e all’infusione dell’anima, che vola in camera soffiata dalla Trinità, sulla sinistra (ILL. 13). Commenta Chiara nel libro: «Una miniatura permette di osservare minutamente la camera nuziale appena immaginata, nel momento in cui gli sposi stanno concependo il loro bambino e contemporaneamente gli viene infusa l’anima. Nella stanza, descritta in modo estremamente realistico, irrompe il trascendente»; e il calendarietto sintetizza, allusivo: “Da sposi a genitori”…».
Ma la pagina del libro in cui viene analizzata la miniatura è un piccolo capolavoro di cesello e di leggerezza ironica che si troverebbe a suo agio nelle Lezioni americane di Italo Calvino, e che varrà la pena di citare come esempio peculiare del tenero, fremente abbraccio fra parole e immagini in tutta la ricerca di Chiara Frugoni: «Nella nostra miniatura i due sposi che giacciono l’uno accanto all’altro quietamente supini emergono dalle lenzuola con le spalle nude ma con i capelli avvolti, la donna da una candida cuffia, l’uomo da un altrettanto candido copricapo. Lo sposo ha gli occhi aperti e osserva il bimbo in volo, consapevole di quanto stia avvenendo; la sposa ha le palpebre abbassate ma non chiuse: un modo per sottolineare il suo ruolo pudicamente passivo. Sul letto è adagiata una folta pelliccia, proprio come si augurava il Mesnagier de Paris [un trattato di economia domestica del 1393, su cui il libro si è aperto]. Sempre per soffrire meno il freddo, il letto è issato su una pedana di legno che lo isola dal pavimento dove sono state abbandonate pantofole e babbucce. Non si vedono abiti. Saranno stati deposti forse in un’altra stanza, ma certamente gettati sopra una stanga appesa al soffitto: al riparo dei topi le vesti, al riparo da punture di insetti, almeno nella notte, i dormienti». E qui una nota rinvia alla Storia di un giorno in una città medievale, che Chiara Frugoni pubblicò teneramente, nel 1997, come coautrice di suo padre, il grande storico medioevale Arsenio, scomparso nel 1970, ma vivo ancora un quarto di secolo più tardi grazie alla voce raddoppiata di sua figlia: anche cognomen est omen!
Ma ecco, di colpo, nel ragionamento di Vivere nel Medioevo il tono “da camera” si fa sinfonico, e lo sguardo affettuoso e sorridente di Chiara passa dal microscopico al macroscopico, dalla piccola storia a quella Grande: prende le distanze, si allontana per riconoscere la struttura quasi archetipica dell’immagine, secondo un metodo perfettamente warburghiano (lo aveva applicato con grande precocità discutendo con Paola Barocchi e Lelia Cracco Ruggini, alla Scuola Normale Superiore, la tesi di perfezionamento preparata all’Istituto di Londra, che cinque anni più tardi, nel 1973, sarebbe diventata uno fra i libri più strepitosi sull’argomento: Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem. Origine, iconografia e fortuna di un tema: ILL. 14). E allora, come sempre avviene nella scrittura di Chiara Frugoni, quello che definirei il suo warburghismo trascendentale svetta stagliandosi con una potenza ermeneutica di grande envergure, senza mai che rallenti il magnifico respiro della prosa, con un passaggio dall’allegro vivace a un adagio pensoso e a un andante con brio: «Il dettaglio è ben sottolineato nell’affresco dell’Annunciazione dipinto da Jacopo da Verona nel 1397 a Padova [ILL. 15] dove la Vergine è interrotta nelle sue pie letture dall’arrivo della colomba dello Spirito Santo (se ne è accorto anche un cagnolino che ringhia sulla seggiola mentre imperturbabile un bel gattone dorme su un cuscino-poggiapiedi posato a terra). Davvero dedita a letture ininterrotte, Maria, perché non solo tiene in mano un libro ma altri libri, oltre ad una lucerna, sono posati sull’elaborata ma dura panca su cui siede, e ancora libri vediamo disposti sulla mensola di legno sopra il letto dove andrà finalmente a riposarsi. L’ampio mantello e il lungo velo sono invece al sicuro, appesi al soffitto ad una robusta stanga». Dietro l’onesta sposa che accoglie ad occhi chiusi l’animula infusa in lei dallo Spirito attraverso l’accoppiamento nuziale con il marito emerge, grazie all’acuto sguardo che perfora l’immagine, un’epifania metafisica, la storia della salvezza sulla cui struttura formale si scandisce la vita quotidiana degli uomini e delle donne nel Medio Evo.
Dallo stesso libro, Vivere nel Medioevo, vorrei trarre almeno un altro esempio che offra testimonianza delle nozze di Mercurio e Filologia officiate con passo di danza da Chiara Frugoni nelle sue ricerche insieme scintillanti e profonde, così puntuali e di respiro tanto largo da stringere insieme le due dimensioni che Calvino, nella “lezione americana” sull’Esattezza, identificava allegoricamente con il cristallo e la fiamma, e in quella sulla Rapidità con le figure contrapposte e complementari di Mercurio e Vulcano: «la sintonia, ossia la partecipazione al mondo intorno a noi», e «la focalità, ossia la concentrazione costruttiva». Ancora una volta mi fermerò sul ruolo del femminile nella cultura dell’età di mezzo, e in particolare su uno dei suoi aspetti più teneri e impensati.
Dopo aver dedicato il capitolo 6 (Molti giochi, pochi giocattoli) a una innumerevole, pullulante presenza di bimbi che si divertono, illustrata soprattutto attraverso i fantasiosi e allegrissimi bas de page del Bodley 264 che ho già ricordato, ecco che nel capitolo 7 («Una stanza per sé»), che si impernia fin dal titolo virginiawoolfiano sulle possibilità offerte alla donna per «far emergere i propri talenti» mediante un gesto culturale, si offre una risposta in cui le figure femminili del Medio Evo vengono alla luce, “si chiariscono”, nel riverbero dello sguardo di una grande intellettuale del primo Novecento. La risposta della Woolf, nel saggio uscito nel 1929, apriva già l’esplorazione della Frugoni: «per poter scrivere, una donna doveva avere soldi e una stanza tutta per sé». Dopo aver rammentato che anche l’imperatore Carlo Magno, «morto nell’814, non fu mai capace di imparare a scrivere, pure esercitandosi», Chiara Frugoni fa galleggiare, quasi esponendo un negativo in camera oscura, la figurina fino a quel momento del tutto invisibile di «una giovane, una monachella di Essen dell’inizio del X secolo», la quale «aveva talmente voglia di imparare e studiare da scrivere un messaggio alla badessa perché una certa sera le fosse permesso di non andare a dormire all’orario seguito da tutte le consorelle, ma di poter continuare a studiare con la sua insegnante. In uno spazio lasciato libero dell’ultima pagina di un codice miscellaneo dell’inizio del IX secolo contenente vite di martiri, inni, testi biblici e patristici e relativi commentari, usato a Essen nel X secolo come libro di insegnamento, possiamo leggere proprio quanto scrisse questa fanciulla di cui purtroppo non sappiamo il nome: [ILL. 16] “Maestra e signora, reverenda Felhin, vi chiedo il permesso stanotte di rimanere sveglia assieme alla maestra Adalu, ed a mani giunte vi giuro che per la notte intera voglio solo declinare, leggere e cantare in lode di Nostro Signore. Vi saluto, pregandovi di concedermi quello che vi chiedo”. Un’altra mano, certo quella della reverenda Felhin scrisse: “Vi saluto, nel nome di Nostro Signore».
Come in un minimo, incantevole “racconto mensile” da libro Cuore del X secolo, questa piccola scrivana tedesca senza nome, a cui Chiara Frugoni, portando «alla chiarità le cose oscure», restituisce con un gesto di grande valore umanistico un profilo e un’identità di altissimo slancio simbolico, anzi perfino allegorico, incarna al contempo l’ideale di una bimba che vuol continuare a giocare e di una donna che vuol continuare a imparare, di un piccolo essere desideroso di vita e di cultura, che sa dar corpo non solo alla lingua latina e alla scrittura (strumenti che utilizza in maniera straordinariamente efficace), ma alla rara esperienza, di modernità sconvolgente, di un’espressione verbale compiuta, emozionante, della propria interiorità più segreta, della propria incommensurabile tenerezza.
Nessuno ha mai scritto, ancora, una storia della tenerezza: emozione rara, fragile, sentimento prezioso di cui abbiamo tutti necessità, bisogno fisico e psicologico. Il recentissimo libro dello psichiatra Eugenio Borgna (Tenerezza, Einaudi 2022) è, a mia conoscenza, il primo tentativo in questa direzione: però è un libriccino che si limita a proporre qualche riflessione di carattere assai generale sulla tenerezza come fondamento delle relazioni interpersonali, quale itinerarium cordis verso la percezione della presenza umana propria e altrui «come corpo vivente nella carezza, e con solo come corpo anatomico, come corpo che si apre agli orizzonti della trascendenza, e non è chiuso nella prigione della immanenza» (p. 95). Il lavoro di Chiara Frugoni, a mio parere, è fra i contributi più alti e storicamente sostenuti per l’avvio della storia della Tenerezza che ho in mente. Chiara o della Tenerezza, appunto.
Non solo gli umani, ma ogni creatura cerca tenerezza, dalla nascita fino all’ultimo istante di vita. Non è facile, però, dire che cosa sia la Tenerezza, come la si possa definire esattamente, cercando di circoscrivere in parole precise questa impalpabile forma di affettività, questo moto dell’animo che si fa sentire soprattutto di fronte ai cuccioli, ai piccoli, ai bambini, alle mamme, alle creature indifese, ai malati, ai vecchi. Sarà quasi impossibile «afferrare» la tenerezza, che pur percepiamo tutti, che sentiamo dinanzi a situazioni e a momenti rari, nei quali ci sembra di non poter trattenere le lacrime. Per tenerezza si sorride, ma si piange, anche. La tenerezza si lega non certo alla passione, quanto alla compassione, alla condivisione dell’umanità, delle sue radici profonde.
Cogliere e rappresentare la Tenerezza significa in primo luogo, appunto, raggiungere il cuore dell’umano. Lo ha insegnato, con una straordinaria formula che è nella mente di tutti noi, Marc Bloch, maestro di medievistica e di storia. «La qualità sovrana dello storico» è la «capacità di afferrare il vivente», scriveva Bloch nella magnifica Apologia della storia, rimasta incompiuta al momento della sua fucilazione da parte di un plotone tedesco nei pressi di Lione, il 16 giugno 1944. E invocava il flair e la sensibilità per «il fremito della vita umana», tornando poi, molte pagine più tardi, su questa idea che è il basso continuo della sua grande sinfonia: «Per fare una scienza, occorreranno sempre due cose: una realtà, ma anche un uomo».
Questo grande libro di metodo e di pensiero fu pubblicato postumo da Lucien Febvre, nel 1949, e poi sui manoscritti da Étienne Bloch, figlio di Marc, che sarà stato, immagino, il «giovinetto che mi è molto caro» autore della domanda, tanti anni prima: «Papà, spiegami allora a che serve la storia?», alla quale il testo si fingeva «la […] risposta». Una simile dimensione pedagogica, anzi addirittura parenetica, aumenta, mi pare, il valore e la potenza dell’invito a cogliere il «fenomeno umano» come «l’anello di una catena che attraversa le età», sfuggendo sia al modello dei «cercatori d’origini» sia a quello, agli antipodi, dei «devoti dell’immediato». Chiara Frugoni, nella sua vasta e variegata ricerca, ha sempre avuto come obiettivo principale afferrare l’umano, nel solco di questo rigoroso e appassionato ethos a pieno titolo umanistico.
«L’oggetto della storia», scriveva ancora Bloch, «è, per natura, l’uomo. O meglio: gli uomini. Più che il singolare, favorevole all’astrazione, il plurale, che è il modo grammaticale della relatività, conviene a una scienza del diverso»; «Lo studioso che non abbia il gusto di guardare intorno a sé, né gli uomini, né le cose, né gli avvenimenti, meriterà forse, come diceva Pirenne, il nome di prezioso antiquario. Opererà saggiamente rinunciando a quello di storico». Quasi stesse raccontando al «giovinetto» Etienne una favola ombrosa per accompagnare nei sogni il suo sonno (ancora una volta nel cuore della ricerca si annida un giovane, un adolescente, un bambino!), Bloch oppone al «manovale dell’erudizione», gelido di fronte agli «uomini che la storia vuole afferrare», lo storico, la cui natura è invece sanguigna: «il bravo storico […] somiglia all’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda». Fiutare carne umana, dunque, cercare «l’umano» è lo scopo del flair, dell’olfatto che appare la prima, necessaria dotazione direi antropologica di ogni storico: ed è anche, aggiungo, sfidando le convenzioni che assimilano la filologia alla matematica e alla logica, il senso fondamentale anche per ogni filologo che riconosca la propria disciplina come ermeneutica storica dei testi.
Nella sua tenera attenzione per la Tenerezza nei confronti dell’«umano», della «carne umana», Chiara Frugoni ha superato certi rischi del warburghismo, un’ansia ancora positivistica di schematizzare e accostare per analogia, di cogliere e classificare innumerevoli microdettagli per restituire una complessa morfologia diacronica e interculturale delle emozioni e delle espressioni. Il Medio Evo quotidiano e umanissimo che Chiara ha portato a chiarità è l’«umano», è la «carne umana», nel più pieno e completo senso del termine.
Estraggo dai mille possibili un solo esempio, che riguarda materialmente la chiarità, la visione limpida e luminosa del mondo. Già nel 1983, in Una lontana città. Sentimenti e immagini nel medioevo, Chiara Frugoni, riconoscendo la grande novità epistémica della rappresentazione dello spazio nei pittori rinascimentali, grazie a una rabdomantica percezione dei mutamenti profondi rispecchiati in semplici oggetti della quotidianità la poneva in rapporto con due prospettive in apparenza estranee, ma antropologicamente connesse: «il diffondersi dei vetri» che «ha portato come abitudine la possibilità di vedere oltre il riquadro della finestra», e «l’evolversi delle forme politiche» che «dando coralità al sentire cittadino ha permesso anche una realistica e compenetrata percezione dello spazio, quello esterno e quello interno; e così come la concordia e la cooperazione è sentita, almeno ideologicamente, necessaria per la vita della città, allo stesso modo è percepito e rappresentato il rapporto tra la casa e le altre case, fra edifici e il paesaggio. Il rapporto non c’è solo fra individui ma fra diversi spazi, sia fra quelli costruiti dall’uomo che fra questi e quelli della natura» (p. 125).
Quasi vent’anni più tardi, nel 2001, al vetro e alla sua potenza di aiutare l’uomo nel costruire, in senso anche letterale, una nuova “visione del mondo”, Chiara Frugoni dedica quasi per intero un libro, Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali. L’avvio è già un caleidoscopio, un meraviglioso giocattolo intellettuale e storico-culturale che smonta e rimonta la lista di eteroclite, incommensurabili “minuscole cose fondamentali”, con il ritmo divertito e divertente peculiare della sua scrittura, forse prendendo a modello l’apocrifa enciclopedia cinese inventata da Borges, con cui nel 1966 Michel Foucault apriva Les mots et les choses: e rilevava, Foucault, che il riso prodotto da quel testo «scombussola tutte le familiarità del pensiero» e «sconvolge tutte le superfici ordinate e tutti i piani che placano ai nostri occhi il rigoglio degli esseri, facendo vacillare e rendendo a lungo inquieta la nostra pratica millenaria del Medesimo e dell’Altro».
Così Chiara Frugoni dà il via al suo Medioevo sul naso: «Cosa dobbiamo al Medioevo? Provo ad enumerare alcune voci: gli occhiali, la carta, la filigrana, il libro, la stampa a caratteri mobili, l’università, i numeri arabi, lo zero, la data della nascita di Cristo, banche, notai e Monti di pietà, l’albero genealogico, il nome delle note musicali e la scala musicale. Il Medioevo ci dà i bottoni, le mutande e i pantaloni; ci fa divertire con le carte da gioco, i tarocchi, gli scacchi e il carnevale, lenisce il dolore con l’anestesia, ci illude con gli amuleti (ma il corallo, che protegge i bambini e dal fulmine, aiuta anche a sgranare il rosario). Ha portato nella casa il gatto, i vetri alle finestre e il camino; ci fa sedere a tavola (i Romani mangiavano sdraiati) e mangiare, con la forchetta, la pasta tanto amata, proprio i maccheroni e i vermicelli, la cui farina viene instancabilmente macinata dai mulini ad acqua e a vento. […] Ha cambiato il nostro senso del tempo, su questa terra, con l’orologio a scappamento, introducendo le ore di lunghezza uguale e non più dipendenti dalle stagioni; ha cambiato il nostro senso del tempo, nell’aldilà, perché ha fatto emergere un terzo regno, il purgatorio, che rompe i destini immutabili dell’eternità. Infine, fa sognare i bambini con Babbo Natale».
In una pagina si accumulano come in un magazzino della storia oggetti e comportamenti, cambiamenti radicali di idee e microscopici adattamenti nel gesto e nel modo di esistere, forme di vita, maniere di stare al mondo. Nella lista tornano, quasi inavvertiti, «i vetri alle finestre», specie quelli colorati che entrano nelle case private tra la fine del Tre e l’inizio del Quattrocento, e con loro «gli occhiali», che irrompono già nel titolo e nella copertina, con l’ironico Virgilio di Ludger tom Ringer il Vecchio, dalla serie di Sibille e Profeti del duomo di Münster (ILL. 17): un affresco molto tardo, del 1588, ma che potrebbe benissimo rappresentare Francesco Petrarca, il quale due secoli e mezzo prima (lui era del 1304), nella lettera Ai posteri cominciata e interrotta nel 1351, ripresa negli ultimi anni di vita, raccontava come passati i sessanta avesse dovuto ricorrere all’uso delle lenti («…ut indignanti michi ad ocularium confugiendum esset auxilium»). E Giordano da Pisa, predicatore domenicano, mentre teneva il quaresimale del 1305 a S. Maria Novella, intonava un inno all’inventore delle lenti miracolose: «Non è ancora vent’anni che si trovò l’arte di fare gli occhiali, che fanno vedere bene, ch’è una de le migliori arti e de le più necessarie che ’l mondo». Accanto a Giordano, a Petrarca, a Virgilio, l’erudizione sofisticata quanto giocherellona di Chiara Frugoni accumula ritratti di occhiuti fraticelli e cardinali (ILL. 18), calligrafi e farisei, usurai e santi, dipinti con i loro pince-nez colorati sul naso. Perfino l’evangelista Luca, in una miniatura tre-quattrocentesca oggi alla Pierpont Morgan Library di New York (ms. 331, fol. 187r: ILL. 19), compone il suo Vangelo con un anacronistico, quasi fantascientifico paio di occhiali appoggiati con grazia sul naso. Talora gli occhiali non sono in vista, e rimangono segretamente nascosti in un astuccio legato alla cintola (ILL. 20): dettaglio che non sfugge allo sguardo da Sherlock Holmes della ricercatrice di tracce, di indizi, secondo l’intuizione di Carlo Ginzburg nel celebre saggio del 1979 (Spie): «Il conoscitore d’arte è paragonabile al detective che scopre l’autore del delitto (del quadro) sulla base di indizi impercettibili ai più». Il “suo” Medioevo, Chiara stessa lo porta non solo nella mente e nel cuore, ma proprio “sul naso”; e una volta che lo ha poggiato lì, sull’appendice meno elegante e lirica del corpo, quella che Petrarca evitava di descrivere in Laura, canta le lodi di quest’epoca che ha intriso l’intera sua esistenza: «Ogni mattina, da un po’ d’anni, il primo gesto del risveglio che compio mi fa tornare il mondo come mi appariva vent’anni fa, grata alla bellissima invenzione medioevale degli occhiali». Tenerezza di un gesto quotidiano, di una confessione che svela la coscienza del trascorrere della vita, e la affida alla minuzia di una “piccola cosa di ottimo gusto”.
«Infine, fa sognare i bambini con Babbo Natale», diceva Chiara sigillando la sua lista di doni che il Medio Evo ha offerto alla Modernità. E nelle ultime parole del libro, circolarmente, il tema riemerge: «Babbo Natale è quel che resta di san Nicola, o meglio restava, prima dell’ultima trasformazione operata dalla réclame della Coca-Cola, che lo volle con casacca e pantaloni rossi (non più con l’abito lungo, “da vescovo”) grasso e ridanciano, come possono essere gli americani. Dopo tante invenzioni concrete, mi piace chiudere con la sirena-ondina e Babbo Natale-Nicola, nati nel mondo della fantasia medievale. Diedero forma all’emozione e alle paure dei grandi, all’emozione e ai desideri dei piccoli; oggi fanno sognare i bambini e sorridere gli adulti che li ascoltano». In quella tenerissima e nostalgica «autobiografia con figure», come lei stessa chiamerà, una decina d’anni più tardi, Perfino le stelle devono separarsi (Feltrinelli 2013), riscattando le antiche radici Chiara tornerà sui sogni natalizi a Brescia, in casa di nonna Dina, povera, dove viveva «un po’ da piccola fiammiferaia»; e là ritrova, secondo una tradizione settentrionale, non Babbo Natale-Nicola, ma santa Lucia: la quale «non passava perché, dovendo visitare in una stessa notte tanti bambini, scendeva solo nelle case dove abitavano di solito. […] Anche santa Lucia, subito dopo la guerra, non riusciva a procurarsi abbastanza giocattoli per accontentare tutti i bambini e rimediava spiegando loro che dovevano essere più buoni per meritarsi quanto chiedevano» (p. 101). Non ricevendo doni da una santa Lucia impoverita, nell’immediato dopoguerra, la bambina Chiara comincia a inventare il “suo” Medio Evo come giocattolo: e negli anni, diventando studiosa, lo costruisce e lo smonta, lo coccola, lo vezzeggia, ne fa il regalo per sé e per noi lettori. La «piccola fiammiferaia» porta chiarità al mondo.
Proprio nel finale di Medioevo sul naso, nella pagina che precede quella su Babbo Natale, si propone un eccellente esempio su cui impiantare una storia della virgola, su cui da anni io stesso medito, insieme a una storia del “ma” e a una della Tenerezza. Minuzie apparentemente senza valore, briciole, polvere depositata dall’oblio sui testi e sulle parole. La contemplazione del minuscolo, del millimetrico, apre alla conoscenza di verità segrete. Prendono forma nel contempo una gnoseologia del minimo e un’estetica dell’umile e dell’inutile. Sullo sfondo s’intravede, addirittura, una storia o un’ermeneutica dell’intervallo, del gap. In quell’interstizio può celarsi un’interpretazione di un testo innovativa, così come ce la offre Chiara Frugoni.
Come si sa, «per un punto Martin perdé la cappa». La storiella cinquecentesca racconta che l’abate Martino pensò di salutare gli ospiti del suo monastero con un bel cartello: Porta patens esto. Nulli claudatur honesto, cioè «La porta resti aperta. Non sia chiusa a nessun uomo onesto». Tuttavia per un attimo di distrazione, minima e fatale, l’incisore scolpì: Porta patens esto nulli. Claudatur honesto, cioè «La porta non resti aperta per nessuno. Sia chiusa all’uomo onesto». Il papa, infuriato per quel punto fuori posto, che rovesciava il senso dell’accoglienza cristiana, tolse a Martino la cappa di abate. E colui che ne prese il posto, perfidamente spiritoso, fece scrivere: Uno pro puncto caruit Martinus Asello, ossia appunto «Per un solo punto Martino perse Asello».
Dell’errata disposizione della virgola, invece, nessuno sembra preoccuparsi molto. Il danno appare assai più lieve, perché la modesta, timida virgola non è imperativa, non sancisce una condanna, ma lascia sempre aperta una potenzialità. È una finestra socchiusa verso l’oltre, non una siepe che dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Però la scabra verghetta (questo significa virgula in latino: «piccola virga, bastoncino») ha una sua logica forte, persino prepotente, che richiede uno studio e un’applicazione ormai sempre più sfilacciati, sentiti quasi come un vezzo inutile, un’esagerazione da parrucconi. Eppure, quando si dice “rimettere a posto le virgole in un testo” si intende “passarlo al setaccio”, “valutarlo nei dettagli”. Chi sa “usare le virgole” è padrone del suo pensiero e del testo che ne deriva; conosce il ritmo del respiro mentale e stilistico; diffida della semina di virgole che molti compiono a fine scrittura, lanciando piccoli gambi di fiorellini appassiti sulla pagina costellata di parole: cadano dove vogliono, tra i rovi e i sassi, o nella terra feconda.
Ecco il minuscolo, minuzioso restauro di una virgola con cui Chiara Frugoni intacca e «porta a chiarità» una «cosa oscura» di cui gli storici moderni non si erano mai avveduti: «Lo storico Flavio Biondo, verso la metà del XV secolo, aveva parlato della bussola inventata e perfezionata dagli Amalfitani; il filologo bolognese Giambattista Pio nel 1511 riportò la notizia in questo modo: “Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita, da Flavio si dice” (“Amalphi in Campania veteri magnetis usus inventus, a Flavio traditur”). Lo scrittore intendeva dire: “Flavio dice che” ponendo una virgola dopo “inventus”. Invece chi riportò successivamente la notizia spostò la virgola, modificando radicalmente il significato: “Ad Amalfi, in Campania, fu inventato l’uso della calamita da Flavio, si dice”, intendendo dunque che Flavio (Biondo) avesse inventato la bussola. Per la stravaganza poi di uno storico napoletano, Scipione Mazzella, Flavio sarebbe nato a Gioia in Puglia, ma avrebbe inventato la bussola ad Amalfi, in Campania. Ad Amalfi, fino a non molti anni fa, c’era ancora il monumento a Flavio Gioia, “l’inventore della bussola”, in realtà mai esistito, nato per l’errore di una virgola!».
Con mossa geniale, da grande storico che è al contempo un illusionista, e quasi un giocatore delle tre carte, Chiara sottrae alla storia il fantasma nato e incarnato «per l’errore di una virgola»: in un battito d’ali «Flavio Gioia» diventa un’invenzione da Circo Barnum, una folata di fumo, un nulla fatto nome. Per venire a un’altra virgola fatale nella ricerca di Chiara Frugoni occorrerà parlare in breve di Una solitudine abitata (ILL. 21), il libro che nel 2006 dedicò alla sua santa eponima: la prima compiuta ricerca sulla grande compagna di Francesco nell’avventura che ha mutato radicalmente l’antropologia e la cultura del sacro rispetto alla civiltà monastica dell’Alto Medio Evo, e sul peso che la sua canonizzazione, voluta da Innocenzo IV, svolge nell’assimilazione d’un nuovissimo modello esistenziale presso la parte femminile del laós, il popolo dei laici, cui per la prima volta viene offerta una forma vitae appositamente pensata e scritta “al femminile”. Come un latte nutriente le parole di Francesco vi sono assorbite e metabolizzate, si femminilizzano, si incarnano in parola e spirito nella realizzazione di un magnifico progetto utopico: una comunità di donne che porti a maturazione la fraternitas francescana di stampo evangelico in una mai prima pensata sororitas. Nella ritrovata armonia edenica la frattura tra il maschile e il femminile, cui si addossa la responsabilità prima della tentazione originaria, viene così virtualmente cicatrizzata, ed è infine restituita all’uomo, al mondo, la compagnia tenera, gioiosa e necessaria di una soror e sponsa nell’affettuoso matrimonio spirituale che si celebra attraverso la rilettura del Canticus canticorum, in intreccio polifonico con il Canticus creaturarum. L’incontro tra Chiara e Francesco introduce un soggetto nuovo nell’orizzonte del santo e del suo Ordine, dal quale inizialmente le donne vere, reali, erano state tenute lontane. Un riverbero di stampo cortese di quest’incontro amoroso lo si coglierà nel più tardo Sacrum commercium Sancti Francisci cum Domina Paupertate, in cui il “commercio”, lo “scambio”, il “patto” spirituale, hanno la natura dell’amor de lonh dei trovatori provenzali, arduo esercizio di affinamento interiore.
Con Una solitudine abitata Chiara Frugoni adempie la promessa implicitamente depositata dieci anni prima nella biografia di Francesco (Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 1995: ILL. 22), dove, portando alla luce (pp. 91-92) le testimonianze storiografiche del «debole impegno dell’Ordine a rendere presente la figura della santa» e la conseguente «scarsissima fortuna iconografica di Chiara, assolutamente opposta a quella del fondatore», già sottolineava lo «spessore inaspettato» assunto dall’incontro con Francesco, «perché questi dovette scorgere nell’entusiasmo meditato di quel volto, specchiandosi come in uno specchio terso, una profonda consonanza spirituale». Della complessa vicenda dell’immaginario figurativo che coinvolse Francesco la stessa Frugoni aveva appena restituito analiticamente le tappe decisive, nel già ricordato Francesco e l’invenzione delle stimmate (1993: ILL. 23) che continua a sembrarmi un capolavoro della moderna storiografia, soprattutto per il dominio di un numero impressionante di fonti e per la limpidezza metodologica con cui si annodano fili figurativi e testuali, e si restituisce la storia delle metamorfosi subìte lungo il Duecento (insieme «raccontata» e «raffigurata»: Una storia per parole e immagini fino a Bonaventura e Giotto, suona il sottotitolo) dalla figura di Francesco nell’immaginario collettivo, nelle pratiche devote, nelle differenti e spesso contrastanti espressioni ideologiche che attraversarono l’Ordine dei Minori e l’intera civiltà comunale.
In Una solitudine abitata Chiara Frugoni ha colto il risalto del femminile segretamente protetto nel cuore del francescanesimo. Chiara è «la prima pianticella di Francesco», lievito e manna, arca di un’alleanza duratura, utopico e tenerissimo pane del domani che frutterà dal seme luminoso che l’alter Christus ha piantato. Chiara è prima di tutto luce, chiarità. Una teologia della luce e un’antropologia del calore luminoso si fondono attraverso le parole e le immagini, riverberando l’idea di fondo su un unico livello di percezione e decodifica. Durante il processo di canonizzazione, sigillato dalla bolla Clara claris praeclare, si riferisce un racconto della stessa Chiara: quando la madre Ortolana «era gravida de lei, andò alla chiesia, et stando denante alla croce […] audì una voce che li disse: “Tu parturirai uno lume che molto illuminerà el mondo”».
Ancora una volta, nomen omen. Vissuta «all’ombra e dell’ombra di Francesco», Chiara d’Assisi è destinata a illuminare il mondo con la coloritura della nuova creaturalità francescana svolta in un «gioioso apprezzamento del creato» da cui sgorga un’affettuosa sua lode declinata al femminile. E di nuovo la raccolta di immagini realizzata dalla Frugoni è un tesoro iconografico senza pari, preziosa ricomposizione di un sistema di «icon[e] agiografic[he]» che, come già nell’Invenzione delle stimmate, restituiscono insieme l’evoluzione ideologica del punto di vista ufficiale e di quello “popolare” intorno alla santa, e sopra ogni cosa, con sottile prospezione, il progressivo accendersi dei «colori delle emozioni» legate alla sua devozione.
Nel Trittico di Santa Chiara oggi a Trieste, opera di Paolo Veneziano e collaboratori databile intorno al 1330 (ILL. 24), la tradizionale struttura della Dormitio Virginis di stampo bizantino accolta anche da Giotto (ILL. 25), nella quale accanto a Maria distesa sul letto-catafalco un Cristo-madre, tenerissimo nell’accoglienza in seno alla morte, tiene fra le braccia l’animula-fantolino di lei in fasce, si duplica a specchio in una meravigliosa Dormitio Clarae (ILL. 26), con il corpo della santa, attorniata da dolenti consorelle, che sostituisce quello di Maria e con Maria stessa che, al centro della tavola, culla Chiara-neonata in una morte-parto alla nuova vita eterna. Nel terzo riquadro in alto, dentro una grotta in cui il romitaggio del pauper spiritu diviene il presepe di un’allegorica natività, Francesco-alter Christus, ferito da un serafino che gli imprime le stesse stimmate di Gesù in croce, “fa passare” la «morte prima» del corpo alla vita seconda, assorbendo in sé le tre figure, Cristo, Maria e Chiara, che popolano gli altri due pannelli.
Nello slittamento/identificazione di funzioni e di personaggi che trasforma il canone agiografico facendo di Chiara la sorella-figlia di Francesco-Cristo-Maria si esalta una precedente, consolidata identificazione materna di Francesco, a sua volta dipendente da quelle, già di origine monastica, di un Dio madre affettuosa e sollecita e di un Cristo che poi, sul letto della croce, partorisce la vita eterna dell’umanità. Alcuni testi di fine Duecento-primo Trecento, come la Pagina meditationum di Margherita di Oingt o la Quaestiones de Domina di Pietro di Giovanni Olivi, sono di un’evidenza assoluta; nel Laudario di Santa Maria della Scala la Mater dolorosa si identifica con il Christus patiens che diviene così una Mater parturiens (io stesso ho studiato questa censurata e quasi sommersa mito-iconografia, in Compassio Virginis, apparso su «La parola del testo» nel 2007).
Dopo il parto spirituale Cristo allatta e accoglie protettivo il mondo intero. Così si spiega la straordinaria figura dell’allattamento allegorico che mette in scena un testo celebre, tuttavia mal compreso fino alla rilettura di Chiara Frugoni: la Visione dello specchio, pubblicata e commentata da Giovanni Pozzi e Beatrice Rima (Chiara d’Assisi, Lettere ad Agnese – La visione dello specchio, Adelphi, Milano 1999, pp. 258). Dietro l’immagine onirica, visionaria, di un Francesco lactans che offre la mamilla a Chiara per nutrirla come una neonata, Pozzi e Rima riconoscevano già «un ampio ventaglio di fatti analoghi: il concetto teologico di Dio madre; il motivo di Maria lattante; di Maria che estrae il seno e spruzza alcune gocce del suo latte; di Cristo madre che nutre allattando; di Cristo che spruzza sangue; dell’abbeverarsi al costato; e infine il motivo di Francesco che si presenta come madre». E fin qui tutto bene. L’incontro di Chiara con Francesco si colora di tenerezza e di sentimentalità materna/filiale, imperniato com’è sulla femminilizzazione del santo e sull’insistita immagine di offerta generosa, gratuita alla santa-neonata dell’alimento spirituale più prezioso, profumato, incarnato nel corpo della Madre benefica e amorevole. In un solo, folgorante cortocircuito mentale questa Madre sarà allora molte realtà spirituali. Sarà la Chiesa che accoglie entrambi i santi in un solo abbraccio tenero e salutare. Sarà Francesco stesso, Madre-Padre della grande famiglia di tutti i frati-madri che accudiscono i frati-figli bisognosi di cure: anche il Francesco-gallina circondato dai frati-pulcini del sogno riferito da Tommaso da Celano ma raccontato (caso unico) dal santo stesso, e da lui interpretato come un minuto, sorridente bestiario allegorico da aia di campagna («La gallina […] sono io, piccolo di statura e di colore scuro, gallina cui debbo unire coll’innocenza della vita una semplicità di colomba. […] I pulcini sono i frati, cresciuti in numero e in grazia…»). Sarà Cristo che porge il seno colmo del dolcissimo latte-Vangelo, secondo l’allegorismo sottile che Aimone di Auxerre e Aelredo di Rievaulx, ricordati da Chiara Frugoni, avevano svolto, sintetizzando un’ampia trama di immagini, intorno al primo versetto del Cantico dei cantici («quia meliora sunt ubera tuo vino») e a un passo della prima lettera di Pietro citato come Introito della messa della Domenica in Albis («Come bambini appena nati bramate il latte genuino e spirituale che vi faccia crescere verso la salvezza, se davvero avete gustato che il Signore è buono»).
Francesco e i suoi fratres fondano un’etica e una parenetica nuove su un’emozionalità fatta di sentimenti teneri, quotidiani, familiari, piccoli, e su un’intima, profonda, positiva creaturalità che riscatta la Natura dalla distanza ontologica rispetto all’Essere, al Creatore, da sempre posta al centro della meditazione monastica. Dio non si legge più rispecchiato nelle cose, nel mondo scritto come un libro «dalla sua mano». Ormai è il mondo stesso, sono proprio le cose a laudarlo, cantandone a piena voce lo splendore e il calore di buona Madre fecondatrice e nutrice. Dio-Madre, Francesco-Cristo-Madre: questa emozionalità inedita attraverso i testi minoritici filtra anche nella cultura laica, nei livelli superiori del nuovo pubblico borghese cittadino, e soprattutto si impone anche alle masse degli illitterati mediante la fittissima, capillare rete iconografica ispirata e talora direttamente guidata dagli intellettuali dell’Ordine. Su tale delicata, centrale questione Una solitudine abitata offre pagine sottili e ricche di documentazione mai prima raccolta: e andrà sicuramente riposto nello scaffale accanto a Francesco e l’invenzione delle stimmate, rispetto a cui costituisce un pendant esatto e affabile.
Lo chiuderemo, questo libretto d’ore ridente di pennelli fini e semplici, con le immagini tenerissime del codice quattrocentesco di Karlsruhe, Thennenbach 4: in ogni miniatura tutti i personaggi, anche Cristo in croce, i papi, i vescovi, le suore e gli angioletti scesi dal cielo, sorridono con dei lievi pomelli rossi sulle gote, felici che la vita sia così affettuosa e piena di letizia. Mi appassiona, fra le miniature del codice Thennenbach studiate da Chiara Frugoni, quella in cui Chiara chiede al papa di canonizzare Francesco (fol. 143r: cfr. ILL. 27). Il santo, in una bara-culla minuscola ai piedi del trono pontificio, è un bimbo piccino piccino, occhi chiusi e boccuccia a cuoricino, con le stimmate ben visibili sulle mani, fiorite come margherite, stelline rosso-sangue piovute dal cielo a garantire la sicura volontà divina intorno a quel corpo già glorioso. Accanto a lui, mentre il Padre-Papa benedice e invoca in un cartiglio la benedizione del Signore, con una mano sul cuore e l’altra a indicare l’oggetto di devozione, Chiara china il capo in gesto materno, Madre di sua Madre e Figlia di suo Figlio. Questo santo-bambino è lo stesso «frate Francesco piccolino» che, nelle ultime volontà trasmesse poco prima della morte, e trascritte nella regola di Chiara, testimonia di voler «seguire la vita e la povertà dell’Altissimo Signore nostro Gesù cristo e della sua santissima Madre, e perseverare in essa fino alla fine».
Sarà forse ancora Francesco, o invece (ma è davvero la stessa cosa) il bambino Gesù, quel «mammolo bellissimo» che Chiara porta «nel grembio, […] innanti al petto suo», apparendo a Francesca di Col di Mezzo nel dì di calendimaggio. La tenerezza infinita di questa figura balenata in visione alla giovane sorella rovescia zucchero e miele nell’animo di Francesca: di fronte a quell’icona onirica dell’infanzia percepita come segno della creatura, di ogni creatura partorita o fiorita sulla terra, fragile e palpitante, mortale e per questo colma dei sentimenti che mancano agli angeli eterni fuori del tempo, Francesca «sentiva una indicibile suavità de dolceçça».
La stessa dolcezza carnale e spirituale si effonde in Chiara-neonata durante la celebre «visione dello specchio» riferita dalla monaca Filippa, testimone al processo di canonizzazione. Francesco offre il seno gonfio di latte materno a Chiara in un reciproco abbandono d’estasi non riducibile a parole: «Et epsa suggendo, quello che de lì suggeva, era tanto dolce et delectevole, che per nesuno modo lo poteria explicare. Et avendo succato, quella rotondità o vero bocca de la poppa dondo escie lo lacte remase in tra li labri de epsa beata Chiara; et pigliando epsa con le mane quello che li era remaso nella bocca, li pareva che fusse oro così chiaro et lucido, che ce se vedeva tucta, come quasi in uno specchio» (ed. Pozzi-Rima, p. 149: cfr. ILL. 28).
Certo, come i due editori proponevano commentando nel 1999 il testo così pubblicato, nella scena prende figura corporea «la mistica dell’amore, qui celatamente anche nuziale, poiché la relazione figliale-materna rappresenta per sineddoche tutto l’Amore, come ci ha rivelato il commento medioevale al Cantico dei Cantici». Invece meno evidente è «la mistica essenziale, o del nulla, poiché a questo estremo tende la riduzione a lattante dell’anima che contempla». Chiara Frugoni coglie il valore vero del testo adottando una lievissima correzione, che è il gesto della leggerezza severa e pensosa con cui opera un vero filologo, cioè un ermeneuta che mira alla piena comprensione del senso delle parole che pubblica e interpreta, non si accontenta delle apparenze, e lima fino al minimo segno d’interpunzione in cerca del soffio di significazione che gli sfugge.
Chiara Frugoni rifiuta di sprofondare nell’opacità della descrizione surreale d’una immotivata amputazione, allontana la «mistica del nulla» di Pozzi e Rima. Non le appare accettabile l’immagine di Chiara che, «presa fra le mani la parte culminante del seno (il capezzolo) che le era rimasto in bocca nell’atto di succhiare quel dolcissimo latte, la vede così chiara e lucida che vi si può specchiare» (ed. Pozzi-Rima, p. 63). Leggendo e rileggendo, lei fa come l’orco della fiaba evocato da Marc Bloch: fiuta carne umana: ma lo fa respingendo il sangue, l’orrore del cannibalismo, «la vischiosità della spiegazione psicanalitica, come se a Chiara fosse rimasto in bocca un pezzetto staccato del seno che si può prendere in mano e guardare» (p. 192). Riscopre invece l’infinita tenerezza che si cela in quelle parole. Chiara Frugoni (Una solitudine abitata, p. 193) si limita a introdurre una sola, infinitesimale virgola, la verghetta scabra del segno più modesto e più necessario, quell’umile virgula sempre meno frequentata e invece sempre più necessaria a dare tempo per far respirare le emozioni, a unire e separare leggermente i punti di vista dei soggetti e le loro rappresentazioni linguistiche, quel tanto che basta per cogliere proporzioni e prospettive, distanze e prossimità. Il lievissimo bastoncino della virgola restituisce il senso e il calore all’intero brano. Con un gesto leggerissimo e fondamentale, simile a quello che aveva spazzato via Flavio Gioia con lo spostamento di una virgola, introducendo qui una pausa che gli editori non avevano compreso (il manoscritto ovviamente non ha punteggiatura), Chiara Frugoni spiega che Chiara-Figlia non strappa il capezzolo al tenero, generoso Francesco-Madre, con assurda ingratitudine da neonato psicotico e con vorace violenza da cannibale, come si deduce dal testo fissato da padre Giovanni Pozzi e Beatrice Rima. Invece ne succhia il latte: «Et avendo succato quella rotondità o vero bocca dela poppa dondo escie, lo lacte remase in tra li labri de epsa beata Chiara»: proprio come avviene in ogni allattamento di neonato o di cucciolo dacché maternità di mammifero esiste sulla terra. Chiara Frugoni ci spiega insomma, con soave, acutissima filologia mossa dalla Tenerezza, che a restare in bocca alla sua santa «non è il pruriginoso capezzolo di Francesco […], ma il latte, cioè l’insegnamento di Francesco che passa a Chiara e si trasforma». Qui il fulmineo Mercurio sposa una francescana Filologia: l’intuizione puntuale e la prudenza esegetica si coniugano con l’umiltà, la severa semplicità, la chiarità dell’ermeneutica, logicamente difendibile, documentabile in dimensione storico-linguistica.
L’immagine tutta mentale e carnale del latte sgorgato dalla «mamilla» di Francesco-Cristo-Madre assume di nuovo la splendente figuralità che aveva nell’originale fin qui opacizzato proprio perché non se ne era colta l’insistenza sulla Tenerezza, piuttosto che sull’Abisso oscuro. Chiara Frugoni ci insegna che nel gesto della santa eponima, la quale suggendo il prezioso liquido insieme materno e spirituale alimenta il proprio corpo e il proprio spirito, e specchiandovisi lo trasforma, non coglieremo «la mistica essenziale, o del nulla, poiché a questo estremo tende la riduzione a lattante dell’anima che contempla». Intuiremo, invece, la stessa gloria di visione nel profondo e la stessa tenerezza di abbandono, che Dante sente nel momento in cui Beatrice lo lascia solo, alla fine del suo viaggio, quando al modo di «un fantin che sì sùbito rua / col volto verso il latte» (Par. XXX, 82-83) si china verso la trasparenza del «fiume fluvido di fulgore» (ibid., 62), altissima manifestazione della luminosità divina, e dalla sua guida celeste, amorosa e materna-paterna, viene invitato a placare la sete di conoscenza bevendo quel liquido pieno di «faville vive» e di inebrianti «odori» (Par., XXX 64 e 67): «di quest’acqua convien che tu bei / prima che tanta sete in te si sazi» (ibid., 73-74).
Nel segreto minuscolo di una virgola, come nelle piccole, care cose della vita, risiede il misterioso valore della filologia e della storiografia di Chiara Frugoni, che insegna a nutrirsi della realtà minima, creaturale, tenera, fatta sbocciare dalle pagine dei libri.
Appunto: Chiara, o della Tenerezza.
L'autore
- Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.
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