Nuova, incredibile, avventura Disney per il sommo poeta Dante Anatrieri, soggetto e sceneggiatura di Alessandro Sisti, e disegni di Alessandro Perina (albi 3434 / 3435 / 3436 / 3437). La storia, ambientata in diverse città italiane (Firenze, Padova, Bologna, …), e collocata tra il nostro presente, il 2021, e gli anni dell’esilio dantesco (dal 1302 al 1321), racconta dell’avventurosa caccia di un misterioso e sconosciuto CI canto della Commedia, mai pubblicato, né dal poeta, né da parte di altri editori e studiosi, nel corso dei secoli che ci separano dalla morte del poeta. Dunque, si tratterebbe del manoscritto autografo di un canto andato smarrito, e dimenticato, del grande poeta Dante Anatrieri. La spedizione, in cerca del preziosissimo autografo dantesco, è guidata dal prof Adalbecco Quagliarolio, storico dell’arte. Zio Paperone, che ha fiutato l’affare, in compagnia di Qui, Quo, Qua, e di un eternamente annoiato Paperino, lascia in tutta fretta Paperopoli, e si precipita in Italia, finanziando la ricerca del manoscritto contenente il testo del centunesimo canto del poema.
La storia disneyana, in effetti, allude alla dibattutissima questione critica dell’autografo dantesco, che, nel corso dei secoli, ha impegnato fior di studiosi, in sede accademica, ma che pure ha stimolato la fantasia di molti romanzieri.
Nell’albo Disney 3437, l’ultimo episodio della storia di questa ricerca è suddiviso in due sotto-puntate, rispettivamente, alle pp. 107-126 la prima parte; e alle pp. 131-150 la seconda (e ultimissima) parte.
Anche in questa ultima tappa della storia, la commistione tra antico e (post)moderno è evidente sin dalla primissima pagina, nella quale, appunto, Dalia, assistente dell’esperto dantista Bargilio Ruspanti (consultato, sin dall’inizio, da parte di Adalbecco Quagliarolio, storico dell’arte, appunto, ma non dantista), dichiara di essere lei l’autrice del blog “Din Don Dante”, offrendosi come consulente in materia dantesca (in sostituzione del gaglioffo Bargilio, datosi alla macchia), rivelando al gruppo che il loro nemico (il così detto «ultimo Guelfo nero», così come si è firmato, in alcuni minacciosi biglietti) è proprio il professor Ruspanti Bargilio:
Già negli episodi precedenti era emersa, in modo esplicito e prepotente, tale commistione di linguaggi (e di tecnologia), tra il nostro presente e il Medioevo dantesco. Ultima tappa della ricerca è la città di Ravenna (nel 1318, infatti, Dante abbandonò Verona, per recarsi a Ravenna, ultima sede del suo esilio), ospite di Guido Da Polenta, con il quale la città aveva conosciuto l’ultimo periodo del suo splendore, prima della (completa) decadenza, così come si legge in Inferno, XXVII, dal v. 40 in poi:
Ravenna sta come stata è molt’ anni:
l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
[Ravenna è (sta) nella stessa condizione in cui si trova da molti anni: la protegge (la si cova) l’aquila (aguglia) della famiglia Da Polenta, così che copre con le sue ali (vanni) anche Cervia. La città [Forlì] che sostenne (fé) il lungo assedio (lunga prova) dei francesi, e che poi ne fece strage, si trova sotto gli artigli (branche) del leone verde [simbolo degli Ordelaffi].]
Guido Novello Da Polenta fu signore di Ravenna, dal 1316 al 1322 (anno in cui lasciò la città per assumere, a Bologna, la carica di Capitano del Popolo), fu uomo di grandi vedute e mecenate sensibile. Presso di lui, infatti, Dante trovò, a più riprese, ospitalità, svolgendo, per suo conto, anche incarichi diplomatici e politici. Di ritorno da una missione politica, infatti, a Venezia, com’è noto, nel 1321, Dante si ammalò e, nella notte tra il 13 e il 14 settembre di quello stesso anno, morì, in Ravenna.
Nel fumetto, utilizzando i «retrocchiali», che hanno il potere di far vedere a chi li inforca, momenti e azioni del passato più remoto, come se si stesse svolgendo in quell’istante, zio Paperone vede, quindi, Dante in partenza, da Ravenna, per compiere la missione politico-diplomatica, a Venezia, per conto di Guido Da Polenta…
e vede pure come Quagliarolio (antenato mariuolo di Adalbecco) effettui il furto del manoscritto autografo contenente il testo del canto CI del poema. Spettatore della scena è anche Ruspanti Bargilio, che indossa gli stessi occhiali speciali realizzati da Archimede, sottratti alla combriccola, e che, vistosi scoperto (e battuto), spiegherà a zio Paperone l’inutilità di quella ricerca, dal momento che, a suo dire, quand’anche fosse stato recuperato il manoscritto con il testo del canto CI del poema, non avrebbero potuto leggere nulla, in quanto, sempre secondo una sua teoria strampalata, Dante Anatrieri sarebbe stato un analfabeta (il prof Ruspanti giustificherebbe tale sua affermazione paradossale con il fatto che di Dante non è giunto a noi nulla di autografo, nemmeno un verso, ma nemmeno la stessa forma del poeta, nulla di nulla).
Dunque, l’autore del furto, nel 1321, sarebbe stato l’antenato di Adalbecco, Quagliarolio, che avrebbe agito per conto dei Guelfi neri, intenzionati a distruggere il manoscritto del canto CI, perché giudicato pericoloso (contenente, cioè, nomi e indicazioni compromettenti per la loro setta), riportandolo a Firenze, e consegnandolo a loro. La seconda parte di questa ultima puntata si sposta, quindi, nella città di Firenze, lì dove tutto avrebbe avuto iniziato:
La comitiva, di conseguenza, si sposta a Firenze, coltivando l’illusoria speranza di reperire, in qualche polveroso archivio cittadino, l’autografo conteso. Le contaminazioni con il moderno si realizzano anche attraverso battute, come dire, pop, di vita quotidiana, com’è sempre stato tipico del linguaggio delle avventure disneyane, alla portata di tutti. In questo caso, Paperino rimprovera a zio Paperone di non aver preso l’autostrada, da Ravenna per Firenze, per la solita sua (proverbiale) taccagneria, costringendoli ad affrontare un viaggio più lungo (e stancante). Percorrendo una strada provinciale, però, lì dove, oggi, sotto gli occhi dei paperi, sorge un Autogrill, al tempo di Dante sorgeva una stazione di posta, per il cambio dei cavalli. Quagliarolio, infatti, vi fece sosta, sia per effettuare il cambio del cavallo, sia per dare, finalmente, un’occhiata all’autografo trafugato. La scena viene ri-vista e ri-vissuta dai paperi grazie ai retrocchiali. Dalia ipotizza che, molto probabilmente, il manoscritto dantesco non contenesse testo giudicato pericoloso da parte della setta dei Guelfi neri, che pur ne aveva ordinato il furto, con l’intenzione di distruggerlo, ma che, al contrario, contenesse annotazioni ordinarie («ciance e ciarlerie»), non degne, dunque, in ultima analisi, dell’attenzione e delle preoccupazioni dei Guelfi neri. Di conseguenza, il manoscritto, continua a ipotizzare Dalia, potrebbe esistere ancora, evidentemente, non più distrutto più dai Guelfi neri, una volta esaminatolo, nel 1321, e una volta giudicatolo innocuo. Archiviato e dimenticato. E in effetti, nelle carte del prof Adalbecco, redatte dall’antenato ladro, Quagliarolio, la vicenda viene ricostruita proprio in questi termini. Non contenendo nomi di fantomatici «congiurati incogniti», e non giudicandolo pericoloso, i Guelfi neri se ne disinteressarono, licenziando, anche in malo modo, il ladro (definendolo «loschissimo paltoniere», loschissimo cialtrone):
In forma di indovinello, leggiamo, nella stessa pagina del licenziamento di Quagliarolio, del luogo in cui, nel 1321, il ladruncolo nascose l’autografo dantesco, oramai rifiutato dai Guelfi neri, perché di nessun interesse, e cioè «nel mezzo del camin di casa avita». L’autografo dantesco, allora, si troverebbe nel camino dell’antico casale dei Quagliaroli, appunto, della casa avita, della casa di famiglia. La comitiva, quindi, si precipita presso il casolare dei Quagliaroli, ma vi giunge in ritardo, preceduta, ancora una volta, dal perfido Bargilio, che, comunque, alla fine, oramai in possesso del conteso autografo, roso da un senso di colpa scientifico, finisce per consegnarlo nelle mani di Adalbecco, non avendo il coraggio di distruggerlo. Adalbecco, a sua volta, spinto da un impeto di generosità scientifica, dice a Bargilio che dividerà con lui gli onori di quella grandiosa scoperta. Questi accetta, rinunciando prontamente alla sua bizzarra teoria, secondo la quale Dante Anatrieri sarebbe stato un perfetto analfabeta, nient’affatto poeta, e nient’affatto autore del poema, come per secoli si è creduto.
In forma leggera e ludica, direi in forma «pop» (così come io lo intendo, il «pop», e lo pratico, da anni, nella mia attività scientifica e didattica, di divulgazione dei Classici), sotto queste affermazioni di Bargilio, si cela la questione del mancato ritrovamento dell’autografo dantesco della Commedia (o di altra opera del poeta fiorentino), che, da sempre, è stata ed è croce e delizia dei dantisti di tutto il mondo. Nelle ultime pagine dell’albo Disney viene, finalmente, svelato l’enigma del canto CI, allorquando si apprende che la sigla CI non starebbe per canto centunesimo della Commedia, bensì per «Collectione Ilare», cioè, Raccolta di cose da ridere. Il manoscritto, unico autografo dantesco a noi giunto, conterrebbe, dunque, non il testo di un canto del poema; ma una raccolta dantesca di battute e di spiritosaggini, in pieno stile (e spirito) toscano:
Mi pare di poter concludere, a margine di questo episodio dell’avventura dantesca disneyana, che il nostro “sommo” Dante va, dunque, de-monumentalizzato; va restituito a sé stesso, alla sua autentica natura “toscana”, al suo spirito, al suo stile, alla sua natura ilare e solare. Egli va de-monumentalizzato, e letto di più, a tutti i livelli. Meno monumenti a lui dedicati; meno piazze, strade, vicoli e scuole, a lui intitolate, ma più letto, con recupero storico-filologico, senza musealizzarlo, senza mummificarlo, recuperando l’alito vitale che, ancora oggi, a distanza di tanti secoli, spira dai suoi versi, e alimenta tanti artisti contemporanei (dalla musica al cinema, ai fumetti, ai brand alimentari, ai graphic novel, ai videogiochi, e tanto tanto altro ancora). Il fumetto Disney, infatti, invita a riflettere su queste note (autografe) del poeta: «si favella ch’io sia d’indole lassa e cogitabonda» (riecheggiando, in questa citazione di parole attribuibili allo stesso Dante, il riecheggiamento di un notissimo ritratto di Dante che diede, per primo, Giovanni Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante), cioè, dal carattere triste e pensieroso. Al contrario, suggerisce Dalia, nella sua interpretazione critica di queste parole, Dante fu «molto spiritoso», raccoglitore di facezie, di lazzi e di arguzie:
Di gran successo, quindi, il libro delle Edizioni de’ Paperoni, allestito in tutta fretta, per il piacere di zio Paperone, contenente «Le barzellette di Dante Anatrieri», con relativo firmacopie. Dante pop.
Tornare a leggere Dante …con Dante. Può sembrare una dittologia, questa mia affermazione, e cioè tornare a leggere Dante con Dante, a scuola, nei circoli di lettura, nei Festival, nelle Università, nelle piazze, ovunque. Credo che sia (finalmente) giunto il tempo di de-strumentalizzare Dante, senza più tirarlo per il lucco, piegandolo a questo, o a quell’altro credo politico (o filosofico, o religioso, o modaiolo che sia). Ogni età ha avuto il “suo” Dante: Mazzini, Foscolo e tanti altri, già in età di pre-risorgimentale, ne fecero la bandiera della (nascente) patria; ma analogamente lo lesse (e lo strumentalizzò, a fini di “bottega”) anche Benito Mussolini (il quale donò una copia del poema dantesco a Hitler, in occasione della sua visita in Italia), rilanciando, pure, la monumentalizzazione del sommo poeta, con piazze, scuole e strade a lui intitolate. Negli stessi anni, nelle carceri fasciste, lo leggeva e lo interpretava finemente Antonio Gramsci. Nel lager nazista, il poema dantesco, segnatamente il canto XXVI dell’Inferno, il canto di Ulisse, rappresentò per Primo Levi una “uscita di sicurezza”. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, cominciò a tirarlo per il lucco anche la Chiesa cattolica, giungendo, qualche decennio dopo, a definirlo, con papa Paolo VI, in un documento ufficiale, «poeta nostro», dopo averlo inserito, per secoli e secoli, nell’Indice dei libri proibiti (Divina Commedia compresa). Nell’ultimo anniversario, infine, appena celebrato, nel corso del 2021, tra i tantissimi e pregevolissimi libri apparsi, non è mancato, però, anche chi ha ripreso a piegare Dante alla propria conventicola, magari riverniciando in tutta fretta vecchie idee (come quella di Dante padre della Patria), millantandole (e vendendole) come ideuzze originalissime e critiche. Ecco perché, a rischio anche di apparire banale, sostengo, con tutte le mie (poche) forze, che sia finalmente giunto il tempo di tornare a leggere Dante …con Dante.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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