Nell’epoca pre-Covid, uno dei momenti topici di Perugia era la settimana di Umbria-Jazz, quando la moquette verde ricopriva per qualche giorno l’intera area a lecceto dei giardini Carducci, trasformando i giardini pensili della terrazza in una sala da ballo all’aperto. Si realizzava così, per un breve momento, quella fusione di interno ed esterno, dello spazio chiuso – la sala da ballo – e dello spazio aperto – il giardino affacciato sulla valle, che è una sorta di archetipo urbanistico ancestrale. Un archetipo che ritorna nelle riflessioni di Bernard Berenson sull’affresco peruginesco della Consegna delle Chiavi, nella Cappella Sistina: Berenson non si stanca di ammirarlo (molto al di là della sua ammirazione ordinaria e non eccessiva per il Perugino), proprio perché quella vasta spianata urbana, quella specie di «piazza» rinascimentale, gli appare pavimentata come un salone immenso, sintesi quasi escatologica di interno ed esterno.
L’archetipo in questione ha infatti una matrice sacrale, biblica addirittura: il convergere dell’interno e dell’esterno è il tratto saliente della Gerusalemme «mistica» descritta nell’Apocalisse di Giovanni. Ma c’è un’altra ragione per richiamare questo archetipo, ed è che la fusione dello spazio interno e dello spazio esterno, realizzata simbolicamente e temporaneamente dalla moquette dei Giardini, si ritrova in un altro aspetto, decisamente più strutturale, di Perugia. È quell’aspetto per cui il paesaggio agreste, la campagna, si insinua nella città fino a lambire il centro storico medievale: la Valle di Sant’Anna, la Valle di Santa Margherita, la rupe boscosa sotto Porta Sole, la Conca, e così via (secondo la famosa immagine delle dita – Perugia che si allunga in cinque direzioni come le dita di una mano -, queste zone verdi sono gli spazi fra le cinque dita). E naturalmente questo gioco di «incastri» è reso più movimentato, più teatrale, dai formidabili dislivelli che fanno di Perugia una città verticale. La compenetrazione dell’interno e dell’esterno non è dunque solo effimera e immaginaria, ma si realizza concretamente nella pianta della città, come connubio di natura e architettura, di natura e artificio.
La città tradizionale o pre-moderna – potremmo prendere a modello la celeberrima Siena di Ambrogio Lorenzetti nell’affresco del Buon Governo – è una città che ripartisce nettamente l’interno e l’esterno. Chi ha presente l’affresco senese sa che la cinta delle mura merlate corre esattamente lungo la metà della superficie dipinta, separando come due fasi ritmiche l’interno (gli affari urbani) e l’esterno (gli affari agresti, il contado). E questa ripartizione è essenziale nell’archetipo tradizionale della città («urbs ipsa moenia sunt»).
Perugia non sarebbe dunque una città tradizionale in questo senso? Lo è, proprio in questo senso: il sistema delle mura etrusche e medievali non fa che ribadire nei secoli la persistenza di questo schema con la raggiera delle porte che raccordano l’interno e l’esterno. È una delle meraviglie di Perugia. Ma si direbbe che su questo schema tradizionale si sovrappone (non è facile dire da quando) uno schema ulteriore che rimanda a un archetipo urbano ulteriore: l’archetipo della città «cosmica», della città che ha in sé il mondo esterno, nella forma di larghi spazi boscosi o addirittura coltivati. È la città-microcosmo, la città «cosmica».
Che questo archetipo operi potentemente nell’immaginazione anche artistica, pittorica, della città in generale, basterebbero alcuni esempi a dimostrarlo. Ne è un esempio magnifico lo splendido dipinto di Karl Friedrich Schinkel, Atene all’epoca della sua fioritura. In buona parte una fantasia romantica, dove però il carattere ideale di Atene sta proprio nella sua fisionomia «cosmica», nel fatto di abbracciare lo spazio architettonico e lo spazio naturale in un unico spazio urbano allargato.
Ma un esempio meno recente, e straordinario, tra le varianti pittoriche di questo archetipo, sono i paesaggi «urbani» di Nicolas Poussin: le virgolette sono obbligate perché non è facile dire se questi paesaggi siano vedute urbane infiltrate da larghi tratti di natura, o se siano paesaggi agresti costellati di strutture architettoniche. Sono entrambe le cose, perché Poussin ha in mente una città cosmica dove natura e artificio convergono in uno spazio unitario. È chiaro che Poussin, romano di adozione, pensa a Roma e la trasfigura pittoricamente, ma il risultato di questa riflessione è allora che Perugia, sotto questo aspetto, è una Roma minor, che riproduce alla sua maniera, con dislivelli molto più accentuati, l’alternanza di spazi edificati e di spazi naturali in un medesimo contesto urbano.
Si potrebbe obiettare che la città moderna incorpora la natura esterna nella forma del «parco» (prima il grande giardino nobiliare e poi il parco all’inglese). Ma il parco è natura addomesticata, è natura in funzione urbanistica, e a Perugia il parco è defilato, è il Percorso Verde di Pian di Massiano e non appartiene alla città storica. Qui si parla invece di qualcosa che precede il parco, perché è natura in senso stretto, che penetra nella città e contribuisce a formarne il tessuto. Di questo archetipo il parco è un riflesso, è la traduzione moderna e «borghese». Perugia come città cosmica sembra realizzare l’archetipo, distinguendosi dalle sue infinite – e anche nobilissime – traduzioni moderne e borghesi. Il succo di queste brevi riflessioni è che il dato architettonico-urbanistico più geniale di Perugia à la sua stessa struttura urbanistica, la «disposizione del luogo», come dicevano gli architetti inglesi del paesaggio nell’Età dei Lumi. E si parla di genialità non a caso, pensando a quello che i latini chiamavano genius loci, e che oggi è un’espressione quasi di moda.
Poi certo la città si evolve, si modernizza. Perugia è anzi una punta avanzata – almeno nell’Italia Centrale – di questa «propensione al moderno». La sua famosa «mobilità alternativa» – dai sistemi di scale mobili al Minimetrò – non ha confronti nelle altre regioni del Centro, la cura conservatrice delle memorie storiche è ammirevole, non mancano episodi di coraggiosa sperimentazione urbanistica come il quartiere di Fontivegge ridisegnato da Aldo Rossi. E ancora più interessante, sul piano estetico, è la fusione-contrasto tra il nuovo e l’antico che ha un esempio notevole nella Rocca Paolina: è innegabile che buona parte del suo fascino attuale derivi proprio dalla «meraviglia» delle scale mobili che emergono in una città-grotta, dall’antichità indefinita. Il problema non è infatti l’inserto moderno in una struttura antica: è che l’estetica dell’inserto richiede una sensibilità specifica, capace di valutare caso per caso la concordia discors tra i due elementi (la grande architettura contemporanea – la Germania è ricca di esempi – vive spesso di questi inserti, di questi connubi tra l’antico e il moderno, dalla meravigliosa Biblioteca di Stoccarda al nuovo Humboldt-Centrum di Berlino, o alla famosa cupola di cristallo del Nuovo Reichstag, progettata da Norman Foster). Ed è in rapporto a questa sensibilità specifica che risulta poco soddisfacente il progetto perugino degli Arconi, dove le «scatole» di vetro sporgenti dai grandi archi medievali sembrano ignorare l’esigenza-base di raccordare armonicamente il nuovo e l’antico, per esempio riprendendo la forma arcuata della vecchia struttura senza spezzare il ritmo appunto curvilineo dei vecchi arconi.
Sono questioni di dettaglio. C’è piuttosto un altro aspetto della fisionomia urbana di Perugia a cui vale la pena di accennare: è il carattere inconfondibile del materiale da costruzione che caratterizza soprattutto il centro medievale, la pietra bianco-rosata, con sfumature grigio-chiare, che è poi il granito del Subasio. Come insegna, in un libro straordinario, Francesco Rodolico (Le pietre delle città d’Italia, Firenze, Le Monnier, 1953), ogni centro storico porta l’impronta del suo materiale di base: l’arenaria tenera e scura dell’Aretino, il rosso fiammante del cotto bolognese, il mattone chiaro dei borghi marchigiani, il tufo scuro di Viterbo e del viterbese e così via. Ogni città di antica tradizione porta, in questo senso, un’impronta cosmica, l’impronta del terreno, degli strati geologici, che la circondano. A Perugia, le sfumature bianco-rosate o grigio-rosate che caratterizzano gli edifici storici diventano un sontuoso tappeto architettonico sul fianco sinistro della Cattedrale. E qui siamo in prossimità del centro «assoluto», dell’«umbilicus urbis»: in quella zona dal solenne significato sacrale in cui gli agrimensori etruschi e romani collocavano il «mundus». Con ogni probabilità, il «mundus» di Perugia si aggira, virtuale, sulla Piazza (oggi IV Novembre), ed è la Fontana Maggiore, punto di equilibrio e raccordo tra il sacro e il profano, tra il potere religioso della cattedrale e del vescovado e il potere civile del comune, del Palazzo.
Enrico Guidoni, il grande storico della città antica e medievale, professore per molti anni a Valle Giulia di Storia dell’Urbanistica, era anche un eccentrico e un visionario. Una delle sue teorie più audaci riguarda l’ubicazione del centro assoluto dello spazio urbano medievale: di quello che fu appunto il mundus nella città etrusco-romana. Con riferimento alla città cristiano-medievale, dominata, a partire dal secolo XIII, dalle grandi fabbriche degli ordini mendicanti, Guidoni lo individuava con un metodo cartografico suggestivo: i tre insediamenti, – francescano, domenicano, agostiniano – debitamente lontani l’uno dall’altro (a Perugia i Francescani sono a S. Francesco al Prato, i Domenicani in corso Cavour e S. Agostino è in corso Garibaldi) formano quasi sempre uno schema triangolare il cui baricentro (il punto d’incontro delle mediane) individuerebbe il centro «mistico» o assoluto della città. In quel borgo straordinario che è Lucignano in Val di Chiana il baricentro risulta essere, ad esempio, la «campana civica», conservata nel Palazzo del Comune (quella che chiamava a raccolta la comunità cittadina nei momenti gravi). Verificando la teoria di Guidoni sulla pianta di Perugia sarà facile constatare che il punto d’intersezione delle tre «mediane» sembra essere proprio la Fontana, di cui è nota la straordinaria pregnanza simbolica, affidata alle tre vasche concentriche e ai cicli figurali di Nicola e Giovanni Pisano. La Fontana Maggiore è dunque il centro assoluto della Città? Enrico Guidoni non avrebbe dubbi, e piace pensare che sia così.
L'autore
- Flavio Piero Cuniberto insegna Estetica all’Università di Perugia. Ha studiato a Torino, a Monaco di Baviera e a Berlino. Il filo rosso della sua ricerca, dalle molte facce (la cultura tedesca tra l’età barocca e il ‘900, il platonismo classico e post-classico, la storia dell’arte occidentale come repertorio di stili e di temi simbolici, le ideologie politiche) è lo studio della modernità come civiltà «anomala», definita da un programmatico allontanamento dal mondo tradizionale. E quindi, rovesciando la prospettiva, lo studio delle «tracce», delle persistenze di un orizzonte tradizionale - dove non c’è esperienza profana che non rimandi a un archetipo sacro, metastorico – nella stessa modernità. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La foresta incantata. Patologia della Germania moderna (Quodlibet 2010); Il Vortice Estetico. Elementi per un’estetica generale (Morlacchi 2015), I paesaggi del Regno (Neri Pozza 2017), Strategie imperiali. America, Germania, Europa (Quodlibet 2019), Viaggio in Italia (Neri Pozza 2020), L’onda anomala. Cronaca filosofica della pandemia (Medusa 2021).
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