Attilio Berni è direttore del Museo del Saxofono di Fiumicino.
L’American Dialect Society sceglie «jazz» come parola del XX secolo, un termine comprendente una vasta gamma di musica che contempla un periodo di oltre cento anni. Dal 2012, nei calendari ufficiali delle Nazioni Unite e dell’UNESCO, il 30 aprile è riconosciuto come Giornata Internazionale del Jazz che valorizza il ruolo diplomatico di un linguaggio universale, unisce le persone in tutti gli angoli del globo nell’ottica di costruire società più inclusive. Proprio per la sua molteplice forma di espressione, è difficile definire l’essenza del jazz.
Il Maestro Attilio Berni, direttore del Museo del Saxofono di Fiumicino e presidente del Centro Studi Musicali «Torre in Pietra», da diversi anni è impegnato nella promozione e diffusione della musica jazz che, dalle nebbiose strade di New Orleans, approda a Fiumicino.
Direttore, cosa troviamo al centro di questa giornata dedicata al jazz?
Al centro dell’International Jazz Day ci sono scuole e attività dedicate ai musicisti. Sin dagli inizi, il jazz è stato una voce per la libertà, la tolleranza, l’uguaglianza, la collaborazione pacifica e la creatività. Una musica di protesta e di celebrazione. È nato negli Stati Uniti come risposta all’oppressione. I genitori del jazz sono gli afroamericani, ma anche gli emigrati italiani hanno avuto un ruolo importante. Quest’ultimi, una volta raggiunta New Orleans, centro di raccolta di contadini e agricoltori provenienti dal sud dell’Italia, portarono nella città gli strumenti a fiato, provenienti direttamente dalla tradizione bandistica dei paesi dell’Italia meridionale, tradizione tramandata di padre in figlio. Il primo musicista a incidere il primo disco della storia del jazz, nel 1917, era figlio di italiani. Nick La Rocca, figlio di un ciabattino di Salaparuta in provincia di Trapani, che aveva suonato la cornetta nella Fanfara dei Bersaglieri del generale Lamarmora. Oggi il jazz viene adottato e adattato da appassionati e musicisti di tutto il mondo. Insegnare agli studenti questa storia e questa eredità è fondamentale per far vivere il jazz anche nel prossimo futuro.
Continuità e innovazione per continuare a suonarlo e a viverlo.
Si, certo, Quest’anno, all’interno del Museo del Saxofono, avrà luogo un raduno di tre giorni in collaborazione con Sax Forum. L’International Jazz Day è il culmine del Jazz Appreciation Month che, per tutto il mese di aprile, attira l’attenzione del pubblico sul jazz e sul suo straordinario patrimonio. Una giornata con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza del potere del jazz come strumento educativo, elemento di forza e di empatia, di comprensione e cooperazione tra le persone. Una forma d’arte riconosciuta a livello internazionale per promuovere la pace, il dialogo tra le culture, la diversità e il rispetto dei diritti umani, per sradicare la discriminazione, promuovere la parità di genere e incentivare la libertà di espressione.
Il jazz non è solo musica americana, ma musica che viene suonata e ascoltata a livello internazionale e che continua a dare forza alla lotta contro la discriminazione e il razzismo.
La storia del jazz è scritta nella ricerca della dignità umana, della democrazia e dei diritti civili. Ha poco più di un secolo. È apparso per la prima volta nella città di New Orleans agli inizi del 1900 ma oggi il jazz è un linguaggio musicale mondiale che riunisce persone di varie culture, colori, nazionalità, etnie, religioni, generi ed età. Rappresenta la vita e l’elemento che lo definisce è l’improvvisazione. Gli americani improvvisano costantemente, decidono cosa fare sull’impulso del momento, in modo spontaneo. Ed è quello che fanno i musicisti: suonano e creano la propria interpretazione all’interno della struttura della melodia in risposta a ciò che altri musicisti stanno suonando, e qualsiasi altra cosa si compone «in diretta». Non c’è miglior esempio di democrazia di un ensemble jazz; c’è la libertà individuale ma anche la corresponsabilità verso il gruppo, un lavoro di squadra per raggiungere degli obiettivi. Il vero senso della democrazia è dare importanza all’ascolto verso l’altro. Il jazz non è solamente improvvisazione.
I grandi del jazz, Armstrong, Parker, Goodman, hanno inventato un modo di suonare che sapeva parlare con il cuore.
Certo, al cuore non si può mentire. Alcuni, addirittura, non conoscevano nemmeno la musica, non sapevano leggere uno spartito ma avevano uno spiccato talento per la musica. Prendiamo Louis Armstrong in New Orleans, film del ’47 conosciuto anche come La città del jazz, di Arthur Lubin. Una vera chicca sulla storia del jazz, l’unico film con la partecipazione e la straordinaria voce di Billie Holiday accompagnata da Satchmo. Novanta minuti di puro godimento in cui si rileva e si evidenzia la discriminazione razziale tra bianchi e neri, un film che ogni melomane e cinefilo dovrebbe vedere.
Ho avuto modo di apprezzare A song is born, dello stesso periodo; affascinante e divertente lungometraggio in cui viene ripercorsa la storia del jazz a partire dalle iniziali voci afroamericane.
È un remake di un film del ’41, conosciuto anche con il titolo That’s life, e risale al 1948. Un cast strepitoso con le più famose voci e interpretazioni jazz degli anni ’50: Tommy Dorsey, Benny Goodman, Louis Armstrong, Lionel Hampton, Benny Carter. Tra i musicisti ci sono Charlie Barnet, Mel Powell, Louis Bellson, The Golden Gate Quartet, Russo and the Samba Kings, The Page Cavanaugh Trio, Laurindo de Almeida, Nestor Amaral, Buck and Bubbles. L’affascinante Venere, interpretata da Virginia Mayo, recita affianco al bravissimo Danny Kaye nel ruolo del Professor Frisbee. Suggerisco, a questo punto, The Jazz Singer, il primo film sonoro del 1927 della Warner Brothers in cui Al Jolson, nei panni del figlio di un rabbino che diventa la star, si dipinge la faccia di nero e canta sei canzoni. Fu un successo cinematografico, nonostante siano state pronunciate solo 354 parole. Un’altro film segna il passaggio di un’epoca nella storia del jazz: Paris Blues, del 1961, con Paul Newman, Sidney Poitier e Louis Armstrong. Lo consiglio non solo per la famosa battaglia di ottoni ma soprattutto per la rivelazione, o meglio la rivoluzione nella scena finale, quella in cui il sorriso bianco sul volto nero di Wild Man Moore (Louis Armstrong), affisso sulla locandina di fronte ai treni in partenza nella stazione di Parigi viene sostituito con la pubblicità delle librerie Larousse. Tutto questo avviene in una manciata di minuti, alle spalle del serio compositore Ram Bowen, interpretato da Paul Newman, che sceglie di non tornare negli Stati Uniti per dedicarsi alla musica impegnata, quella classica. Questa scena segna un cambio radicale, rivoluzionario. Spiega la lotta del jazz per affermarsi come forma d’arte e coincide con un periodo di sperimentazioni – quello a partire dagli anni ’50 e ’60 il cui il jazz si diversifica – e il superamento del jazz tradizionale di Louis Armstrong, icona del jazz. Ma Paris Blues è molto di più…
Ha descritto la scena in cui si possono ascoltare quelle note perfette, struggenti, del saxofono di Johnny Hodges… quei 5’53’’ di Paris Blues lasciano intendere che Ellington e Strayhorn hanno creato qualcosa di meraviglioso con la loro collaborazione.
Johnny Hodges suonava il sax alto e il soprano. Era una delle voci più singolari dell’orchestra di Duke Ellington, con cui ha collaborato per gran parte della sua carriera, a parte un breve arco temporale, dal ’51 al ’55, in cui suona con la propria orchestra. Era anche un uomo alquanto riservato e taciturno, con una vita personale relativamente tranquilla. Aveva un volto piuttosto serio e difficilmente sorrideva. Lo chiamavano Rabbit, Little Caesar, Jeep, Squatty Roo, soprannomi che vengono ripresi nelle canzoni scritte per lui. Ancora adolescente, quando suonava il sax soprano, incontra colui che sarebbe diventato suo mentore, Sidney Bechet. Hodges era un musicista formidabile, soprattutto nei tempi lenti, capace di modulare il suono in un modo che nessun altro aveva mai fatto. Col suo tono lussureggiante, lirico e morbido, eccelleva nelle ballate e nei blues ma di fondo c’erano grandi capacità tecniche e di controllo del suono per padroneggiare lo strumento con stile impeccabile. Nell’ultimo periodo della sua vita suonava un alto Vito System 35 e usava il suo particolare timbro per esprimere le emozioni, molto diverso da Charlie Parker, che aveva un suono meno puro, fatto di note, armonia e velocità. L’influenza di Parker aumentò nel corso degli anni ’40 fino a diventare un «improvvisatore estremamente creativo» (The New Grove Dictionary of Jazz).
Alcuni musicisti diventano protagonisti di racconti letterari. È il caso di Charlie Parker, leggenda del jazz. Julio Cortázar scrive una bellissima novella, Il Persecutore, e racconta di essere rimasto folgorato nel 1955 dopo aver letto un lungo necrologio su Parker, morto in quei giorni, e di essersi messo a scrivere il racconto il medesimo giorno. Questa novella, secondo lo stesso Cortázar, è stato il suo momento di svolta: la narrazione si incarna nel personaggio, diventa il personaggio. Molto interessante è la parte in cui l’autore descrive l’idea di fallimento e di imperfezione di Amorous, per colpa di quella «selvaggia caduta finale, quella nota sorda e breve che mi è sembrata un cuore che si spezza, un coltello piantato nel pane».
Amorous dovrebbe essere Lover Man, uno standard jazz molto toccante, scritto inizialmente per Billie Holiday. Probabilmente nel racconto si parla della famosa registrazione alla fine del luglio 1946, il giorno prima che Parker, venticinquenne, avesse un crollo nervoso. Un’interpretazione triste e piena di angoscia, destinata a restare come uno dei momenti più alti del jazz, con quel finale incerto, incompiuto, che lascia l’ascoltatore sconcertato e turbato per il dolore percepito. Un soliloquio commovente, sconnesso eppur appassionato durante la registrazione, quando il saxofonista, esausto e assuefatto, riusciva a malapena a stare in piedi. Parker non era assolutamente soddisfatto della registrazione e volle reincidere Lover Man qualche anno dopo, in una versione tecnicamente perfetta ma senza il feeling del brano perfetto e senza tempo del 1946.
Altro tema importantissimo nel racconto è, difatti, quello della ricerca di un tempo sospeso, in cui passato, presente e futuro convivono compressi. È il tempo che Cortázar sentiva quando andava in métro.
È il tempo che Parker provava a riprodurre col suo innovativo e geniale modo di suonare il sax, seguendo un personale ritmo musicale attraverso le sue instancabili e visionarie performances. Parker era un grande compositore, un solista magico e affascinante che, col suo ingegno, ha contribuito alla creazione e allo sviluppo del bebop. Famosi sono i Bird changes, rapidi accordi di passaggio che prendono appunto il suo nome. Si tratta di sostituzioni armoniche e varianti innovative di accordi alterati. Parker prestava particolare attenzione all’inizio e alla fine dei suoi assoli. Per la parte centrale utilizzava materiale più estemporaneo, creato al momento. Aveva uno stile eccezionale di fraseggio musicale in cui la forma della melodia otteneva una conclusione logica e memorabile.
L’esistenza di Bird, o Yardbird, come lo chiamavano i suoi colleghi musicisti, fu breve ma arroventata. Adottò talvolta lo pseudonimo Charlie Chan, non potendo apparire col proprio nome a causa di un contratto che lo legava a una casa discografica differente da quella del contrabbassista. Charlie Chan, a sua volta, evocava una maschera ulteriore. Chan era il nome della moglie, la seconda. Successivamente, con l’interesse verso lo studio della religione mussulmana diventerà Saluda Hakim. Era ateo ma ebbe un funerale cristiano, e la sua tomba venne incisa con l’immagine di un sax tenore, sebbene Parker fosse principalmente associato al sax alto. Questo ha portato qualcuno a ritenere che Charlie sia stato toccato dalla grazia cristiana al di là della sua volontà.
Mi stava raccontando di uno strumento nel museo legato a una vicenda rocambolesca di Parker.
Sì, il Grafton Plastic, il sax progettato dall’italiano Ettore Sommaruga che, nel 1922 lascia Milano per Parigi, diventa esperto della tecnica di placcatura in oro e si trasferisce prima a Londra, poi a Parigi nel 1927, lavorando come saxofonista professionista al Lido e in vari jazz club. Con la guerra civile spagnola al culmine, si trasferisce nuovamente in Inghilterra e mantiene la cittadinanza italiana e, ironia della sorte, quando il Regno Unito entra in guerra con la Germania nel 1939, viene internato sull’Isola di Man. Una volta rilasciato, torna a Londra e mette a frutto le sue abilità ingegneristiche nella realizzazione di strumenti chirurgici e, nel 1942, fonda una società proprio in Grafton Way.
Nel celebre concerto di Toronto del 15 maggio 1953 alla Massey Hall, Charlie Parker si trovò senza il suo alto King Silversonic poiché, qualche giorno prima, sembra lo avesse impegnato per procurarsi una dose di stupefacenti. Un rappresentante della fabbrica Grafton colse l’occasione per proporgli di suonare un sax alto Grafton Plastic. Parker aveva sottoscritto un contratto come endorser della fabbrica King che lo obbligava a esibirsi esclusivamente col suo Silversonic. Essendo però i termini contrattuali prescrittivi solo in territorio americano, a Toronto Parker era libero di utilizzare qualsiasi strumento desiderasse e così, svincolato dall’obbligo pattuito, decise di utilizzare questo particolare strumento in uno dei suoi più memorabili concerti con Dizzie Gillespie, Bud Powell, Max Roach e Charles Mingus.
Miles Davis disse una volta: «Puoi raccontare la storia del jazz in quattro parole: Louis Armstrong, Charlie Parker».
Una bellissima sintesi, bisogna riconoscerlo.
La sua lunga esperienza da musicologo e il vasto corpus della collezione Berni rendono omaggio alla musica in assoluto e, nello stesso tempo, potrebbero destabilizzare un pubblico ignaro del patrimonio artistico di eccezionale rilevanza culturale conservato nel Museo di Fiumicino.
Il Museo del Saxofono di Fiumicino, l’unico nel panorama internazionale dedicato a questo strumento, ospita la più grande collezione al mondo di saxofoni. A completamento della collezione, quattro sezioni collaterali: quella dei sax-giocattoli (trecento pezzi originali dagli inizi del secolo agli anni ’50); quella fotografica (duecento foto d’epoca originali dalla fine del XIX secolo agli anni ’60); quella degli accessori e delle imboccature utilizzate dai saxofonisti e infine quella dei documenti, cataloghi, libri e dischi. La finalità primaria del Museo è la preservazione del patrimonio custodito ma, nell’ottica di condividerne l’unicità e la bellezza, organizza anche eventi divulgativi, concerti, masterclass e corsi di musica rivolti soprattutto ai giovani.
Quando nasce la sua passione per questa musica e questo strumento? E quando la sua professione di insegnante e di divulgatore in un ambito così particolare?
Non ricordo con precisione la prima volta che ho ascoltato la voce del saxofono. Forse in uno dei tanti dischi di mio zio Luigi. Potrebbe essere stato il soprano di Coltrane in My Favorite Things, come pure quello di Gianni Basso in My Funny Valentine o, molto probabilmente quello di Gil Ventura in Blue Shadow, ma di certo ne rimasi immediatamente folgorato. In effetti, se adesso sono un saxofonista si tratta più che altro di una casualità. Io suonavo il clarinetto, così come voleva mio padre, mentre il sax piaceva a mia madre. Dopo alcuni mesi di studio, l’insegnante che mi impartiva lezioni di clarinetto disse loro, chiaro e tondo, che nella vita avrei potuto seguire strade importanti e diventare ingegnere, dottore, scrittore ma non musicista: a suo parere non ero portato. Di nascosto sentii queste affermazioni e iniziai ad impegnarmi nello studio del clarinetto più per ripicca che per passione. A distanza di anni, non ho mai saputo se quello che avevo ascoltato era la verità o qualcosa che era stato architettato dai miei genitori per stimolare un mio maggiore impegno. Sta di fatto che, qualche anno dopo ero già iscritto al Conservatorio di Roma nella classe di clarinetto del maestro Vincenzo Mariozzi e il destino, forse per la prima volta in assoluto, mi giocò uno dei suoi proverbiali tiri. Coi miei cugini avevamo costituito un’orchestrina ma il clarinettista c’era già. Rimaneva una sola possibilità di ripiego e quindi scelsi il saxofono. O forse sarebbe meglio dire che lui scelse me, e mia madre, senza farlo sapere a mio padre, mi comprò il primo saxofono, un tenore Borgani. Lo pagava 15.000 lire al mese alla banda del paese. Dall’amore e dall’intuizione di mia madre è nato tutto, o quasi.
Nella prefazione del suo libro Saxophones, Géry Dumoulin, responsabile e curatore degli strumenti a fiato del MIM di Bruxelles, parla di un «viaggio nell’intimità» della galleria di oggetti e strumenti che compongono la sua collezione privata messa a disposizione di un vasto pubblico di appassionati e di musicisti, mentre Florent Milhaud, responsabile della produzione dei saxofoni Henri Selmer Paris, sottolinea la forza della musica «in perpetuo movimento e rinnovamento» e ricorda l’importanza dei musicisti di «creare il loro sound con strumenti del proprio tempo».
La mia collezione parte da lontano, più precisamente dal mio primo viaggio negli USA. Lì ho acquistato il tenore Selmer Padless, uno strumento sperimentale senza cuscinetti costruito dalla Buescher su licenza della Selmer durante il periodo della seconda guerra mondiale, il primo saxofono vintage di quella che sarebbe stata la mia collezione. Era il 1993 e mi trovavo a New York per ascoltare Joe Lovano e Aldo Romano al Village Vangard.
Inizialmente il mio approccio con gli strumenti musicali vintage è stato esclusivamente commerciale. Nel giro di poco tempo mi imbarcai di nuovo per gli USA e, nel viaggio di ritorno, ero su un container con duecento strumenti. Qualcosa cambiò in me dopo qualche anno, nel ’96-’97, perché ogni volta che vendevo un saxofono provavo una stranissima sensazione, una sorta di distacco, e mi accorsi che le conoscenze e le competenze che andavo acquisendo sul campo avevano sviluppato la vocazione del collezionismo. Collezionare per me è come sfidare il tempo, è ridare vita alle passioni umane, ai momenti e ai movimenti artistici, sociali e storici che hanno concepito e prodotto questo straordinario strumento in un periodo di tempo limitato. Ogni strumento vintage, infatti, è vittima della propria evoluzione, è plasmato dall’alito vitale insufflato al suo interno e dalle tenebre della memoria. Collezionando si ricostruisce la storia di un oggetto e se ne comprende l’evoluzione. Così si delinea quel ruolo, del tutto particolare, fra l’uomo e le sue creazioni, fra evoluzione e conservazione, fra storia e memoria, a metà tra archeologia e storia, che è proprio del collezionismo. Collezionare è ricercare e conservare i valori della vita di ieri; è restituire al presente contingente il passato idealizzato; è recuperare gli ideali di una perfezione artistica carica delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni soffiate dentro gli strumenti musicali.
Con Paul Cohen, invece, condivide la stessa passione per i saxofoni, di uno in particolare.
Paul Cohen è un acclamato storico e saxofonista americano, un ricercatore rinomato per gli studi sulla letteratura del saxofono, riguardanti soprattutto opere sconosciute e riscoperte. Entrambi suoniamo il Conn O-Sax, un saxofono in Fa che ha una storia molto particolare. Questo strumento è senza dubbio il saxofono più straordinario mai costruito, uno strumento mitico, quello con la massima estensione mai ideato. Deve il suo nome alla forma a bulbo della campana ed è la versione saxofonistica dell’heckelfono. La fabbrica Conn contava di distribuire molti esemplari ma le vendite non furono all’altezza delle previsioni e i modelli venduti non più di una decina. Un fallimento sostanzialmente dovuto alla sottovalutazione di più elementi: la forma, che non faceva più presa sul pubblico, e la crisi economica. Pertanto, la gente era meno attratta da nuovi strumenti inusuali e più interessata alle necessità basilari della vita. Inoltre, la musica di qualità composta per questi strumenti era davvero molto scarsa. Già a partire dal 1930, il Conn O-Sax non veniva più menzionato nei cataloghi e gli strumenti invenduti e riconsegnati alla fabbrica vennero, purtroppo, destinati al reparto delle maestranze, utilizzati successivamente come parti di ricambio, con l’intenzione di farli scomparire. Ad oggi, gli esemplari sopravvissuti nel mondo non risultano essere più di una ventina.
Recentemente è venuto a mancare l’ingegnere Benedikt Eppelsheim, persona di grande competenza e rara maestria.
Benedikt Eppelsheim è stato un genio, un grande costruttore di strumenti musicali di altissimo livello, un amico che ho avuto la fortuna di incontrare diverse volte. Possiedo un suo tubax e il famoso soprillo, esemplare placcato in oro che Benedikt mi ha donato per il miei cinquant’anni. È chiamato anche sopranissimo, ed è il più piccolo della famiglia dei saxofoni, tagliato nella tonalità di Sib; suona un’ottava sopra il soprano. Le sue piccole dimensioni, di circa trentadue centimetri, sono tali da non permettere il posizionamento del secondo foro di portavoce sul corpo dello strumento, che viene pertanto collocato nell’imboccatura. Proprio per le sue dimensioni ridotte risulta particolarmente difficile da padroneggiare, soprattutto nel registro acuto. Ha un colore timbrico potente e penetrante. Le ance sono quelle di un sax sopranino, mentre la campana risulta inclinata in avanti di circa 20°. Nonostante si tratti di uno strumento estremo, l’intonazione risulta ottima, merito del raffinato progetto di costruzione che prevede una particolare correlazione algoritmica tra le proporzioni e la posizione dei fori dello strumento in rapporto alle diverse temperature che si realizzano al suo interno, in corrispondenza di tali fori.
Dal tono delle sue parole si evince la passione nel collezionare e nel divulgare il vasto repertorio di storie di musicisti e di costruttori che lasciano «l’occhio sorpriso», per dirla con Dante. Sul soprillo c’è il suo nome inciso.
L’incisione, come forma d’arte, e affascinante e antica, risale alla preistoria. Per l’incisione delle matrici metalliche venivano usati gli strumenti dell’orafo, bulini, raschietti e ceselli, mentre per l’intaglio delle matrici di legno l’incisore usava quelli dello scultore. Molti saxofoni hanno delle bellissime cesellature sulla campana o sul corpo dello strumento, alcuni hanno delle pietre preziose incastonate sulla parte frontale e sono delle vere e proprie opere d’arte, come l’alto Selmer New Large Bore con quattordici gemme di ametiste che luce sulla prima di copertina del catalogo del Museo. Uno, addirittura, presenta delle incisioni nascoste, quasi a voler conservare un segreto. É il caso del New Wonder II Artist Virtuoso de Luxe, quello che io amo descrivere come il «saxofono innamorato». Nell’incavo delle tazze delle note del Do, Si e Sib gravi è incisa una dedica d’amore. Come vede, il jazz è anche poesia!
Fotografie a cura di 4drg snc Fiumicino
L'autore
- Ermira Shurdha è nata in Albania nel 1981. Si è trasferita nel 1993 in Italia appena adolescente. Oggi vive con la sua famiglia in Abruzzo, regione eletta per crescere le sue due figlie. Dopo una formazione scientifica si è dedicata alla sua vera passione, le lingue straniere, laureandosi all’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti - Pescara con una tesi sull’opera teatrale di Antonio Buero Vallejo. Nel 2017 ha conseguito una laurea magistrale con una tesi dal titolo “Últimas tardes con Teresa, més que una història”, romanzo eversivo ambientato nella Barcellona degli anni cinquanta di Juan Marsé, Premio Cervantes nel 2008 e prolifico scrittore di testi in castigliano. Ha analizzato l’opera data alle stampe nel 1965, all’interno del contesto storico - culturale catalano, con particolare attenzione al linguaggio musicale e cinematografico, associazioni con la poetica neorealista felliniana, accordando la critica in lingua spagnola, catalana e inglese alla cronaca degli amanti in sottofondo. Sempre attratta dalle tendenze creative del mondo della moda, attualmente gestisce una boutique di abbigliamento fondata nel 1991 a Giulianova.
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