Arturo Mazzarella non ha certo bisogno di presentazioni: professore ordinario di Letterature Comparate presso l’Università di «Roma Tre», ha pubblicato volumi ben noti agli studiosi della contemporaneità e non solo, quali La potenza del falso (Donzelli, 2004), Politiche dell’irrealtà e Le relazioni pericolose (Bollati Boringhieri, 2011 e 2017). Lo abbiamo intervistato in merito al suo ultimo contributo saggistico: La shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, edito da Bompiani.
Entriamo immediatamente nel vivo della tematica dominante del testo, cosa esattamente «continua a sfuggirci della Shoah, se l’orrore di fronte allo sterminio […] si è rapidamente dissolto in un motivo estetico»?
La risposta è semplice, molto semplice, ma anche quasi paradossale. Della Shoah ancora oggi continuano a sfuggirci i motivi della sua radicata “sopravvivenza” – proprio nell’accezione conferita da Aby Warburg a tale termine – nell’immaginario contemporaneo, come dimostra l’alluvione di espressioni artistiche che da qualche decennio ci sommergono. Per quanto ridotte spesso a pura fiction, le incessanti rielaborazioni – soprattutto narrative – della Shoah dimostrano, a distanza di ottant’anni, e più, l’esistenza di un’aggrovigliata matassa di nodi legati alla produzione di immagini – e non solo di eventi – contenute nell’enorme serbatoio della Shoah. Il trascorrere del tempo – ecco un altro paradosso – rende sempre più difficile districare tali nodi, perché l’eredità della Shoah continua a intrecciarsi con questo nostro presente sempre più confuso.
Il secondo capitolo del volume si apre con un’affermazione pregna di significato, ovvero «Nessuno testimonia per il testimone». Che peso ha la testimonianza diretta di chi ha vissuto l’orrore dell’Olocausto sulla memoria degli eredi, diretti o indiretti che siano?
Il libro tenta di ribadire, quasi in ogni pagina, si può dire, che proprio il termine di testimonianza, nel caso della Shoah, dimostra la sua usura, se inteso nell’accezione più comune che gli si attribuisce. Non esiste, non può esistere, una testimonianza veridica, dal momento che l’atto del testimoniare è sempre successivo all’evento oggetto della testimonianza. Nel corso di questa sfasatura temporale l’evento viene sottoposto fisiologicamente (al di là della volontà singola di ogni testimone, che vorrebbe sempre attenersi a una sua descrizione oggettiva) a un montaggio che risulta inesorabilmente “narrativo”: fedele, cioè, alla riproduzione derivata dalla testimonianza, più che all’evento originario. Questo non implica assolutamente che le testimonianze dei deportati nei campi – da Levi, Antelme, Cayrol, Semprún, o Améry, di cui si parla nel primo capitolo del libro – siano viziate da falsità, ma che il valore della testimonianza non dipende solo dalla presenza fisica di chi è stato vittima della Shoah. La testimonianza di due eredi diretti come Celan e Perec (che hanno perso i genitori nei Lager), scavando nella memoria personale e collettiva – dal momento che non avevano nessun altro strumento a loro disposizione –, è di pari valore a quella dei testimoni oculari.
L’ultimo paragrafo del volume afferma che «ognuno di noi vede la sua Shoah personale» …
È un’affermazione del grande artista francese Christian Boltanski, scomparso qualche anno fa. Va riportata all’interno della cornice appena delineata. Ogni testimonianza, diretta o indiretta, della Shoah rimane sempre un’interpretazione frammentaria che dipende dal punto di vista di chi la racconta o la illustra visivamente. Come dimostra il mio libro, esiste, infatti, una molteplicità di modi attraverso i quali la Shoah è stata raccontata e illustrata, e continuerà ad esserlo. Se la Shoah coincide con l’annientamento di ogni alterità considerata pericolosa dal regime nazista per la propria stabilità (ebrei, dissidenti, politici, omosessuali, zingari), i riverberi e gli effetti di questa nichilistica “demolizione” – come la definisce Levi – non potranno mai essere i medesimi. Mentre, per esempio, negli anni ’60 avevano un significato limitato a quanto avvenuto, appunto, sotto il regime nazista, oggi, quando l’alterità, purtroppo, sta tornando a costituire una profonda minaccia per molti, la Shoah si carica di nuovi significati, a noi più vicini, anche se complessivamente essa rimane un evento irripetibile nella sua fisionomia storica.
Oggi – per evidenti motivi cronologici – i testimoni diretti dello sterminio sono sempre meno o, per dirla con Semprún, «verrà il giorno, non troppo lontano, in cui non rimarrà più alcun sopravvissuto». Cosa accadrà alla memoria e, nello specifico, ai racconti incentrati sulla memoria della Shoah quando i testimoni diretti dell’olocausto non ci saranno più?
Ci saranno – ma già proliferano da tempo – solo narrazioni letterarie della Shoah. Non è detto che siano, o si dimostreranno, opere di nessun valore. Se riusciranno a evitare gli stereotipi dell’intrattenimento, potranno contenere anche un profondo valore conoscitivo, in grado di aggiungere nuovi modelli interpretativi alla più che folta letteratura esistente sull’argomento. Lo dimostra, esemplarmente Sebald con il romanzo Austerlitz, pubblicato nel 2001 È opportuno ricordare l’etimologia del verbo fingere, da cui deriva, poi, il sostantivo finzione. Il suo significato originario corrispondeva nella lingua latina a “plasmare”, “foggiare”. Se lo si intende in questa accezione, si comprende la funzione decisiva che la narrazione letteraria può avere, nei confronti della Shoah. Può contribuire in modo decisivo ad attribuirle – oltre a quanto già costituisce un indiscutibile patrimonio comune – una pluralità di “fogge”, di forme, richieste, di volta in volta, da un tempo storico in continuo divenire. Forme destinate a moltiplicare ininterrottamente la nostra conoscenza della Shoah.
teresa.agovino@unimercatorum.it
L'autore
- Teresa Agovino (1987) ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2016 presso l'Università 'Orientale' di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Insegna Letteratura italiana presso l'Università Mercatorum (Roma) e Metodologie di scritture digitali presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di ricerca su Alessandro Manzoni, Primo Levi, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri, autori sui quali ha pubblicato numerosi articoli in rivista e atti di convegno. Ha pubblicato i volumi: Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento e Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, Avellino 2017 e 2020); I conti col Manzoni e «Sotto gli occhi benevoli dello Stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, Napoli, 2019 e 2024);“Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo”: Social, blog, testate online, Manzoni e il grande pubblico del web (Armando editore, 2023). Ha vinto il premio 2023 dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Classe di Lettere, con il saggio Da Manfredi all’innominato. Suggestioni dantesche in Manzoni.
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