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Teatrosofia di Eduardo De Filippo

La soglia della complessità, il momento del suo essere varcata, esige anche una soggettività che si complica, un vero e proprio “complicarsi la vita”. Decisione dirimente e dirompente che racchiude la sublime consistenza della conoscenza. Disporre il proprio corpo alla pluralità come postura cognitiva che incrocia passioni e ragione, commistione sempre intrecciata, significa esporsi al mondo, chiederne il “perché”. Simile percorso ha realizzato Eduardo De Filippo a teatro, ma non solo.

L’opera di De Filippo non racchiude semplicemente una statica sedimentazione di una sapienza drammaturgica, letteraria, filosofica e antropologica ma, inversamente, tale portato culturale è continuamente rimesso in azione critica e affermativa opera per opera. La teatrografia vivente di Eduardo si dipana lungo un asse concettuale e di presenza scenica incentrato sulla complessità; il fulcro di ogni dramma, poco sotto la superficie della trama che si va svolgendo, è disseminato da punti di attrazione che fanno capo a frasi, gesti, sguardi, smorfie, oggetti che, ricorrendo, decretano un certo ritmo significante. De Filippo opera sempre su registri plurali segnati da punti di accumulazione e frammenti di rottura generativi di distanze; ogni dramma schiude una serie di diagonali rispetto alla vicenda principale e, ad una lettura attenta, è in esse, lungo la loro superficie che Eduardo dissemina una propria ed autonoma teoria del teatro.

Modi di dire, espressioni ormai idiomatiche anche oltre il teatro, rivisitazioni più o meno riuscite di matrice cinematografica sono, a quanto pare, le sedimentazioni di più immediata fruizione dell’opera eduardiana. Tuttavia, ed è lo scopo di questo studio, Eduardo ha saputo trasversalmente creare una sua personale ermeneutica del secolo a partire dallo scorcio teatrale come quel frammento che, però, assurge a ritmo universale per un concreto esercizio di comprensione della realtà nel suo complesso. Il rigore è la costruzione del discorso schiudente il circostante e l’incavo dello sguardo di De Filippo lo testimonia senza appello: «Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita […] Quando sono in palcoscenico a provare… quando ero in palcoscenico a recitare… È stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo! Così si fa il teatro, … così ho fatto» (Dall’ultimo discorso a Taormina il 15 Settembre 1984. Anche in: M. Giammusso, Vita di Eduardo, Elleu Multimedia, Roma 2004, p. 463).

La forma mosaico, a partire da scene di vita quotidiana (piccoli scandali nelle strette vie napoletane, casi giudiziari di materia civile, sguardi e tradimenti, spie e fantasmi superstiziosi), è il magma che Eduardo ha percorso lungo la sua opera formando non solo un bacino di riferimento ma anche una dichiarazione di poetica. Come Balzac con la sua sterminata La Commedia umana, la scrittura drammaturgica eduardiana è una disseminazione che smaschera, dissacra, a volte ridicolizza pur, in altre circostanze intenerendosi un po’, “splendori e miserie” dell’umano, dell’Italia, del mondo in generale.

Il “gelo” come tratto distintivo del teatro e della vita-teatro eduardiana. Se Balzac aveva affrescato una fiumana di parole a vizi e virtù di una società perlustrando l’universale e il particolare come correlazioni, Eduardo ha complicato (nel senso latino di complicatio, ovvero un’articolazione più ampia) le piccolezze del quotidiano facendole entrare, di diritto, nella realtà. Il Natale di Luca Cupiello è quel fugace quotidiano che si fa evento, invano, per riaffermare la realtà a partire da una resistenza che, apparendo infantile ed irresponsabile, diventa avamposto critico contro ogni sorta di metafisica della menzogna. La crescente complessità del “progetto” del presepe modella l’ostinazione etica nel permanere ad una societas comune nel procelloso mare di ogni crisi familiare. Così in Filumena Marturano la donna “diviene donna” in quanto, quale forza puramente immanente, pone con dirompente forza la coscienzialità critica verso dogmi di potere in apparenza inamovibili come l’auctoritas paterna, la dimensione maschile, il denaro, il successo, il ricatto. Il terribile groviglio della guerra nonché della sua attesa relata allo spettro sempre insistente di una nuova paura e la beffa spinta fino all’ultimo esame anch’esso illusione di definitività smentita da un esame ulteriore post-mortem, racchiudono due momenti di ripiegamento della complessità cui pertiene l’accettazione per l’assurdo in quanto tale, cifra del Novecento che irrora l’intera opera di Eduardo.

Diremmo “i fantasmi”, la metateatralità di De Filippo è un invito ad allearsi con l’attore-drammaturgo che si compromette in scena, altra cosa rispetto a Pirandello che sottolineava la contrastività, nella sua trilogia (Cfr. L. Pirandello, Trilogia: Sei personaggi in cerca d’autore-Ciascuno a suo modo-Questa sera si recita a soggetto, a cura di G. Tomasello, Feltrinelli, Milano), tra regista, attori e pubblico; il professore Santanna siamo noi, è l’Altro come “altri”, quel dirimpettaio coinvolto nella vicenda grottesca di Pasquale Lojacono che rileva la presenza della realtà, ne fa percepire la presenza proprio nell’impossibilità del dialogo. Infatti, in senso esplicativo, Eduardo dice che il professore Santanna è “un’anima utile, ma non compare mai”, riferendosi proprio alla sua filosofia, ai nodi concettuali ed esistenziali che intessono la sua drammaturgia laddove la critica della coscienza è sempre sullo sfondo e non può salire sul legno scenico. Essa non è neanche il coro antico poiché non parla, non si esprime chiaramente. Analogamente questa voce della complessità è incarnata da Zi’ Nicola in Le voci di dentro, dal momento che il tacere perenne strappato al silenzio soltanto da cadenze di petardi si fa atto d’accusa verso una contemporaneità mistificata, volutamente semplificata, non più in grado di comunicazione reale; Eduardo è il solo a capire Zi’ Nicola ma la complicazione nella comprensione si fa via via maggiore, più ardua, oscura. Qui “fantasma” ha l’approccio greco, φαίνω ovvero il mostrarsi e l’apparire di qualcosa di presente, utile a demistificare così che il riso stesso è problematizzazione del distacco glaciale con Bergson sullo sfondo (Cfr. H. Bergson, Il riso in Le opere, a cura di E. Paci, Club degli Editori, Milano 1971).

Eduardo lascia tracce impercettibili nelle sue opere, segni della complicatio vitae che, al contempo, è ansia di conoscenza e costruzione esistenziale nonché avvertimento e attraversamento di crisi sociali e politiche globali. La voce del teatro passa nei micro-divenire delle pause, una scrollata di spalle, un sopracciglio arcuato, infiniti micro-mondi gestuali, ma non può che trovare la propria scaturigine nella scrittura: «Quello che io voglio darvi è il coraggio di scrivere» (E. De Filippo, Lezioni di teatro, Einaudi, Torino 1986, p. IX). Si rivolge così Eduardo ai ragazzi del corso di drammaturgia di Roma. Dar movimento concreto alla figura della scrittura richiede fatica e gelo, tanto che proprio lo stesso Eduardo non edulcora l’universo scritturale e quello teatrale presentandone i crismi agli studenti, anzi ne fa una questione di superamento di soglia, di “coraggio” appunto, di schieramento critico deciso. Il drammaturgo, come ogni vero scrittore, oltrepassa il mediocre compromettendosi nella vita e, parimenti, in scena; il porsi ostacoli, il mettersi in difficoltà sul proscenio è un atto estetico e politico che secerne la libertà stessa della scrittura.

Questa complicatio ha anche una sua declinazione linguistica riferibile alla scelta dialettale; infatti, il napoletano è lingua universale poiché passaggio di pluralità e, nella sua genesi geografica, è un processo storico-semiotico del Sud. Saranno proprio questi i fattori che, tra gli anni ’20 e ’30, presentificheranno e concretizzeranno l’opposizione di Eduardo al regime fascista e alle sue censure. La lingua  complessifica la drammaturgia non per una semplice scelta d’appartenenza, ma per una radicale avversione rispetto al potere repressivo della dittatura fascista che i fratelli De Filippo non avranno paura a manifestare chiaramente: «[…] tra il 1936 e il 1941, si susseguono le denunce al Ministero degli interni sul presunto atteggiamento antifascista e disfattista dei De Filippo, mentre nel 1943 è lo stesso Ministero a trasmettere alla Questura di Roma una relazione fiduciaria per accurate e riservate indagini sul comportamento antinazionale dei fratelli De Filippo» (in Aa. Vv., Eduardo De Filippo, a cura di E. Testoni, Rubbettino, Catanzaro 2004, p. XXXV). Il silenzio incarnato sulla scena da Zi’ Nicola fa pendant con la precisa volontà di esprimere una parola avversa, contraria, accusante e limpida nella sua onestà, senza alcun moralismo. Un’opposizione sobria, calma ma irremovibile, senza bisogno di ulteriori gesti plateali. Questo è il nocciolo dichiaratamente antifascista e, conseguentemente, portavoce della più totale libertà dell’artista e dell’intellettuale teorizzato e vissuto da Eduardo nonché presente come frammento critico nella sua vasta drammaturgia.

La dimensione dell’alterità pertiene alla complicatio del teatro eduardiano come un correlato imprescindibile sin dal momento creativo puramente astratto, mescolanza di interesse razionale e accostamento appassionato; è lo stesso De Filippo a tratteggiare la necessità poetica dell’Altro ovvero quell’interstizio dal quale parla una smorfia, una scompostezza, un lamento, così come la povertà, il dolore ma anche la comicità e l’autoinganno.

Voglio dire che tutto ha inizio, sempre, da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia ed altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi, sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli […] In generale, se un’idea non ha significato e utilità sociali non m’interessa lavorarci sopra. […] io posso affermare che le idee mi nascono nel cuore prima che nel cervello. Poi ci lavoro su con la mente e allora ho bisogno dei sensi per rendere le idee concrete, comunicabili, affidandole a personaggi e dando ai personaggi parole per esprimersi. Occhi e orecchie mie sono stati asserviti da sempre – e non esagero – a uno spirito di osservazione instancabile, ossessivo, che mi ha tenuto inchiodato al mio prossimo e che mi porta a lasciarmi affascinare dal modo d’essere e di esprimersi dell’umanità (E. De Filippo, I capolavori di Eduardo, volume primo, Einaudi, Torino 1973, p. VII).

Un corpo captante annodato alla creatività. L’arte di Eduardo ritaglia ed estrae, per poi universalizzare. Il particolare, il frammento, il punto di vista, lo scorcio, il paesaggio da una certa angolatura, rappresentano altrettanti canali di studio coi quali, in seguito, irrorare le scene attraverso una sorta di procedimento induttivo che dal particolare ne eleva i tratti ad universale. Il senso della bottega teatrale quale luogo di apprendistato si misura con ricezioni, tagli ed estrazioni; da un vicolo, da una strada poco trafficata, da una conversazione compresa a malapena da lontano, si attua la ricezione che, in seconda battuta, converge su questa materia e la incornicia ritagliandone i caratteri e stabilendone i confini, i bordi. In ultimo, l’estrazione emotivo-cerebrale che avvia quel lungo processo di lavorio, simile alla scultura, che porterà a scene, personaggi, scrittura drammaturgica. Possiamo parlarne come di un vero e proprio metodo eduardiano.

Un panorama eclettico e variegato teso a comporre quel molteplice attraversamento che l’inconscio immette a teatro; il “fuori” delle voci penetra nel “di dentro” affollando il palcoscenico mentale dove avviene, come autore-attore-regista-pubblico, quel passaggio per il quale la drammaturgia si rende fluida per vestire, circolarmente, tutti i ruoli (anche quello dello spettatore). La funzione metateatrale di Eduardo risiede nel metodo cognitivo di vivere in modo appassionato e compromesso molte esistenze. E lo spettacolo? De Filippo ha sempre solcato la soglia tra regista e capo-comico, creando interferenze di senso e di ruolo capaci di oltrepassare il particulare e approdare all’universale, non solo con temi e motivi, ma anche con l’invenzione di una gestualità rinnovata codificata in fieri dall’Eduardo che non riusciamo a distinguere se essere prima attore e poi autore o viceversa, ma è qui la sua forza dirompente in scena (da ricordare la riflessione metateatrale di L’arte della commedia del 1964). Nel bilancio del teatro novecentesco Eduardo, insieme a Brecht e Ionesco, così come a Sartre, Artaud e Grotowski, senza dimenticare Bene e Fo, affila la critica contro la nozione di marketing dello spettacolo cui si sarebbe irrimediabilmente ridotto il teatro, ponendo, come ricordano Alonge e Tessari, «[…] l’accento sulle contraddizioni tra un fare teatro che miri in esclusiva a produrre eventi e spettacoli formalmente pregevoli, e un uso del teatro che sia indirizzato a valersi di certe sue tecniche scelte per contribuire a una trasformazione positiva del singolo o di gruppi sociali» (R. Alonge-R. Tessari, Manuale di storia del teatro, Utet, Torino 2005, p. 211). Oggi a teatro ha vinto il mero “fare”, sulla scorta di sterili spettacoli con finalità rassicuranti e in linea col potere massmediale contemporaneo.

L’incomunicabilità a tutti i livelli, quella tra uomini, in senso sociale più ampio ma anche, con risvolti ecosofici di stretta ed urgente necessità, tra individuo e cosmo, è ascrivibile a tematica ricorrente, a categoria-perno nel teatro eduardiano; la “comunicazione difficile” (Cfr. A. Barsotti, Eduardo De Filippo o della comunicazione difficile, Cue Press, Imola 2018), quanto abbiamo definito in questo saggio come “complessità” e complicatio, è per Eduardo un metodo scenico oltre che una chiave ermeneutica per aprire il mondo. “Complicarsi la vita in scena”, elemento di immensa maestria e genialità sottolineato da Carmelo Bene. Su Eduardo, Bene afferma: «[…] lui si predispone la sua trappola […] Eduardo è un maestro nel prepararsi di continuo intralci e trabocchetti in scena» (C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Bompiani, Milano 2005, p. 101.); così si rende manifesta la volontà di costruire una postura teatrale e filosofico-letteraria di analitica del reale. De Filippo scompone per osservazione e complicazione il circostante. Il paesaggio drammaturgico eduardiano è sempre “in diretta”, sembra non avere lo stacco dal testo a monte alla scena in virtù dell’invenzione di limiti inattesi e, come detto, ostacoli in scena, realizzando quanto già Antonin Artaud anticipava: «Ci rifiuteremo sempre di considerare il teatro come un museo di capolavori, per quanto belli e umani possano essere. Non avrà mai nessun interesse per noi, né, riteniamo, per il teatro, un’opera che non obbedisca al principio di attualità. Attualità di sensazioni e di preoccupazioni, più che di fatti. La vita che si rinnova attraverso la sensibilità attuale» (A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, Einaudi, Torino 2000, p. 21).

L’“infinità degli esami”, parafrasando il dramma dell’ultima fase eduardiana contraddistinta da Gli esami non finiscono mai (1973), porta a presentificazione l’ostacolo come una tendenza interna al processo creativo di De Filippo, elemento imprescindibile nella costruzione dell’intreccio in quanto capace di inventare punti crisi in grado di smarginare il dramma, stravolgere il testo a monte. La stanchezza dell’attore è un’altra dimensionalità che intende sfruttare la maggior capacità di complicazione in scena dal momento che l’esaustività del macchinico teatrale eduardiano coincide con l’esaurirsi della fluidità energetica, una sorta di cinetica attoriale prospettica, dell’attore stesso capace di afferrare i brandelli del recitativo non più rappresentando un testo a monte, ma presentando criticamente se stesso. Nel sintomale del teatro di De Filippo vi è un corpo a corpo tra la sceneggiatura e il gesto che si condensa in una scrittura di scena, quasi immediata che, tuttavia, delinea il metodo della complessità; una costruzione di stringente temporalità creata entro un contrappunto musicale rigido ma, al contempo, aperto. Prova di ciò la centralità delle pause come ritmica che dà volume alla tonalità e al mondo vocale dei drammi. Eduardo si è posto sempre sul declivio dell’universale, cercando di afferrare da un fatto, anche di poco conto, un evento così da poter narrare la sua personale teoria umoristica:

[…] l’umorismo è una lama molto più affilata e tanto più puntuta che non la tragedia. L’umorismo picchia proprio e va assorbito dall’umanità. Si assorbe il paradosso perché tu copri la tragedia umana e forse arrivi a fare qualcosa… Per lo meno arrivi a far ridere. È la tragedia moderna (E. De Filippo, Lezioni di teatro, cit., p. 15).

Abbiamo qui parlato di teatrosofia poiché Eduardo ci offre un prospettivismo della complessità sondato dall’intreccio autoriale-attoriale-registico che manifesta un gradiente crescente di conoscenza costruito sulla fatica, sul lavoro quotidiano, sul lavorio che tutto considera come il Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini. La linea ampia e molteplice di De Filippo resta, quale classico, non solo nel cuore della contemporaneità con una forza di presentificazione dirompente, ma anche nella “stanchezza energica” (ossimoro d’obbligo) del suo volto, correlativo oggettivo di quella complessità che ha reso il teatro di Eduardo spazio di vita.

alberto86simonetti@libero.it

 

L'autore

Alberto Simonetti
Alberto Simonetti (PHD in Filosofia e Scienze Umane) ha studiato a Perugia, Firenze e Urbino. Tra le sue pubblicazioni: Follia e politica, deComporre, 2014; L'insavio, Morlacchi 2016; La filosofia di Proust, Mimesis 2018; Il penultimo del pensiero, Mimesis 2019, La talea della terra, Morlacchi 2022. È autore di numerosi articoli, nonché di contributi in volumi collettanei in merito a vari argomenti pubblicati in numerose riviste filosofiche e afferenti le scienze umane.
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