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“Una donna, che parla di calcio, smette di esistere l’attimo stesso in cui lo fa”. Riflessioni eretiche sul calcio femminile

Chissà se quando avrò finito di scrivere queste brevi righe, di me resterà solo un mucchio di vestiti e una sedia vuota. Se invece scomparirò, come se non fossi mai esistita. O tornerò a uno stadio meno evoluto dell’homo sapiens. Vi starete chiedendo come mai questi dubbi. Rileggete la citazione presente nel titolo di questo testo, tratta dall’articolo di Giancarlo Dotto (“Corriere dello Sport”, 19 febbraio 2019), e capirete. Ebbene sì, sono una donna e sto per parlare di calcio. Potrei commentare queste frasi e l’idea attraverso la quale si sono originate, ma io voglio sfidare la sorte e piuttosto che raccontare la misera ferocia di certo pubblico calcistico, preferisco spostare l’attenzione sulla poetica del calcio femminile.

Non è così semplice descrivere cosa sia questo sport in Italia. Il calcio, italiano e non solo, quando è declinato al maschile, è popolarità, passione, emozioni collettive indelebili. La sua storia si confonde con quella dei club che lo costituiscono e con quella degli uomini che lo hanno reso immortale con le loro gesta sportive. Per il calcio italiano giocato dalle donne non vale la stessa modalità di racconto; per descriverlo occorre partire dalla base. Da quelle partite infinite che si giocano nei cortili, nei campi improvvisati, nei palazzetti vuoti. È vero, ci sono squadre femminili importanti e la stessa nazionale italiana, già dai primi anni ‘80 ha sempre lottato a testa alta nei maggiori tornei: Carolina Morace, Patrizia Panico, Rita Guarino, Katia Serra sono le storiche protagoniste dell’italico calcio in rosa. Ma questo sport, quasi fosse un’entità a parte nell’immaginario di un Paese, si racconta dal suo primo atto rivoluzionario: una ragazza che si allaccia gli scarpini dopo una giornata di lavoro, dopo essersi occupata della famiglia, della casa. Una bambina che stringe i nodi delle scarpe e si getta nella mischia maschile fatta di polvere e passione. Non c’è niente di più scandaloso e reale di quanto vi ho appena raccontato. Il calcio femminile italiano è questa istantanea, un gesto banale che diventa liberatorio. Nonostante sin dalla fine degli anni 60 esistesse un campionato femminile (ma se guardiamo i tentativi passati di costituire squadre risaliamo, addirittura, all’inizio degli anni 30), bisognerà attendere il 1986 perché il torneo venga istituito ufficialmente dalla FIGC, e fino all’1 luglio 2022 verrà definito dilettantistico, passando al professionismo solo a partire da questa data. Questo breve excursus storico racconta di un mondo esistente e sommerso, nascosto tra le pieghe di una società, che finora non ha ammesso alcuna dignità sportiva per le calciatrici. Perché tanto accanimento? Si potrebbero scomodare molti argomenti e risposte. A partire da quella data, il 5 maggio 2014, in cui l’ex presidente della FIGC Carlo Tavecchio così si espresse: “Siamo da sempre protesi a voler dare una dignità estetica alla donna del calcio. Prima si pensava che fosse handicappata rispetto al maschio per resistenza ed altri fattori, adesso invece abbiamo riscontrato che sono molto simili” (Report, 5 maggio 2014).  Oppure perché non affidarsi all’autorevole parere di un campione del mondo come Fulvio Collovati, che ha condiviso in diretta il suo pensiero (e quello, purtroppo, di molti): “Quando sento le donne parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, perché una donna non capisce come un uomo” (Quelli che il calcio, 17 febbraio 2019). A me piace pensare che tanto accanimento sia dovuto alla tenace incapacità, più o meno maschilista, di guardare alle donne come soggetti deboli, non in grado di lottare, né di vincere, né di avere particolari ambizioni sociali. Chiunque abbia mai giocato, anche solo una volta, una partita di pallone, qualsiasi sia il suo livello, avrà provato quella sensazione così trascinante, per cui quei 90 minuti assumono l’aspetto di una grande metafora della vita e di una battaglia con se stessi. Nell’arco di un’ora e mezza si passa dal dominare gli eventi, gli avversari, dalla padronanza assoluta, al dover rincorrere con fatica un destino che ha la forma di pallone, che in un attimo ti fa soccombere o rinascere. Condividere quest’avventura con altre persone, ci lega ad esse e noi a loro, in un modo così forte e travolgente da rendere tangibile la parola amicizia. Vi immaginate quanto sia sconvolgente, per alcuni, pensare tutto ciò declinato al femminile? Vedere le ragazze correre, cadere e rialzarsi. Subire duri colpi, e rialzarsi. Cercare la pennellata perfetta per rendere un gesto banale, come un calcio a una palla, un’opera d’arte. Essere concentrate sull’unico obiettivo di fare goal, mentre tutti intorno ti guardano come un’attrazione circense, con derisione, a tratti disprezzo, e una latente forma di invidia e tuttavia restare professioniste, ovvero innamorate della propria passione. Il calcio femminile in Italia è questo. Un fiore in un arido deserto sportivo e culturale, che ha saputo crescere con l’aiuto di tutte quelle bambine e donne che, nelle generazioni passate, erano l’eccezione, in casa o a scuola, perché la loro passione era “diversa”, sfidava un territorio prettamente maschile. Le grandi calciatrici italiane che prima ho citato, hanno lottato come leonesse per avere riconosciuto anche solo il diritto di parlare di calcio in ambiti sportivamente professionali. Da questo luglio, con il calcio femminile divenuto finalmente sport professionistico, mi auguro che nasca anche una nuova epoca di giornalismo sportivo.
Nel suo bellissimo libro (Letteratura e Sport. Da Dante a Pasolini, 2021, Cacucci Editore, Bari), Trifone Gargano descrive un bisogno sacrosanto, ovvero quello di raccontare lo sport con piena dignità letteraria con competenza e passione. Ci racconta, in punta di piedi, la storia di Anna Maria Ortese (1914-1998), scrittrice, poetessa e vincitrice del premio Viareggio per la narrativa, che nel 1955 ha seguito e raccontato il Giro d’Italia. Un’altra rivoluzione dei costumi, un’altra eccezione, perché donna e cronista.

Voglio chiudere con la speranza che le donne croniste del calcio, femminile e non solo, dilaghino nelle trasmissioni sportive, sui giornali, sui social, che possano aprire un fronte nuovo del racconto, seguite come un esempio dai colleghi uomini delle nuove generazioni. Per fortuna il giornalismo alla Vessicchio di un “calcio femminile come covo di lesbiche” si sta estinguendo. All’opposto “il calcio femminile si merita gente intelligente, colta, preparata. Non gli scarti di un mondo, quello maschile, che non li vuole. Mio padre? Se lui avesse pensato — come molti facevano allora e fanno oggi — che il calcio femminile è uno sport per uomini mancati e non ci avesse visto una prospettiva, io non avrei il trofeo della Hall of fame del calcio italiano. Non ho mai detto “Da grande voglio giocare a pallone”, ho giocato e basta. E dico: non chiedete il permesso di fare una cosa che vi fa stare bene. Fatela. Assecondate il vostro talento. Sarà dura, ma vi sentirete vivi, veri e speciali” (Carolina Morace intervistata da Roberta Scorranese, “Il Corriere della Sera”, 11 ottobre 2020).

L'autore

Samantha Passeri

Laureata in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Perugia, con una tesi in Storia e Critica del Cinema sul rapporto tra P.P.Pasolini e il sottoproletariato, è attualmente iscritta, presso lo stesso ateneo, al corso di laurea magistrale in Italianistica e Storia Europea, curriculum Filologia Moderna. Nel 2014 ha partecipato al primo corso di Street Cinema organizzato e diretto dalla regista Tekla Taidelli a Milano.