È una richiesta dolente, piena di discrezione e tenerezza quella che Giovanni Bogani rivolge a un ipotetico ‘tu’ ora identificabile con il lettore, ora con la madre che non c’è più – ed è il fulcro di questa storia – ora con il tempo che sembra correre inesorabile, grande tiranno divoratore, incapace di tutelare, di conservare le assenze. Ancora un attimo, per favore (ilmiolibro.it, 2022) è un grande cassetto dei ricordi. Una stanza da cui fuoriescono ombre, finalmente libere e pacificate. Quelle dell’autore, anzitutto, giornalista e già critico cinematografico de “La Nazione”, che scava e disseziona immagini, rielabora flash memoriali al fine di costruire un discorso amoroso, che intreccia alla propria esistenza motivi legati all’umanità in generale, come la guerra, la storia, l’incontro-scontro tra genitori e figli. E quelle di un’Italia diversa, più umile e meno nevrotica, fatta di gente semplice, impegnata nel corpo a corpo con la vita.
Non è un caso che la pratica della rimemorazione si articoli, nell’opera di Bogani, per mezzo di frazioni di un tempo smembrato, acciuffato in un lungo percorso à rebours che ricorre a strumenti padroneggiati, come l’intervista o il ricordo-omaggio, la descrizione di alcune sequenze e i fermo immagine che raccontano volti, istanti, oggetti di un’epoca che appare perduta. Queste frazioni temporali, catalogate per numeri progressivi, riportano spesso la scrittura a episodi narrati da un ‘io’ autobiografico e partecipe, che senza retorica tesse i fili di «una straordinaria vita qualunque», quella della mamma di Giovanni morta alle «idi di marzo» 2015, una donna dolce e protettiva, con il timore della perdita e un amore straripante, oltre-misura come tutte le cose profonde, che squassano le viscere.
C’è da commuoversi a leggere i passi in cui Bogani ricorda i viaggi taciuti, le preoccupazioni edulcorate per non nuocere a quella signora stretta tra il quartiere Rifredi e una casa cristallizzata, con il televisore sempre acceso e la cucina odorosa, attenta a non disturbare, a non esternare il proprio dolore.
«L’ultima volta che ho fatto qualche giorno di vacanza non te l’ho detto. Sono andato a Lanzarote, ho preso un aereo, ho volato sopra il Mediterraneo e sopra il Marocco, sono atterrato nelle isole Canarie, nell’isola nata dalle ceneri di un vulcano. Ti chiamavo con l’oceano davanti, e una montagna nera dietro. Ma per farti stare tranquilla, fingevo di essere a casa: perché farti soffrire, perché dirti che ero in un luogo che non sapevi neppure dove fosse, e forse non lo sapevo bene neppure io? Sei stata tranquilla. Per sette giorni mi hai chiesto se volevo venire a cena da te, “fra un’oretta”, e per sette giorni ti ho detto “vediamo domani, magari”. E così è arrivato il giorno del ritorno, e sono venuto davvero a cena. Ed è stato bellissimo, i tuoi ravioli, Quattro salti in padella messi nel microonde, sembravano un piatto da chef».
Un racconto di silenzi, quello di Giovanni Bogani, la memoria di parole taciute per l’incapacità di afferrarne il valore, di farle coincidere con l’immensità dei sentimenti, con la loro intrinseca fuggevolezza. Torna spesso un senso di perdita, di autoinganno, la convinzione di non essere mai pronto né alla morte né alla vita, laddove ogni relazione appare retrospettivamente un fallimento, un traguardo mancato, e lo stesso amore filiale è un misto di fughe e ritorni, un coacervo di inadeguatezze, di domande senza risposta: «Potevo fare di più, mammina? Che cosa potevo fare?»; «Ti chiamavo, ed ero sempre di corsa»; «E ora, che cosa devo fare? Che cosa devo fare di te, del tuo ricordo, della tua casa? Non lo so. Non sono pronto. Siamo ancora bambini, anche a cinquant’anni».
Il filo sottile che salda i riemersi dati esistenziali in una sorta di (auto)biografia per immagini, fatta di frammenti che occupano lo spazio di una pagina, è il tentativo di comprendere la realtà dell’oggi e i mutamenti di una voce narrante che si colloca nello spazio dell’infanzia segnato da giochi innocenti, da un odore materno di «latte e sapone», colto a distanza di anni, con gli occhi chiusi e il cuore ferito.
Ricorda Bogani, e nel farlo parla di sé, delle donne che non ha saputo amare («Chissà se ti sarebbero piaciute, le ragazze che non hai fatto in tempo a conoscere. E forse non ho fatto in tempo neppure io»), del padre che si erge come anima pura e fragile, salvifico nel suo destino di ‘seconda scelta’ («Chi lo sa come sarebbe stata la tua vita, con il fidanzato siciliano»), pietra angolare di una famiglia felice, nonostante il dolore.
È sincero il racconto di Bogani, questo flusso di parole che sa di confessione e rimpianto, quasi un atto di contrizione per gli abbracci non dati, per il tempo degli affetti divorato dal lavoro, per gli articoli che occupavano i «pomeriggi a cercare di guadagnare due soldi», per gli amori perduti e dimenticati, confusi come gocce in mezzo al mare:
«E tu, alla finestra, a guardarmi sbagliare la vita, a sospettare la mia infelicità senza riuscire mai a dirmelo. […] Scusami, cambio sempre discorso. E non parlo mai di te. Ti dispiacerebbe, credo, vedere come sono ridotto. Un pensionato che non spera. E che è sempre il tuo bambino, ma con le rughe e senza capelli»
Ci vuole coraggio a guardarsi indietro, a fissare con occhio fotografico un rapporto denso di irrisolti e disillusioni, in cui ogni cosa è avvolta dal senso della fine, da una morte viva, cui occorre poggiarsi per rintracciare la strada. È un equilibrio fragile quello di Giovanni Bogani: cadere o restare in piedi, lasciarsi andare o ricominciare. E occuparsi di sé, al di là degli sbagli. Non è forse questo ciò che chiediamo alla letteratura?
L'autore
- Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Sue recensioni sono apparse in O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca. Collabora stabilmente con Treccani.it, con il blog del Premio Letterario Giovanni Comisso e con le riviste Frammenti, Npc Magazine, Sapereambiente, Cronache Letterarie. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.
Ultimi articoli
- avvenimenti21 Aprile 2023A che punto è la notte. Dialogo con Roberto Gramiccia
- avvenimenti18 Gennaio 2023Note di biblioterapia. Intervista a Dario Amadei ed Elena Sbaraglia
- avvenimenti27 Luglio 2022Lessico memoriale
- avvenimenti23 Luglio 2022Sapore e memoria