La foto di copertina è di Dino Ignani
Quando Alberto Toni, uno dei poeti più attivi e significativi della generazione dei nati negli anni cinquanta, è venuto a mancare il 6 aprile di tre anni fa aveva appena licenziato la sua tredicesima raccolta di versi, Non c’è corpo perfetto, inaugurata da un esergo di Wallace Stevens che, letto in quei giorni, raggelava: “Il corpo muore, la bellezza dura”. Nel congedarsi Alberto aveva tuttavia già pronto un libro nuovo che fece in tempo ad affidare alle cure dell’amico poeta Roberto Deidier. Nel computer dell’autore, Deidier ebbe così modo di leggere un file contenente un corpus compatto di poesie a cui certamente Alberto avrebbe continuato a lavorare con lo scrupolo che gli era consueto e che forse, come in diverse altre occasioni, avrebbe suddiviso in sezioni. La scelta di edizione, di cui il curatore dà conto in una nota in explicit, è stata di limitarsi alle pochissime correzioni di refusi e di non intervenire con suddivisioni inevitabilmente arbitrarie, sebbene una prima sezione si potesse ipotizzare fin dal sottotitolo – omesso poi nella pubblicazione – Tempo I: il titolo, dall’autore stesso indicato e con cui ora il libro vede la luce, era infatti Tempo d’opera (Il ramo e la foglia, Roma 2022, 108 pp.). Titolo che ha qualcosa di riassuntivo dell’intera operosità di questo poeta singolarmente presente sulla scena della poesia e insieme appartato nell’originalità dalla sua ricerca; un’operosità, come è stato detto in più sedi, strettamente connessa ai temi e ai nodi della vita: l’una non si teneva senza quelli. C’è in ogni libro di Alberto Toni, fin dalla pubblicazione di esordio del 1987, il tema dell’inizio quale reagente che dirada le ombre e le fuliggini e squaderna una promessa, una speranza, una “chiara immagine” che le riassume insieme nitida ed elusiva: ad essa egli era solito affidare il suo viaggio. Vive nelle pagine di Alberto, e queste ultime non fanno eccezione, una “spaesata sorpresa del mondo” come scrive assai bene Roberto Deidier nella bella introduzione al libro che è al tempo stesso un affettuoso ricordo dell’amico scomparso. Ed è una sorpresa mai venuta meno, come le tredici, ora quattordici raccolte di poesia sono a testimoniare. In quest’ultima, in particolare, il poeta è come se ripercorresse la sua educazione sentimentale: la Roma tra gli anni settanta e ottanta che schiude i colori delle sue gallerie d’arte al giovane innamorato che lavora alla tesi su Sandro Penna, che conosce i poeti, partecipa alle prime letture in pubblico, presenta i primi testi sulle vivaci riviste di allora e per il quale l’univers est égal à son vaste appétit. Colpisce, tra i versi di questo Tempo d’opera, la frequenza con cui compaiono gli artisti, quasi un museo interiore verrebbe da dire se la parola museo non rinviasse, magari impropriamente, alla chiusura e al silenzio di un luogo; viceversa, i colori sono tutti e tuttora vibranti, ariosi, come “il taglio netto di Fontana, il rosso vivo / di un Festa vivo nei miei pensieri al tempo / di Navona o Rosati quando una fine oscura / tramava”. Perché alla felicità di quelle scoperte – e possiamo aggiungere i nomi di Afro, di Bonalumi, di Schifano, di Licini, ma anche la grande Crocifissione di Renato Guttuso, l’homme en marche di Giacometti, visto come un sorprendente autoritratto, o i voli fantastici di Chagall – alla felicità dicevo di quelle scoperte si annuncia improvvisa la presenza della malattia, con le dolorose insorgenze e le latenze lunghe, talora lunghissime quasi in forma di guarigione, e tra questi due poli l’intera vicenda umana e letteraria del poeta nella infinita discrezione si gioca, o detta altrimenti, con parola da maneggiare con cura, il suo destino. Così, in questi versi scritti come su un istmo, possiamo ancora leggere: “Scendi, fai, che la forza mai non manchi, / fai, poi rispondi al tuo calo di forze. / Mai noi potremo dire abbiamo solo / per poco, solo per poco rinunciato / a vivere. Mai che la vita non sia // o ci abbandoni.” O ancora – e sono versi da ricordare – “Niente è più come prima: lieta e terribile la paura, / la ricerca di una perfezione impossibile. La chiamo / misura, gli oggetti in bella fila, le cose in ordine. / Ma va da sé che cretto e misura non vanno d’accordo. / L’ultima linea di fuga è per me di domani, / al sole del primo mattino / al tempo mio d’amore. Pena e felicità: / la bella vista è l’improvvisa e imprevista prova di gratuità”. E viene da chiedersi cos’altro mai sia questa “improvvisa e imprevista prova di gratuità” se non “la chiara immagine di tutte le speranze” cui poco prima si faceva cenno, limpida nel cartonato artigianale di quella prima raccolta e custodita da Alberto fino alla fine.
L'autore
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Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.
È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.
(foto di Dino Ignani)
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