L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Dedico queste riflessioni sul valore terapeutico della parola e del ritmo a mia sorella Rosanna, psicoterapeuta e maestra, con la quale ascoltavamo nenie e filastrocche dalla nonna, al tempo che Berta filava. A lei devo molti insegnamenti. Desidero dar loro almeno un fil di voce con parole sue (finora inedite) dedicate al pensiero di Winnicott sul valore del gioco nella formazione di un individuo felice e responsabile: «Nelle mie esperienze di lavoro e di studio, rivestendo in tempi diversi entrambi i ruoli di insegnante e di psicologa, ho avuto modo di sperimentare questo muoversi in un’area di relazione in cui il gioco, inteso in un senso ampio ed utilizzato dai bambini come dagli adulti, è un mezzo straordinario di crescita e di comunicazione. Ma è anche nella mia esperienza di vita quotidiana come madre che ho sperimentato la ricchezza e la fertilità della relazione speciale madre-figlio per la creazione progressiva di un individuo. La madre offre le sue attenzioni e le sue cure. Quando l’adattamento della madre ai bisogni del bambino è sufficientemente buono, esso dà al bambino l’illusione che vi sia una realtà esterna che corrisponde alle sue aspettative. Gradualmente il compito della madre è di disilludere il bambino: dallo svezzamento in poi il compito dei genitori, e poi degli educatori, sarà di procedere offrendo illusione e disillusione. Il compito così difficile affidato a genitori ed educatori è per certi aspetti anche del terapeuta: attraverso la costruzione di una relazione accogliente e fondata sull’empatia, tutte queste figure si impegnano per illudere e poi disilludere, accompagnare il bambino, il ragazzo o l’adulto all’accettazione della realtà e delle frustrazioni, dei compiti futuri e delle responsabilità» (Rosanna Bologna).
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Qualcuno ha proposto di ridefinire farmastrocche le filastrocche, per il loro valore terapeutico. È vero: si potrebbe dire che le filastrocche sono un farmaco, anzi una farmacia, un laboratorio di pozioni verbali che fanno bene all’anima perché, sciogliendo la lingua, rendono leggera e veloce la mente. La filastrocca contiene un succo curativo capace di dissolvere gli impacci formali della parola nel suo legame con l’idea, e che nel battito delle sillabe avvitate su un suono elementare si nasconda il ritmo della vita, anzi proprio l’essenza inspiegabile della vita e della morte. La vita e la morte, la paura e il dolore, si curano con il canto sommesso di parole messe “in fila”, “filate” come un tessuto un po’ per gioco e un po’ per sfidare il ragionamento logico, l’argomentazione coerente. La Voce è insieme forza e tenerezza, cura e autorità. La Voce pura che ritma il canto nel coccolìo della nenia e della filastrocca, facendo prillare una trottola colorata di parole offre un sollievo al pianto e all’angoscia, alla tensione e alla stanchezza.
La filastrocca condivide una natura magica e rituale con lo scioglilingua, appunto, e con il mormorio, il sussurro, la cantilena, la litania, la ninna nanna, la nenia funebre. Ernesto de Martino, in Morte e pianto rituale (1958), ha mirabilmente illuminato la potenza della Voce e del Rito nel «far passare, risolvendolo nel valore», ogni «momento critico dell’esistenza»; far passare il dolore e male, non lasciare che la presenza «passi» nel gorgo della loro negatività.
Nelle espressioni di canto elementare, ipnotico e quindi rilassante, dolcemente terapeutico, la parola sembra ritrarsi, prosciugarsi, lasciando emergere in trasparenza la trama della voce, che è anzitutto pulsazione biologica, grido indistinto, respiro, suono ancora libero da qualsiasi obbligo di significare: e perciò pronto a curare arricchendo la mente di sensi infiniti. Annullando il significato di un “discorso filato” la filastrocca moltiplica le potenzialità del senso, perché lascia intendere che “abbia senso”, di per sé, la voce, proprio là dove non “dice” nulla se non sé stessa.
Che cosa mai potrà “significare”, infatti, un limerick di Edward Lear, un nonsense di Lewis Carroll, un «verso del senso perso» di Toti Scialoja?
I bassotti di Pisticci
si bisticciano se alticci.
Il sogno segreto
dei corvi di Orvieto
è mettere a morte
i corvi di Orte.
Passa in cielo una folaga…
Ne segue un’altra, analoga…
Il “senso” qui è davvero «perso», il “significato” non si lascia acciuffare se non quando il suono si spegne, e dall’incantesimo della filastrocca siamo bruscamente richiamati alla realtà del “senso comune”. Quel significato lo ricostruiamo a ritroso, cercandolo a partire dalla fine, dopo che gli occhi e il pensiero, finalmente liberi di giocare, si sono lasciati prendere alla sprovvista dall’Insensato. E allora corriamo all’indietro come i gamberi fra le assonanze, le rime, il gioco fonetico, la danza delle immagini mentali, a caccia di un nesso fra le parole appena snocciolate, che continuano a scodinzolare come pesciolini presi nella rete e ancora guizzanti nell’aria.
Anche se la forza evocativa del racconto è l’orizzonte a cui tende ogni frase costruita dall’uomo, la filastrocca non è abitata dall’organismo di una compiuta narrazione: legano le sue parole solo la forza sonora, l’intonazione, la dinamica che scandisce la sua energia benefica e farmaceutica, ossia il rapporto fra il ritmo e le rime. Questa energia è il filo conduttore della filastrocca, che fila via come una tiritera lieve e gioiosa, quasi che lo svuotamento ludico dei significati promessi dall’inaugurarsi di una narrazione riuscisse a portare alla luce il vero, intimo significato dell’esistenza, mostrando la profondità sulla superficie: la vita va vissuta come un’iniziazione e un mistero, e non c’è nulla da svelare e da rivelare oltre al fatto semplice e indicibile del vivere.
Il gioco della filastrocca è terapeutico perché sottrae pesantezza, rende più sostenibile l’esistenza, il “qui ed ora” che giudica inutile “perder tempo” dietro ai giochi verbali. In questo consiste d’altra parte il nòcciolo intimo della letteratura, che secondo la splendida formula delle Lezioni americane di Italo Calvino è «leggerezza contro il peso del vivere». La filastrocca è una cellula originaria della letteratura come istanza di narratività, come arte di raccontarsi nella vita. In questo consiste il suo potere taumaturgico: essa crea un alone musicale nel quale, al modo stesso in cui lavora il mito, l’allargarsi di uno spazio di narrazione e di ascolto è perfino più importante del contenuto di ciò che viene narrato. E quel che viene narrato, allora, sarà la nuda vita, il puro e semplice rincorrersi delle parole-immagini che irrompono nell’esistenza umana come pecorelle smarrite in attesa di venir ricondotte nel gregge ordinato dei pensieri e dei discorsi adulti.
Fra le numerose accezioni del termine phármakon, in greco, spiccano “medicamento”, “veleno”, “filtro magico”, “narcotico”. La filastrocca è un phármakon spirituale, ipnotizza farfugliando e illude che esistano davvero nella realtà quotidiana quei significati straordinari che svettano verso il sublime del non-senso, lasciando intravedere spazi sconfinati d’invenzione di sensi nuovi: ma non appena la tiritera si esaurisce quelle fantàsime sfumano via velocissimi alla maniera delle nuvole, del fumo.
Nel fumo delle stalle i contadini padani raccontavano il filò, narrazione mitica di piccole storie locali o di grandi eventi dell’umanità, tenace “filo del discorso” capace di legare gli uomini in un rito di condivisione e di comunità. Filò si intitola una delle più belle collezioni di poesia di Andrea Zanzotto, composta per il Casanova di Federico Fellini, nel 1976:
Pin penin
valentin
pena bianca
mi quaranta
mi un mi dói mi trèi mi quatro
mi sinque mi sie mi sète mi òto
buròto
stradèa
comodèa
Pin penin
fureghin
perle e filo par inpirar
e pètena par petenar
e po’ codini e nastrini e cordea –
le xe le comedie i zoghessi de chéa
che jeri la jera putèa.
Parlando di queste sue filastrocchine da dormiveglia, liriche-nenie composte nel petèl infantile, Zanzotto dice che proprio qui, nel ghirigoro delle sillabe sussurrate a fior di labbra per cullare verso il sonno, si incontra «…il nostro non sapere di dove la lingua venga, nel momento in cui viene, monta come un latte…». Di latte e di sillabe, di sonno e di dondolìo sono impastate le filastrocche. Parole da balia e da poeti: i più grandi ammettono un’ispirazione arcana che risale (“rimonta”) al tempo del latte e dei primi balbettii, riconoscendo un nodo oscuro e indescrivibile che stringe la filastrocca all’altissima poesia.
Ludovico Ariosto (raccontava un suo amico, l’umanista Celio Calcagnini) passeggiando un giorno a cavallo, cullato dal tic-tac degli zoccoli, ricordava la tiritera magica e astrusa che sua nonna gli sussurrava quand’era bimbo per cacciar via il pianto e la paura: «haut haut haut ista pista sista damiabo damaustra, haut haut haut haut istagis tursis ardannabon damaustra». Oggi le nonne cantilenano: «Giro giro tondo…», «Piazza bella piazza…», «Pin penin valentin…». Cambiano le nonne, cambiano le lingue, ma le filastrocche continuano a funzionare da delicate aspirine dell’anima, da potentissimi antibiotici dello spirito.
L’Ariosto vedeva bene che Calcagnini e i suoi amici se la ridevano di gusto mentre lui ricordava le filastrocche di sua nonna; e sorrideva anche lui: aggiungendo subito, però, che da lì, proprio da quella nenia di sapore arcano e dissennato, da quella formula buona per la maga Magò, aveva imparato a poetar sorridendo. Cosí, mescolando il serio e il giocoso, egli pensò forse l’Orlando Furioso: parlando come parla il mito, cioè sognando le sillabe magiche delle cantilene notturne e lasciando che lo scheletro fonetico si costruisse sulla sillabazione primordiale (ba-be-bi-bo-bu…), la stessa con cui il bimbo gioca a variare le vocali intorno ad una sola consonante, e sul fremito leggermente ipnotico della ninna-nanna e della tiritera.
Nel Purgatorio Dante fa dire a Stazio, rivolto a Virgilio, che «l’Eneïda […] mamma / fummi, e fummi nutrice poetando»; e per lo stesso Dante il «padre» Virgilio sarà anche una mamma allattante, tenera, ispiratrice di versi magnifici, che lascia pieno di paura Dante-fantolino quando scompare per lasciare il ruolo di guida a Beatrice. Lo stesso dice di Omero «che le Muse lattar più ch’altro mai», e di ogni Poeta-neonato, nutrito dalle Muse «del latte lor dolcissimo più pingue». E giunto al termine del viaggio, nel punto più alto del Paradiso, là dove cerca invano le parole per descrivere la forma dell’Essere, nelle altezze sublimi del pensiero, la lingua gli si inceppa, si ingarbuglia, debilitata, ridotta allo stremo delle forze, come quella del «fante / che bagni ancor la lingua alla mammella». Il bambino che impara, attraverso il balbettio di sillabe ribattute, a dare alla luce la parola è la figura allegorica del poeta che cerca di far coincidere il senso e il suono, l’idea e la sua verbalizzazione.
Un grande poeta del Novecento, il russo Osip Mandel’štam, nel suo Discorso su Dante riconoscerà in questa metafora della lingua di latte una delle più belle figure della parola poetica balbettante; e suggerendo che Dante, mentre compone i versi più geniali che mente umana abbia mai pensato, abbia in mente «la fonetica della balia», la ricondurrà genialmente alla «puerilità della fonetica italiana», al suo «bellissimo infantilismo», alla sua «affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario».
Italo Calvino diceva che «le fiabe sono di natura migratoria, perché viaggiano nel tempo e nello spazio, attraverso secoli e continenti, ma anche attraverso gli strati sociali». Anche la filastrocca, che percorre i linguaggi e le culture, ha natura interclassista, non conosce né ricchi né poveri, e neppure età o livelli culturali. Ho visto dottissimi professori canticchiare ai nipotini filastrocche molto sciocche, del tutto identiche a quelle che i contadini, tornando stanchi dai campi, sussurrano a loro volta ai figli o ai figli dei figli, estraendole da una memoria senza tempo, arcaica come le profondità dell’anima.
Chissà che filastrocche avrà canticchiato ai suoi bimbi Aristotele, e quali Dante, e quali Mozart, e quali Manzoni. Tutti uguali, anche i sommi geni, di fronte alle cantilene infantili: tutti bambini, tutti affascinati dalla magia di quelle storielline sconclusionate ma così sorridenti, così capaci di far sorridere. La filastrocca, con la sua tenerezza, riduce le differenze fra gli uomini, invitando a riconoscere la semplicità che irride la complessità della vita e suggerendo che questa è la via per sdrammatizzarla.
L'autore
- Corrado Bologna ha insegnato Filologia romanza in diverse Università italiane e straniere, e Letterature romanze medioevali e moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato numerosi saggi sui principali autori delle letterature europee. Il suo ultimo libro è Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, Luca Sossella, Roma 2022.
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