Tutto salpava, tutto
metteva vela sotto lo sguardo vetrino
tutto diceva addio sull’onda del venti di agosto
Vittorio Sereni, Stella variabile
Le pagine di Equinozio hanno l’odore dei temporali estivi, della pioggia che batte dietro ai vetri e inzuppa i vasi dei gerani. Mi immagino che Stefano Carrai le abbia scritte così, guardando i suoi gerani inzuppati sul terrazzo, sul finire di agosto. Fuori tempo massimo: ora che ama quelle estati che scompaiono nelle gocce avvisaglia di settembre. Devono essergliene scorse molte nella memoria, fotogrammi a pezzi – where the sun beats –, nel suo peculiare album-schedario, che, in fondo, appartiene alla vita di tutti. Leggendo le prime poesie, la mia, di memoria, ha ricordato un bellissimo libro di Remo Rapino, L’ultima estate, forse per una debita distinzione: in Equinozio si ha la sensazione di essere, più semplicemente, lontani.
Equinozio esce nel 2021, per Industria & Letteratura, all’interno della collana «Poetica», curata da Niccolò Scaffai e Gabriele del Sarto. In occasione della presentazione bolognese, tenuta da Alberto Bertoni e me, il 29 marzo 2022, sono emerse una serie di riflessioni e domande, scaturite in prima istanza dal dialogo avviato con gli studenti del corso magistrale di Poesia italiana del Novecento. Bertoni e Carrai appartengono a una generazione per cui il libro di poesie necessita ancora di una struttura ben architettata e, difatti, Equinozio si costruisce su cinque sezioni chiaramente distinte: Dopo l’estate – protagoniste, appunto, le estati lontane richiamate dalla memoria del presente; La casa di Anna Frank – voce alle persecuzioni delle ebrei, mediate attraverso l’esperienza unica e personale dell’io; Emblemi – «mitologia personale» di Stefano Carrai; Stefanofora – dedicata alla madre anziana; e, infine, Carte d’imbarco – congedo dal libro e dal “viaggio”, come l’ha definito Clelia Martignoni nell’introduzione al volume.
Incuriosita proprio dalle possibilità di interpretazione del titolo, ho chiesto a Carrai se fosse lecito pensare anche all’equinozio di marzo, quello che nell’emisfero boreale segna la fine dell’inverno e l’inizio della primavera, portando con sé quel sentimento impaziente di imminente bellezza. La risposta è stata poco rassicurante, Carrai ha escluso in maniera piuttosto perentoria questa eventualità: la poesia è soprattutto la rappresentazione di un dolore – ha affermato – e in questo senso l’unico equinozio possibile è quello che apre le porte alla stagione dell’autunno. Influenzato probabilmente da un lascito esistenzialista, ancora presente durante i suoi anni di formazione, Carrai ha ammesso di percepire il susseguirsi delle stagioni come un sentimento di perdita continuo e costante, quando ci rendiamo conto che il tempo è passato inesorabilmente «rain and tears are the same» (p. 22). L’io lirico (rappresentante di un “noi” collettivo) non può che essere in balìa della linearità del tempo – implacabile distruzione fra attimi consecutivi impalpabili – e arrendersi all’Essere-per-la-morte di cui parlava Heidegger: «rimuginavo / sarebbe stato meglio / non vivere o è stato / qualcosa anche così?» (pp. 50-51). Una cronomachia – «la mia cronomachia» (p. 97) – che non risparmia nemmeno la giovinezza: Una ragazza di Milano bruna, una delle prime poesie presenti nella sezione iniziale – Dopo l’estate – e letta, quel giorno, nell’aula IV di via Zamboni 38, viene dedicata al ricordo di un possibile amore adolescenziale mancato. Eros e Thánatos, i due nuclei attorno ai quali le vite di tutti noi gravitano e con cui, prima o poi, bisogna fare i conti, sono racchiusi nella figura di Sara – la giovane sedicenne che perde la vita a causa della droga: «Due anni dopo era morta di overdose. / I suoi sedici anni / mi restano nella fotografia» (p. 26). Il ritrovamento dell’istantanea – espediente comune nelle poesie di Carrai – è la scintilla scatenante di questa epifania che genera il viaggio nel tempo frammentario e frammentato della memoria, un rapido ritorno nella realtà degli anni Settanta tra pantaloni a zampa di elefante e scarpette da ginnastica:
con in nero il viso di Che Guevara.
Sul retro c’è la dedica
con tanto amore
Sara.
A questo punto, proviamo a fare chiarezza sul ruolo svolto all’interno di Equinozio dal “contenuto fattuale” e dal “contenuto di verità”, la doppia prospettiva testuale individuata da Walter Benjamin. Lo stesso Carrai ha confessato di non lavorare di fantasia: sulla scia del Montale di Satura (1971) – e con ciò che ne implica –, serbatoio fertile di argomenti risulta essere proprio il quotidiano di tutti noi, quella serie di avvenimenti che si rivelano, poi, linfa vitale. Così, il terzo libro del poeta passa in rassegna tanto eventi della storia collettiva (la guerra, la Shoah, la migrazione, la Resistenza…) quanto flashes di vita privata (la passione per la musica, gli anni in Olanda, la malattia di un caro…) e la «memoria falò» (p. 30) colora le pagine di Equinozio come una tela di action painting, spinta dal bisogno, in maniera necessaria. Di conseguenza, le note esplicative finali sono utili, secondo Carrai, per comprendere l’occasione di scrittura, ma solo a seguito di una rilettura dell’opera in versi. Non tutto viene messo nero su bianco, alcuni elementi della realtà fattuale vengono omessi, democraticamente taciuti per permettere al lettore lo spazio intimo dell’immaginazione e di costruirsi, in fondo, il proprio contenuto di verità. Perché la poesia, secondo Carrai, è anche evocazione.
Questo scavo attraverso le gallerie del ricordo termina con note di malinconia e affetto nella poesia Professori di Trento (p. 104), scatto commemorativo (ancora una volta) che ritrae Carrai assieme a quattro colleghi, una sera come tante, prima di andare in trattoria:
Paradosso della fotografia
essere testimonianza di vita
e anche certificato
di morte
lo stesso della poesia.
Appurato quanto affermato fin qui, nell’idea di una poesia del ricordo, della parola poetica quale innesco evocativo di quel contenuto di verità di cui si è detto, entriamo ora nel dettaglio di una poesia – scelta in via esemplificativa per il suo carattere meta-poetico e intertestuale. Per Bertoni la buona o ottima poesia produce un effetto di potente riverbero e ridondanza; infatti, una simile eco ha colmato l’aula bolognese durante l’esecuzione di alcuni componimenti da parte di Carrai, fra questi A Patrizia Valduga (pag. 93).
La poesia – posta significativamente in posizione iniziale – apre l’ultima sezione della raccolta, Carte d’imbarco; definita dall’autore risposta galante e allo stesso tempo spiritosa in un dialogo realmente avvenuto con la poetessa in merito all’impiego del verso a scalino, come, del resto, viene esplicitato nella parentesi precedente i versi: «(la quale argutamente lamentava che a forza / di versi a gradino la poesia va a finire in cantina)».
Nel passaggio dal Museo alla Vita – come ancora una volta insegna Bertoni –, avvenuto inevitabilmente nel nostro Novecento, occorre considerare il fatto metrico quale elemento antropologico necessario a comprendere una tale «rivoluzione epistemologica». Carrai offre qui, con un tono sardonico e amichevole, una poesia-specchio, sineddoche dell’intera raccolta, portavoce di un discorso poetico che si impone naturalmente e inevitabilmente alla coscienza, a cui chi scrive tenta di dare una forma.
Due sestine formate da endecasillabi e settenari, distinti da una spiccata polifonia ritmica, incorniciano il componimento in un quadro la cui simmetria è spezzata unicamente dal gradino del penultimo verso. Il distico iniziale intesse magistralmente fili intertestuali, rimandi diretti all’opera della Valduga: nel tricolon sostantivo-attributo impiegato da Carrai riecheggiano i versi di In questa maledetta notte oscura – da La tentazione (1989), in particolare v. 4 «io così pudica, così computa» e v. 13 «“non vuoi? Piccola, piccola sirena…”» – nonché il titolo stesso della terza raccolta dell’autrice Donna di dolori (1991):
Sirena alletta-cuori
voce impudica e donna di dolori
E, a ben guardare, il richiamo non si ferma al piano dei significanti, ma si estende a quello metrico-rimico: non appare infatti casuale la scelta della rima baciata «cuori/dolori», in ossequio al convenzionale potere strutturante della rima – rispettata dalla Valduga, ma inevitabilmente disattesa dal poeta fiorentino. Inoltre, particolare menzione andrà al confronto fra l’endecasillabo del secondo verso («voce impudica e donna di dolori») con quello del verso seguente («ho provato a fare senza le virgole»): il primo un perfetto a maiore, con elegante ictus ribattuto in prima sede, mentre il secondo suona sghembo (ictus di 5a, 7a, 10a) sulla scorta di un’atonalità avanguardistica, ancora in un confronto fra rispetto ed evasione dalle forme chiuse.
I quattro versi che completano la prima strofa aprono un’ironica recusatio propter infermitatem dal tono affettuoso. Carrai offre alla sua interlocutrice e a noi – interlocutori di secondo grado – una vera e propria dichiarazione di poetica che si articola anteponendo una pars destruens, in cui il poeta dichiara ciò che non ha inteso fare con la propria poesia «senza virgole» (ho provato a fare senza le virgole / e non per eseguire / volteggi a corpo libero / né scendere di tono), a una pars costruens della seconda strofa il cui verso di apertura ci offre un perfetto esempio di quel potere evocativo proprio della parola poetica: l’effetto fonosonoro derivato dall’utilizzo delle affricate geminate, unito a un ictus di 8a sede, preceduto solamente da quello di 3a – e ritardante, di conseguenza, l’esecuzione ritmica – richiama uno scricchiolio di assi di legno che si fa metafora melodica di una struttura formale fatta di «spezzature e vuoti»:
col graticcio di spezzature e vuoti
ho cercato di rendere
sintassi e ritmo delle mie ossessioni
ti scriverei
lo giuro
in sonetti e canzoni.
Infine, gli ultimi tre versi, quasi descrizione acustico-visiva della parola poetica così come Carrai ce l’ha descritta, ossia quale un’energia incomprimibile e per questo restia, frenata e falsificata dall’eventuale uso di forme prestabilite. E allora l’impiego del gradino diviene scelta formale, necessaria a tradurre in poesia una vita vissuta che torna frantumata, a briciole, in cui il tempo lirico diviene aoristico dinanzi al procedere rettilineo dell’esistenza. Si chiude dunque la recusatio, con un picco di ironia dal tono colloquiale, seguita da un giuramento-gradino – Patrizia Valduga viene interpellata direttamente tramite l’apostrofe – di scriverle «sonetti e canzoni».
*Questo articolo è stato scritto a sei mani, insieme alle Dott.sse Alessia Vecchi e Maira Martini che ringrazio.
L'autore
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Elena Grazioli è dottoressa di ricerca presso l’Università di Pisa (XXXVI ciclo), in Letteratura italiana contemporanea, con un progetto sulla rivista «Nuovi Argomenti» e Cultrice della materia in Poesia italiana del Novecento presso l’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna, sede in cui ha svolto il suo percorso di studi, frequentando anche, come borsista, l’Université Paris-Sorbonne (Paris IV) e l'École Normale Supérieure di Lione.
Si è occupata, in questi anni, della figura di Giacomo Casanova (B. Capaci, E. Grazioli, Giacomo carissimo… Lettere delicate e deleterie a Giacomo Casanova, prefazione di Piermario Vescovo, Bologna, I Libri di Emil, 2019; E. Grazioli, Umori e lettere inglesi delle confidenti di Giacomo Casanova, in Il tappeto rovesciato. La presenza del corpo negli epistolari e nel teatro dal XV al XIX secolo, a cura di T. Korneeva, Venezia, Marsilio, 2019, pp. 137-150). Recentemente ha curato, insieme al Prof. Alberto Bertoni, Lavorare stanca di Cesare Pavese (Interno poesia, 2021). In uscita presso Marsilio la monografia Se non vado errato coi ricordi. Giacomo Casanova a Dux.
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