Parole, parole, parole.
Son parole scavate a fatica negli anni,
di cui ho estremo pudore,
ché è come se per esse fossi nudo nell’anima.
Molte volte mi son nascosto nei libri
occultando così che trovare parole
era un modo per proiettarmi nel tempo
e oltrepassare la morte.
Anche l’amore, le tante forme di amore
sono state per me tentativo di oltrepassare la morte.
…
È certo illusorio,
ché la fine comunque sarà e via via il tempo dinanzi
si restringe sempre più, con oggettiva ferocia.
Eppure continuo a cercare parole
Parole, parole
Fino a che il buio verrà
E sarà davvero tutto finito.
(Congedo, in L’evasione dai giorni, p. 97)
La biografia pubblica e in parte anche quella privata, familiare, di Luigi Maria Lombardi Satriani di Portosalvo (Briatico, 10 dicembre 1936 – Roma, 30 maggio 2022) è nota: influente accademico, antropologo da annoverare tra i Padri della disciplina, Senatore della Repubblica, Maestro, intellettuale che mai si è sottratto ai perigli del potere.
Meno nota la sua scrittura autobiografica e poetica degli ultimi anni. Dismessi i panni del docente e ricercatore antropologo, del politico, dell’aristocratico ed intellettuale engagé che ha saputo essere lettore e cantore del mondo contadino come a pochi è concesso, Luigi Maria Lombardi Satriani ha dedicato i suoi ultimi anni ad una dimensione più intimistica e lirica, sia sotto forma di autobiografia intellettuale, attraverso le pagine di un’autobiografia – Vaghe stelle dell’Orsa. Il passato è il futuro (2019, Luoghi Interiori editore) – che in versi, L’evasione dai giorni (2015, La vita felice) e poi Omnia vincit amor. Poetica dell’amore (2017, Ferrari editore).
Eppure, malgrado l’apparente ripiegamento interiore, sembra quasi che il massimo dell’intimità coincida con il massimo di universalità, come se in quella nudità che si concede solo a se stessi fosse possibile incontrare davvero la nuda verità dell’essere umano ed universale. Ed è proprio questa dimensione più intima, lirica, che si fa ponte per l’Altro e per l’universalità dello stare al mondo umano ed esistenziale. Un’antropologia dopo l’antropologia. “Venne detto in altra epoca che “l’uomo è ciò che mangia”; in questo mio discorso l’uomo è chi ha incontrato / incontra”. È per questo, “che noi siamo l’altro, e che l’altro è noi”. (Vaghe stelle dell’Orsa, p. 16)
***
“Siamo solo il nostro essere stati,
siamo stati quello che potevamo essere,
che credevamo di essere.”
(Esistenza che scorre, in L’evasione dei giorni, p. 84).
Ad aprire e chiudere il volume autobiografico, Vaghe stelle dell’Orsa, sono riflessioni sulla memoria, tema che già a molte riprese era presente nella produzione saggistica, ed è tema che torna anche nella produzione poetica.
Eppure, Professore, oltre l’analisi teorica, in alcuni passaggi la memoria assume i toni di una struggente malinconia, di un’inappagata tensione. Sembrerebbe che siamo quel che abbiamo perso e chi abbiamo perso. Non è forse questa l’idea che ha affidato ad alcuni dei Suoi versi?
Ogni volta che ho parlato della memoria ne ho sottolineato la funzione fondante la stessa esistenza. Potrei aggiungere che l’uomo è ciò che ricorda, quanto della sua vita trascorsa è riuscito a trattenere, vivificandola via via, dando rilievo e forza alle figure da lui amate e purtroppo scomparse dal suo orizzonte esistenziale. Sono nato e ho vissuto buona parte della mia vita a San Costantino di Briatico, in provincia di Vibo Valentia (l’antica Hypponion) dove è stata ritrovata una preziosa Laminetta aurea che è la più antica testimonianza dell’orfismo in area meridionale. In tale laminetta viene invitata l’anima nel suo viaggio nell’Ade a non bere al Lete, fiume della dimenticanza ma ad abbeverarsi alla fontana di Mnemosúne (nella sua declinazione greca) o di Mnemosine (nella sua declinazione latina).
***
Il tema della memoria, della parola scritta che “salva”, che rievoca fantasmi del passato, chiude e sana i conti con loro e al tempo stesso consegna al futuro cose e persone per prolungarne la vita: tutte queste le ragioni che intessono la trama dell’autobiografia insieme intellettuale e degli affetti scandita attraverso incontri a vario titolo significativi. Senza sottrarsi a quel doloroso, nudo, vagheggiamento della perdita dell’infanzia che accompagna vieppiù i ricordi di una vita lunga e attiva in molti campi: da qui il suggestivo leopardiano titolo, nella consapevolezza che la storia di uno studioso non possa essere limitata alle sue ricerche ma che ne siano parte in maniera integrante le relazioni interpersonali, gli incontri che arricchiscono affetti e riflessioni intellettuali.
“Così, forse, chi ha avuto la fortuna di raggiungere la fase senile avverte l’esigenza di ripercorrere i tratti salienti del suo itinerario e di fissarli per sé e per gli altri” (p. 14): per tentare bilanci, per guardare indietro e ritrovare “figure e momenti” che fanno emergere, come una melodia che ritorna, i “temi della vita”, come scrive attraverso una lunga e malinconica citazione di Giorgio Agamben: i temi della vita tornano ed hanno sempre un alone di incompiutezza, come se sempre debbano ritornare per essere ripresi e continuati. L’incalzante sensazione di caducità fissa cose e persone in una sua propria dimensione in cui sembra di non poterle vedere e guardare compiutamente, come quando al crepuscolo finisce ineluttabilmente la luce.
Vaghe stelle dell’Orsa alterna così contributi di ricerca già altrimenti noti con ricordi personali e collettivi che ricostruiscono la trama entro cui essi si collocano ed assumono piena luce, regalando suggestivi flashback a chi legge, si tratti di uno studioso esperto o lettore curioso.
E poiché le case dell’infanzia rimaste troppo vuote e troppo presto si somigliano tutte, il titolo non è solo “ricordanza” leopardiana ma anche visuale, cinematografica, di quel film omonimo con cui Luchino Visconti vinse il Leone d’oro a Venezia nel 1965. L’esercizio autobiografico parte infatti da lontano e da “casa”, da quella casa che apparve ancora più grande e silenziosa dopo la perdita precoce del padre Alfonso: e apprendiamo così della tenera sollecitudine con cui lo zio Raffaele Lombardi Satriani, fratello del padre, cercò di lenire quel vuoto. E la piazza allo zio dedicata a San Costantino di Briatico ha accolto molti anni dopo – il 2 giugno del 2022 – il funerale del nipote che ha saputo dare tanto lustro al casato.
Lo stesso Raffaele Lombardi Satriani cui è dedicato l’Archivio di San Costantino di Briatico e che era Barone Satriani, artefice di quella Biblioteca delle tradizioni popolari calabresi intesa a fare per la Calabria quel che la Biblioteca realizzata dal Pitrè aveva fatto per la Sicilia e che nel 1928 vide la pubblicazione del primo volume. Tra i vari campi di interesse dell’illustre zio viene sottolineato quello per la novellistica calabrese, valorizzata e indagata più tardi rispetto alla poesia popolare e i canti, precocemente studiati sulla scia dell’interesse romantico, mentre prosa e novellistica furono oggetto d’interesse per i positivisti, come accadde del resto in tutta Italia. Archivio nel quale sono conservati documenti importanti, come il carteggio che lo zio Raffaele intrattenne con Giuseppe Cocchiara, cui gli alleati sbarcati in Sicilia affidarono l’insegnamento di Antropologia sociale, che per molto tempo rimase l’unico insegnamento demo-etno-antropologico in Italia.
Conseguita la maturità classica nel Liceo-ginnasio Pasquale Galluppi a Tropea, il liceo classico più vicino a San Costantino di Briatico dove viveva, Luigi Maria si iscrive quindi a Napoli al corso di Laurea in Scienze Politiche presso la facoltà di Giurisprudenza, con il “sogno giovanile” di dedicarsi alla carriera diplomatica, tra volontà di girare il mondo e fantasie di mondanità elegante e prestigiosa. Saranno però fantasie presto sostituite da “una messa in discussione della forma apodittica e perentoria delle formulazioni giuridiche e un’assunzione sofferta della problematica esistenziale di sé e del mondo” (Vaghe stelle dell’Orsa, p. 82).
Le pagine proseguono nel ripercorrere incontri ed eventi, e la cifra della ricucitura della frammentarietà, scientifica e umana, riemerge costantemente. Da Napoli sarà la volta di Messina, Genova, Roma e così via.
Nel volume vengono rintracciati e riproposti articoli, prefazioni, interventi accademici, con un prezioso contributo anche filologico utile alla storia non solo dell’uomo ma della storia degli studi.
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L’antropologia appunto. L’importanza della documentazione folklorica, demologica, portata avanti da studiosi rigorosi e quasi “devoti” ad un particolare terreno di ricerca, anche in epoche in cui folklore e demologia sembravano quasi passatempi da eruditi poco accademici, appare oggi invece in tutta la sua imprescindibile importanza. Che compito darebbe oggi all’antropologia?
Rispondere adeguatamente richiederebbe uno spazio smisurato, sarebbe come scrivere un’Enciclopedia. In maniera sintetica io penso che particolarmente oggi l’antropologia debba farsi carico delle contraddizioni di tutta la realtà contemporanea proponendo possibili soluzioni, superando sia lo stereotipo che la vorrebbe scienza disinteressata e “oggettiva” sia quello che la vorrebbe separata nettamente dall’etica. Al contrario io penso che l’antropologo critico debba rivendicare in pieno la sua soggettività, la sua capacità di giudizio autonomo ed ereticale; come debba rivendicare l’essere l’antropologia ineludibilmente legata all’etica, al giudizio morale, all’esigenza di fornire modelli. Constato amaramente che queste mie posizioni vanno in direzione radicalmente opposta a quelle maggiormente in voga nel dibattito contemporaneo.
Del resto la sua ricerca si è distinta per il coraggio di alcune posizioni, come quando si è occupato di Natuzza Evolo, la mistica di Paravati per la quale il 6 aprile 2019 si è aperto il processo di beatificazione: tra tutti è forse il tema che più ha sfidato una sorta di “ingiunzione alla modernità” che pesa sulla ricerca sociale, quasi che alcuni argomenti possano contaminare la ricerca stessa facendola attardare su terreni considerati obsoleti. Così condannando allo spazio del rimosso ampie zone della vita sociale. Cosa ha significato affrontare un argomento scomodo, a fronte dell’eccessivo riserbo (quasi il rifiuto) che hanno avuto altri intellettuali ad esprimersi su questo caso, controverso quanto cogente?
L’incontro con Natuzza è stato per me un’altissima lezione di dignità, di umiltà. Il silenzio di tanta parte del mondo intellettuale su di lei e sul suo operato mi fa ricordare quella poesia dei “cafoni” di Tricarico, alla quale pare abbia collaborato Rocco Scotellaro, il sindaco socialista, autore di opere fondamentali sui contadini lucani che la commossa rievocazione di Carlo Levi ci ha restituito: “voi che fate l’intelligente / non capite proprio niente…”.
Ecco, la questione meridionale, la Calabria. La sua militanza è stata declinata con successo anche nell’agone politico e tra il 1996 e il 2001 è stato Senatore. Alle politiche del 2018 il risultato delle elezioni in Calabria ha espresso, almeno a una prima lettura, un gran desiderio di cambiamento, di rinnovamento. Quanto questa promessa di cambiamento è stata mantenuta, a suo parere?
La società civile ha espresso in ogni consultazione elettorale la grande volontà di cambiamento perché, nonostante i politici abbiano puntualmente deluso con i loro provvedimenti e comportamenti, viene riposta una grande fiducia nella politica come insostituibile forza di mutamento reale. È anche vero che di solito viene sconfitto chi ha governato, anche se, in ipotesi, ha governato in maniera ottimale nelle condizioni date. Guai ai vinti, che proprio perché tali vengono ritenuti responsabili di ogni sciagura, anche se, per avventura, ogni singolo non sia diventato vincitore. È alla successiva consultazione elettorale la situazione viene ribaltata ancora una volta, solo a Prodi è riuscito di sconfiggere per due volte consecutive il suo avversario Berlusconi. Ma la cosa non si è più ripetuta. L’altalena così tra vincitori e vinti continua a oscillare e questi ultimi non rinunciano in alcun modo a elaborare trame di complotti ai loro danni per giustificare una sconfitta che invece dovrebbe indurre a una severa autocritica.
Un’ultima domanda. Com’è la morte per chi l’ha lungamente indagata, scrutata, meditata? Cos’è oggi la morte? Oggi che pare indagata al microscopio, esposta in maniera perfino pornografica, conosciuta nelle sue pieghe fisiologiche, osservata, filmata, registrata, documentata su scenari di guerra, criminalità, malattia e fiction: ne sappiamo di più oppure continua ad essere esorcizzata, rimossa dalla contemporaneità mentre viene apparentemente esibita?
Ne sappiamo molto di più adesso, ne vediamo continuamente, amplificate dai mezzi di comunicazione, quotidiane scene di orrore, eppure è come se fosse diventata via via più invisibile. Siamo riusciti di fatto, con morbosa curiosità a truccarla sino a renderla irriconoscibile ai nostri stessi occhi. Ma la morte non tollera questi meschini esorcismi e ritorna, riaffermando le sue ineludibili ragioni. Del resto oggi abbiamo detabuizzato il discorso sul sesso e abbiamo invece reso indicibile l’amore, come qualsiasi altro sentimento. Ne abbiamo quotidiane conferme dalla letteratura di consumo e dai mezzi di comunicazione. Questo doppio processo è stato rilevato prima di me e meglio di me, da Roland Barthes nei suoi celebri Frammenti di un discorso amoroso.
***
Gli eterni Eros e Thanatos, quindi: i temi dominanti delle raccolte poetiche. La consapevolezza della perdita, le assenze che fanno sconfinare l’amore nella morte: perdita ed assenza della persona amata, ma anche perdita ed assenza di quel che è stato.
L’amore. Amore come passione, come desiderio e come materia e corpi che si incontrano, si riconoscono, si perdono e ritrovano: un vero e proprio canzoniere amoroso, così definiscono la raccolta Elio Pecora e Dante Maffia che dell’Evasione dai giorni firmano rispettivamente Prefazione e Postfazione (“Nostalgia di futuro” scrive Maffia).
Ma ancora l’amore come mancanza, lontananza e morte che parlano ed evocano quindi altre e struggenti assenze e perdite, come quella dell’infanzia, e delle lunghe estati in paese.
Ed è alla pagina scritta, come fosse una donna, perché l’una trascolora nell’altra, che si chiede salvezza:
Scrivendo una pagina,
tenteremo di sentirci vivi
e fingere di credere al giuoco.
(Il Giuoco, in L’evasione dai giorni, p. 10)
Finirai per concludere
Che la vita è una donna
Che ancora non hai
Che verrà da lontano a risolvere tutto?
(Estate, VI, in L’evasione dai giorni, p. 27)
Eppure la sensazione è quella del tradimento di quell’aspettativa di conoscenza completa richiesta alle pagine, alle parole scritte:
Ti sei chiuso fra pareti di libri.
E pensare che a essi
chiedevi
un contatto più vero con gli altri,
un aiuto.
Non ti accorgi che sei stato giuocato?
(Le pareti di libri, in L’evasione dai giorni, p. 16)
Una poetica carnale e materica, dove la parola, quella parola a cui ancora si chiede ed affida il miracolo della salvezza, pare farsi essa stessa terra e carne e materia per attingere alla verità più autentica dell’esistenza.
La terra e l’incombente sensazione di morte ed assenza, che la passione amorosa e carnale anziché placare ravvivano e ricordano nella costante minaccia della fine, e che si fanno materia nel corpo che invecchia inevitabilmente. Versi dove in filigrana si avverte chiaro l’eco e il ritmo della poetica di Pavese:
Dovevi assorbire
Il dolore della terra
Dove io ti evocavo.
Dovevi essere dolce e leggera
E apparire
nei momenti di fede.
(Sassinoro, in L’evasione dai giorni, p. 11)
Ma è anche il Pavese della fatica del vivere, che si fa mestiere e lunga abitudine al pensiero della morte:
Il toro pensava
Che breve era stata
La sua faticosa giornata
E che gli uomini presto
Lo avrebbero ucciso.
(La corrida, in L’evasione dai giorni, p.9)
Devi riprendere il peso
e andare nella vita sudata dei giorni.
(Estate, V, in L’evasione dai giorni, p. 26)
Il pensiero del fiume
è un inutile peso
che ti è stato affidato
per i giorni di estate.
…
Annegare non puoi.
Puoi soltanto frantumarti la testa
A furia di sbatterla
Sulle pietre che affiorano a tratti.
(Estate, III, in L’evasione dai giorni, p. 24)
La riflessione sulla morte, che pare contemplazione, pare così essere stata compagna della vita intera, dal Ponte di San Giacomo, scritto insieme a Mariano Meligrana e che è forse il suo più celebre saggio, fino alle raccolte poetiche, pubblicate in anni recenti ma i cui versi sono stati scritti nel corso di diversi decenni.
Resta la sensazione, scrive Elio Pecora nella Prefazione, “di una vita intesa come un abisso, come un’amara traversata” (p. 5).
Un mondo ci accoglierà, freddi:
il ricordo diverrà nebbia,
le cose, fantasmi.
E ci meraviglieremo di aver vissuto.
…
Porteremo – segreto –
un vago sentire ch’è forse
il sentirsi mancati, mancanti.
(Il giuoco, in L’evasione dai giorni, p.10)
Riferimenti bibliografici
Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Milano, Nottetempo, 2017.
Luigi Maria Lombardi Satriani, Mariano Meligrana, Il Ponte di San Giacomo, Milano, Rizzoli, 1982.
Luigi Maria Lombardi Satriani, L’evasione dai giorni, Poesie, Milano, La vita felice, 2015.
Luigi Maria Lombardi Satriani, Omnia vincit amor. Poetica dell’amore, Rossano (CS), Ferrari editore, 2017.
Luigi Maria Lombardi Satriani, Vaghe stelle dell’Orsa. Il passato è il futuro, Città di Castello, LuoghiInteriori, 2019.
L'autore
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Antonietta Di Vito, specialista in antropologia e didattica dell’italiano come L2, lavora nel campo della ricerca sociale e della formazione. Si è occupata di questioni classiche legate all’antropologia economia, dall’antiutilitarismo al dono, di etnografia scolastica e temi di antropologia della salute e della malattia. È autrice di diversi saggi e monografie. Si segnalano: Dono ed economie informali. Saggi di Antropologia economica, Roma, (2008) “Un antropologo nella scuola: dall’assimilazionismo all’intercultura” in AA.VV. Identità mediterranea ed Europa. Mobilità, migrazioni, relazioni interculturali, CNR-ISSM Istituto di studi sulle società del Mediterraneo, (2009); “La smart city come nuova utopia urbana”, nel volume collettaneo, Abitare insieme. Living together, Napoli, CLEAN Edizioni (2015). Ha inoltre tradotto inoltre Alfred Métraux, “La commedia rituale nella possessione” (Antropologia, Anno I, n. 1, 2011) e Marc Abélés, Politica gioco di spazi, per Meltemi, Roma. (2001). Nel 2021 ha pubblicato per i tipi de La Bussola La teoria della carruba. Con brevi accenni a come non ho imparato a cucinare, a carattere narrativo.
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