Poesia e fisica, cultura umanistica e scientifica. Chi ha detto che sono divise? Paolo Ottaviani è un poeta umbro nato nel 1948 a Norcia che abita a Perugia, e da sempre, in versi rigorosi, ha mostrato che tale scissura non esiste. Ora Manni, importante editore di Lecce, pubblica un suo nuovo volume di poesie intitolato La rosa segreta. Velate assenze d’armoniche rime che già nell’esergo sperimenta tale consilienza, unendo versi di Umberto Saba a considerazioni di Carlo Rovelli in un contatto necessario tra il poeta e lo scienziato, perché possiamo cercare di sopravanzare tali confini, andare oltre queste due culture, sperimentare un’avanzata interdisciplinarità. Ottaviani rievoca tale necessità in questo libro, anche semplicemente accostando, per esempio, un fisico e un poeta sia nell’esergo stesso sia nella dedica che appone al seguente sonetto (p. 33):
Gli Infiniti
“A che tante facelle?”
(Nel primo anniversario della morte di Stephen
Hawking e nel duecentesimo della nascita
de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi)
Sempre care mi furono le valli
Che scendono e risalgono ondulate
Le inquiete schiene dei monti, cristalli
Svettanti all’orizzonte tra velate,
Pulviscolari raggiere, coralli
Nei tramonti di fuoco, irradiate
Nuvole assorte nei vari intervalli
Del cielo dove sono appena nate
Remotissime stelle. Qui, tra case
E ulivi, quelle ignote eppur emerse
Lampe non brilleranno, persuase,
Come le ambigue valli ora immerse
In una nebbia di luci inevase,
D’andar per gli infiniti vaghe e terse.
Nell’omaggio ad Hawking e a Leopardi c’è tutto l’amore di Ottaviani per i paesaggi naturali dell’Umbria, la regione in cui egli si è nutrito di poesia per lunghi anni, non facendosi mai però sopraffare dalla dimensione locale che pure gli appartiene affettivamente. Amico del poeta anconetano Scataglini, morto nel 1994 (a lui e a Raboni dedica la sua poesia Nella terra, p. 18), Perugia gli sta stretta e allora vive passeggiando nel mondo, dove si rivela in grado di cogliere il senso di profondità universale che si avverte anche in eventi di cronaca locale. O si connette, attraverso l’esercizio poetico-critico, a spiriti liberi che hanno scelto di vivere in questa terra umbra, come l’eccellente filosofo esteta Flavio P. Cuniberto cui è dedicata la seguente poesia (p. 28):
Platonico crociato
(Leggendo Madonna povertà di Flavio Piero Cuniberto)
Platonico Crociato Cuniberto
s’è armato di Parola Rivelata
e dei gesuitici assiomi ha aperto
con grazia ardente il velo: denudata
così dal fine suo filosofare
Nuova e Antica Scrittura è venerata
– Nicea Efeso Trento e il secolare
lavorio petrino… un Cardinale
non fu prima un bambino da cullare? –
per l’atra Metafisica del Male.
Di sé Dio si spoglia
e pietoso s’incarna,
povertà teologica. La foglia
nei campi d’espulsione sulla marna
desolata volteggia
poi muore nella polvere, biancheggia
splendente di salsedine
che già si fa putredine.
Tutto è nei Libri. Nulla di più umano.
Pagano, Tridentino o Francescano.
D’altronde è nelle cose della natura – o con Lucrezio si potrebbe dire nella “natura delle cose” – che tale vicinanza si determina, profonda. A meno che non vogliamo rassegnarci al peggio, la via d’uscita, un esorcismo, non è la specializzazione, ma lo sono l’interdisciplinarità, l’alleanza, l’amicizia, la relazione, in definitiva l’amore.
Il filosofo italiano Giorgio Agamben, proprio riflettendo sul rapporto tra filosofia e antropologia ha affermato che «la poesia possiede il suo oggetto senza conoscerlo e la filosofia lo conosce senza possederlo». Vero è che la filosofia è una scienza umana, ma esiste anche la filosofia delle scienze e questa vicinanza ce la aveva indicata già Lucrezio.
Ottaviani in poesia ha pubblicato nel tempo già diversi libri che testimoniano il suo percorso poetico: Funambolo (1992), Geminario (2007), Il felice giogo delle trecce (2010), Trecce sparse (2012), Piccolo epistolario in versi (2013), Nel rispetto del cielo (2015).
In circa 80 pagine La rosa segreta raccoglie in quattro parti. La prima parte (Comete e comete) include 22 poesie principali; la seconda (20 sonetti) comprende 20 poesie in forma di sonetto, tra cui quella seguente, che dà il titolo alla raccolta:
Una rosa segreta
Nel buio della stanza, lungo strade
insidiose il ragazzo custodisce
una rosa segreta che in contrade
celesti si dischiude, poi fiorisce
di nuovo lungo le orme vaghe e rade
di petali caduti, ingentilisce
quell’angoscia ineffabile che cade
nell’anima ferita mentre intuisce
nel sogno il sogno di un sacro fluire.
È sbocciata stamane nel giardino
la rosa ma il giardino si dilegua
tra nugoli di stelle e in quell’affluire
di astri e visioni ecco far capolino
rapida una lucertola, mai in tregua.
La terza parte annovera 12 componimenti in versi scritti in una lingua individuale che si ispira al dialetto medievale di Norcia (Spigolature) e la quarta accoglie 9 poesie varie (Altre poesie).
È traducendo in italiano e in dialetto medievale il Canto notturno del viandante di Goethe che la raccolta si conclude.
Il libro non ha introduzione, anche se era prevista e ripercorreva quasi l’intera opera del poeta riflettendo sul connubio rima-poesia. Per decisione comune di Editore e Autore la nota introduttiva è stata cancellata. La pubblichiamo qui ora, grazie al consenso di Ottaviani, e vale la pena leggerla per intero, perché in essa non solo egli ripensa le diverse fasi della propria ricerca poetica, ma dà anche conto della sua idea di necessità della rima in poesia:
La rima, possibile ponte per l’Assoluto
«Nonostante tutte queste lamentose riflessioni noi non potremo mai scrollarci di dosso il giogo della rima, essa è infatti essenziale alla poesia francese. La nostra lingua prevede soltanto rari iperbati, i nostri versi non sopportano inarcature o almeno questa libertà è assai sporadica: la sola quantità, breve o lunga, delle nostre sillabe non riesce a produrre un’armonia percepibile; le cesure e un determinato numero di piedi non sarebbero sufficienti a far distinguere la prosa dalla verseggiatura. La rima è dunque necessaria ai versi francesi. Inoltre, molti grandi maestri, quali Corneille, Racine, Despréaux, hanno a tal punto abituato il nostro orecchio all’ascolto di questa armonia da renderci insofferenti nei confronti di qualsiasi altra. Lo ripeto ancora: chiunque volesse liberarsi del fardello di cui s’è fatto carico il grande Corneille sarebbe giudicato con ragione non come un coraggioso genio che ha aperto una nuova via ma piuttosto come il più debole degli uomini, incapace di camminare lungo l’antico tracciato».
Questo passo di Voltaire (François-Marie Arouet, 1694-1778), tratto dal suo Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke è risuonato con insistenza e a lungo nella mia mente. Mi colpiva innanzitutto la perizia tecnica nel qualificare l’essenza del poetare, riconoscibile essenzialmente da quell’inedita armonia sprigionata dall’insieme dei ritmi e dei suoni prodotti dall’identità fonetica nella terminazione di alcune parole. Qualche capoverso prima Voltaire aveva parlato dell’esclavage de la rime nella poesia francese rispetto all’heureuse liberté del verso inglese quasi rammaricandosi che un poeta d’oltremanica potesse dire tout ce qu’il veut mentre un francese ne dit que ce qu’il peut. Il conflitto tra libertà e norma si era già dolorosamente insediato dentro la parola poetica. E con tanta sofferenza che l’uso della rima poteva essere considerato una vera e propria schiavitù. Eppure, chi avesse voluto abbandonare la strada maestra dei versi rimati non sarebbe stato considerato come un audace genio precursore che apre inimmaginati orizzonti ma piuttosto, avec raison, come un pavido omuncolo talmente sciocco e debole che, dopo aver perso lungo il cammino il carico più prezioso della propria eredità, non sarebbe riuscito più nemmeno a camminare.
Le stesse limpidissime ragioni stilistiche e metriche che Voltaire adduce per la rima nella poesia francese credo che, perfino con qualche argomento in più, possano valere per la poesia italiana e, più in generale, per la poesia delle lingue romanze. Ma la mia mente rimaneva inchiodata su quel avec raison e qualcosa mi diceva che le radici più vere e profonde del connubio rima-poesia non erano state ancora né esplorate né esplicitate interamente. Doveva esserci un’ulteriore raison, più intima al discorso poetico, decisiva, essenziale e che tuttavia mi rimaneva ostinatamente nascosta.
Non potevo certo sospettare che l’aiuto più significativo a risolvere il mio problema giungesse da un genio famosissimo per ogni virtù poetica tranne forse che per la rima, pur avendo egli scritto delle divertenti, ariose sestine con schema ababcc – La guerra dei topi e delle rane – di cui i primi editori nella loro avvertenza del 1826 avevano detto trattarsi di una imitazione piuttosto “che una traduzione dal greco”, e I Paralipomeni della Batracomiomachia, delle tragicomiche, satiriche ottave costruite secondo il classico modello rimico abababcc. Sto parlando di Giacomo Leopardi.
Sfogliando lo Zibaldone infatti mi sono imbattuto in alcune illuminanti riflessioni che, quasi evocando e confermando quelle del pensatore francese, tuttavia le trascendono:
«Circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia delle parole – dice Leopardi – osserverò solo alcune cose relative all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia, né li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima». E più oltre: «Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto solo della rima. Ma ben pochi son quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa».
Ecco finalmente risolto in modo assai convincente, persino matematico, il mio ostinato quesito! La necessità della rima è una necessità della poesia molto più che del poeta. Incatenarsi a questa schiavitù non solo può produrre un sia pur «menomo diletto» a chi legge o ascolta, ma soprattutto offre la possibilità al verso di sprigionare insospettate energie, inimmaginati rimbalzi di significato, ignoti allo stesso poeta, talvolta totalmente, qualche altra per metà, talaltra per due terzi, più raramente per un terzo. Ma quasi mai il concetto – come dice Leopardi – appartiene totalmente al poeta. È una stima assai credibile perché costruita non su una congettura ma sull’«esperienza di chi compone». La rima può essere un ponte per sconosciuti altrove.
In quella raison di cui parlava Voltaire erano quindi racchiusi tesori forse neppure intuiti dal pensatore francese ma interamente disvelati da Leopardi con quel “talvolta tutto solo della rima”. Scrivere piegati sotto quel giogo da una parte obbliga il poeta a liberare il massimo della propria creatività, dall’altra lo rende impotente, in balia del verso, dei suoni e dei significati che la poesia esige e il verso stesso, più che il poeta, detta. Un’impotenza che però fa intuire l’esistenza di un altrove. Avere l’umiltà di abbandonarsi consapevolmente a questo potere permetterà poi di godere di frutti di cui si ignorava totalmente il fiore e il seme. È il verso cadenzato, regolamentato e rimato quindi il maggior responsabile della creazione poetica. Voltaire, paradossalmente e forse un po’ inconsapevolmente, aveva colto nel segno: il poeta dice soltanto quel poco che può. Il miracolo della poesia non gli appartiene. La strada verso l’assoluto sembra avere origine e poi nascondersi dentro la più meticolosa perizia tecnica. Se davvero le cose stanno così – e dopo aver ascoltato Voltaire e Leopardi diventa più difficile dubitarne -, allora non resta che scegliersi o, tutt’al più, inventarsi una regola nuova e poi, costruito il giogo, chinare il capo sotto il suo peso e camminare lungo i solchi che faticosamente ci si apriranno davanti.
Con questa consapevolezza mi ero apprestato ad allestire il doppio reticolato metrico e rimico del poemetto bilingue Geminario (Edizioni del Leone, 2007), composto da quartine di versi senari con andamento rimico costante abab per l’idioma medievale umbro-sabino e da terzine di endecasillabi per la loro conversione nell’italiano letterario, secondo lo schema aba. Ecco un breve esempio tratto dal Gemino Ottavo:
Può filosofenno
l’acqua verde smorta
areto rsalenno
fratti de vitorta
re matine azzure
sufflate a lesioni
quannu a battiture
vuô lente stagioni
ru volavolante
rusciu punticchiatu
furtuna bastante
a spirtu placatu…
Che l’auto-trasposizione poetica trasforma in:
Giovani liceali risaliamo
lungo il fiume che lento nella gora
verdastra cede all’ombroso richiamo
di vimini e vitalbe mormorando
insieme a noi d’azzurra, mattutina
filosofia quasi soffocando
nella sua quiete d’acqua e limo
ogni tracimazione del pensiero
mentre dal grano al sempreverde timo
ritorna il volo della coccinella,
rosso e nero nel palmo della mano
a raccontare stagione novella…
Assai più articolato e complesso il sistema metrico e rimico di quelle composizioni poetiche che ho chiamato «trecce» ognuna delle quali si snoda in sei strofe di cui quattro di versi martelliani (o doppi settenari) e due di versi senari. In sequenza si dispongono, ripetendo lo schema, due quartine di martelliani e una di senari. I versi vengono poi ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia. Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema abab, fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi nelle ampie quartine dei doppi settenari. In questa libera accezione entrambi gli emistichi dei versi martelliani possono essere piani, tronchi o sdruccioli. E le relative strofe presentano, secondo un disegno costante, rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1 rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta infine la “rimalmezzo”. Eccone un esempio:
Treccia dei paesaggi natalizi
(Per Andrea Zanzotto, in memoria)
Ti ricordi a Natale? Scendeva dalle stelle
un bimbo in una grotta, carbone, caramelle
tra il letto e il davanzale, dalla scaletta rotta
s’intuiva un candore lontano, oltre il grigiore
della piazza perduta nel buio delle stelle.
Luminarie, banconi di semi e lupinelle
e il presepio che aiuta santi e costellazioni
a indovinare un filo che guidi ad un asilo
oltre la radura
delle inesistenze.
È la fioritura
di fatue evidenze:
l’alcol per i geloni, le montagne fatate,
la legna casalinga, le vetrine incipriate,
la ruggine ai ramponi, gli effluvi dell’aringa
nel crollo indefinito di un tempo incustodito.
Troppo lenta la neve scende dai teleschermi:
scomparendo riappari per noi attoniti, inermi…
– non ti tradì la neve! – …Natale! Tra gli alari
le inobliate essenze tramano trascendenze
naturali, al fuoco
calmo di un camino…
forse…appena un poco…
ti vedo in cammino.
In tal modo le joug de la rime, rimodellato nelle innumerevoli forme ed architetture antiche e nuove che vorrà di volta in volta assumere, potrà continuare ad operare con tutto il peso della sua musicale potenza e il poeta, se davvero ci sarà un poeta, dovrà soltanto sostenerlo camminando chino lungo quell’antico sentiero evocato, quasi per una sorta di superna ironia, proprio da Voltaire. Ed è forse nell’εἰρωνεία che si nasconde la ragione per la quale, nonostante secoli di meravigliosi versi liberi, sbocciati dalla rottura simbolista di Gustave Khan e Stéphane Mallarmé, non ho avuto cuore di abbandonare del tutto quel più antico e lungo sentiero, fiducioso in ciò che potrà ancora emergere dalle velate assenze d’armoniche rime.
***
Anch’io mi unisco, infine, all’invito di Paolo Ottaviani a leggere il suo La rosa segreta. Velate assenze d’armoniche rime, perché, così come il fiore in questione è composto in primo luogo dai suoi petali sempre soffici, profumati e vellutati, anche questa raccolta è costituita da splendide poesie che, pur nella preferenza per le forme espressive classiche, si rivelano capaci di veicolare contenuti attuali.
Si tratta di autentiche narrazioni poetiche in cui si pronunciano gli elementi per un incessante dialogo tra il mondo circostante e la soggettività creativa.
Ottaviani sa osservare ciò che lo circonda e, da poeta e critico, sa discernere felicemente tra il bene della propria terra e il male sociale che stiamo attraversando.
L'autore
-
Giovanni Pizza è professore ordinario di Antropologia medica e culturale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione (FISSUF) nell’Università di Perugia e direttore della Rivista “AM” della Società italiana di antropologia medica (SIAM), ora pubblicata in open access. Tra i volumi monografici curati vi sono: Figure della corporeità in Europa (“Etnosistemi, Processi e dinamiche culturali”, A. V, N. 5, CISU, Roma 1998); con H. Johannessen, Embodiment and the State. Health, Biopolitics and the Intimate Life of State Powers (“AM. Rivista della SIAM”, N. 27-28, Argo, Perugia-Lecce 2009); con A. F. Ravenda, Presenze internazionali. Prospettive etnografiche sulla dimensione fisico-politica delle migrazioni in Italia (“AM. Rivista della SIAM” N. 33-34, Argo, Perugia-Lecce 2012) ed Esperienza dell’attesa e retoriche del tempo. L’impegno dell’antropologia nel campo sanitario (“Antropologia Pubblica”, V. 2, N. 1, Clueb, Bologna 2016). È Autore di numerose pubblicazioni, tra le quali i seguenti libri: L’antropologia di Gramsci. Corpo, natura, mutazione (Carocci, Roma 2020); Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura (Carocci, Roma 2015); La vergine e il ragno. Etnografia della possessione europea (Quaderni di Rivista Abruzzese, Lanciano 2012); Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo (Carocci, Roma 2005); Miti e leggende dei pellerossa (Newton Compton, Roma 1988).
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