Francesco Curto è nato ad Acri nel 1949 e vive a Perugia. Fin da giovanissimo ha iniziato a pubblicare raccolte di poesia, tra cui Liriche (1968) e Vento del Sud (1973); nel 1975 si è finalmente imposto all’attenzione della critica con il volume Sono Vivo. Tra le numerosissime pubblicazioni si ricordano Vietato vietare (1977), Io don Chisciotte (1982), Il rumore sommerso (1991), Lucciole negli occhi (1994) e Io l’ho fermato il tempo (2004). Nel 2003 è uscito il romanzo Il bivio; nel 2021 ha pubblicato la raccolta Versi sfusi.
Qual è stato il suo primo incontro con la poesia? Quali i suoi autori di riferimento?
Non saprei datare con precisione il mio primo incontro con la poesia, ma da piccolo avevo questa “insana” tendenza a fare poesia sui fiori, sulla natura e sugli affetti più cari. Non so se sono stato io ad aderire al mondo della letteratura o sia stata la poesia a cercarmi; fu così per Neruda, ma lungi da me la presunzione di sentirmi poeta e accostarmi al grande Pablo. Sono nato in una famiglia povera e forse da quella miseria ho avuto vantaggi iniziali, tali da permettermi di acquisire sensibilità, voglia di emergere, stimoli e conoscenze per potermi esprimere molto presto con la scrittura. Mio padre era analfabeta, zappatore della terra degli altri, minatore e poi anche bevitore incallito, per la condizione di disoccupato, una volta tornato dal nord. Mia madre sapeva appena leggere e scrivere e a quei tempi non era poco. Per tanti motivi, e per fortuna, sono inciampato nel verso, forse per sentirmi meno solo e disperato. Da ragazzo ho letto poco e un po’ di tutto, disordinatamente, negli anni ginnasiali e del liceo. Preferivo stare più in biblioteca che a scuola. Ma l’incontro con la poesia di Cesare Pavese mi ha segnato dentro, facendomi rischiare molto. Avevo già avuto un altro grande impatto con Foscolo e Leopardi, con crisi inconfessabili, isolandomi spesso da tutti e da tutto. Ho letto la poesia russa del Novecento, poi Neruda, Lorca, Baudelaire, Nazim Hikmet, alcuni della Beat Generation, Pessoa, Pasolini e Penna e rileggo ancora oggi Montale, Ungaretti, Quasimodo e Luzi.
Quale, tra le sillogi da lei pubblicate, ha riscosso maggior successo presso la critica?
Sono vivo, edito da Umbria Editrice nel 1975, con la introduzione di Gianni Oliva, già docente all’Università di Perugia, segna il punto di partenza di questo lungo viaggio. Poi Pasquale Tuscano, ordinario della Università degli Studi di Perugia, ne riconobbe la validità poetica. Con la pubblicazione delle raccolte successive seguirono i giudizi critici di Carmine Chiodo dell’Università di Roma Tor Vergata. Maria Rita Di Venuta dell’Università di Palermo ha dedicato un saggio alla mia poesia nel Convegno AdI (Associazione degli italianisti) a Siena, nel 2006. Intanto ad Ankara il Professore Necdet Adabag della Facoltà di Lettere scriveva della mia poesia sulla rivista Italian Filolojisi e ne traduceva alcune sul quotidiano Cumhuriyet Kitap, in tempi diversi, successivamente raccolte e pubblicate da Futura Ed. con il titolo Curto in Turco. Oretta Guidi dell’Università per Stranieri ha pubblicato Irregolari novecenteschi: Bontempelli, Savinio, Landolfi, Penna, Curto. Molto ha scritto il prof. Mario Iazzolino della Unical sulla mia opera poetica. Mentre Annalisa Saccà, docente di Lingua e Letteratura Italiana della St. John’s University di New York, ha tradotto una raccolta di poesie pubblicate da Morlacchi Ed. dal titolo Il vento del Mucone – Mucone’s Wind. Ricordo ancora l’appassionata analisi di Tommaso Scappaticci dell’Università di Cassino sul mio romanzo Il bivio e l’esame puntuale e rigoroso tra poesia e narrativa. La storicizzazione di tutta la poesia curtiana e il lavoro critico più complesso e sistematico fino ad oggi è quello di Sandro Allegrini con il saggio Eros. Simbolismo e Ideologia. Tre studi sulla poesia di Francesco Curto. Infine ringrazio tanti altri che hanno scritto sui miei versi e mi scuso se non potrò menzionarli tutti. Rimando i miei lettori alla recente opera omnia di Luigi Maria Reale che ha raccolto cinquanta anni di scritti in Poesie 1968-2018, oltre ad essersi occupato di una Bibliografia ragionata in cui riporta le note degli autori con riferimenti agli interventi critici su tutta l’attività poetica.
La dimensione della memoria e l’evocazione del tempo passato occupano uno spazio centrale nei suoi testi, spesso divorati dall’assenza, dalla nostalgia. Cos’è, per lei, la poesia: una semplice rappresentazione della malinconia o uno strumento funzionale a sanarla?
Italo Calvino ha detto: La poesia “è l’arte di far entrare il mare in un bicchiere”. Confesso che non so, a questa età, se definire quanto ho prodotto “poesia”: a volte mi sento a disagio quando qualcuno mi connota come poeta. Ogni componimento mi appartiene e fa parte della mia sfera personale. È poesia quella che sa arrivare agli altri, quella che si oggettivizza e diventa poesia di tutti. L’Infinito di Leopardi è la poesia dell’umanità intera. Sono d’accordo con Lei che la dimensione della memoria e la ricerca del tempo perduto (ah Proust!) sono i due punti in cui oscilla il pendolo del mio animo senza mai fermarsi. In questi due movimenti c’è l’assenza da riempire. La poesia per me, come scrive Rainer M. Rilke, è la più alta espressione della parola, ma è anche consolazione e salvezza. Mario Luzi scrive che la poesia è vita e aggiunge vita alla vita. Io, in alcuni versi ho scritto che “la Poesia è una gravidanza del cuore”. Come si può evincere dalla lettura, io non costruisco e non torno mai sopra quanto ho scritto. Alcuni mi rimproverano questa cattiva abitudine, limare è stata la perfezione dell’opera di tanti autori. Gioca la sua partita nella mia poesia la malinconia e di più il dolore mentale, la presunzione vince qualche volta fino a farmi affermare: “Io l’ho fermato il tempo”, una illusione che però ti dà la forza di continuare a vivere. E che dire poi dell’amore? Tutta la mia poesia parla, racconta, si alimenta, si abbevera di amore, platonico ma anche fisico. È questa linfa che fa alzare la mattina e poi respirare e bere un sogno tutto intero per affrontare la giornata.
“Abbiamo sporcato i fiumi / tutta la natura soffre per le nostre offese / abbiamo avvelenato l’aria.” Questi versi sono pregni di un forte sentire ecologista: come pensa debba porsi la letteratura di fronte alla constatazione del disastro ambientale?
Fare poesia è anche un impegno etico e civile. Al libro ho sempre affidato i propri sogni per scopi umanitari e di solidarietà, convinto come sono che l’Arte può e deve contribuire ad aiutare gli altri e soprattutto quelli afflitti dalla malattia, dalle guerre, dalla solitudine, sopraffatti dai soprusi, dalle angherie, dalla violenza del potere. Insomma dare voce a chi voce non ne ha e restituire diritti ai senza diritti. La poesia è una dichiarazione d’amore per la natura, oggi così bistrattata e stravolta. Ho letto la lettera enciclica di Papa Bergoglio “Laudato sì” e ne sono rimasto colpito per la denuncia che fa dell’uomo che distrugge per il proprio egoismo l’ambiente, irriverente di questo paradiso unico che oggi abbiamo. Concordo col papa quando ci ricorda che noi non siamo i padroni del pianeta ma solo i custodi e che bisogna avere rispetto per la terra, per il mondo vegetale e quello animale e attenzione per la biodiversità che ci garantisce il futuro. Sono dalla parte delle giovani generazioni che gridano il loro dolore e a cui noi stiamo negando il futuro. L’inquinamento è la nostra morte naturale. L’uomo è capace di distruggere la vita della terra per un interesse egoistico, di avere sempre di più, togliendo a molti anche l’acqua. Il mio canto di battaglia contro chi non ha rispetto della natura si associa alla denuncia dei difensori degli alberi e degli animali a rischio d’estinzione.
Già dal titolo della sua raccolta, “Versi sfusi”, si evince una concezione frammentaria, frastagliata del pensare poetico; tuttavia appare evidente tra le pagine una solida coesione formale, caratterizzata da uno stile personale e ben riconoscibile: come riesce a far convergere questi due poli, apparentemente opposti?
Le poesie di questa raccolta sono nate nel periodo della pandemia. Ogni componimento è una piccola storia, Sono versi sfusi, nel senso che, lasciando la mente spaziare liberamente, essa catturava nella memoria sensazioni e ricordi, dolori e assenze, tentazioni di sopravvivenza e speranza di affidare ad altri quanto il cuore era riuscito a trovare, consegnandole poi alla parola per la pagina bianca. I temi e lo stile mi sembrano che siano quelli di sempre. Ogni volta una gravidanza del cuore e forse tanti aborti dolorosi. A me sembra, per alcuni aspetti, un ritorno a quelle tematiche già presenti in Parole sottovuoto ed Effetti diversi, e a tutte le altre raccolte che ora non mi sembra il caso di ricordare.
L'autore
- Giulia Grillenzoni si è laureata in Lettere moderne presso l'Università degli Studi di Perugia, dove è oggi iscritta al corso di laurea magistrale. Si interessa di Letteratura italiana e in particolare di poesia del Novecento.
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