Cento anni fa, 2 febbraio 1922, la prima copia di “Ulisse” fu messa nelle mani di James Joyce, che quel giorno compiva quarant’anni e poteva dire concluso il capolavoro della sua vita, e forse del suo secolo. Un romanzo di 735 pagine, scritto, come dichiarato in calce, fra “Trieste Zurigo e Parigi, 1914-1921”. Gli anni turbolenti della guerra in cui il transfuga irlandese (cittadino britannico del resto) riparò con moglie e figlioletti dall’austroungarica Trieste alla neutrale Zurigo, dove poté dedicarsi tutto al suo “romanzaccione”, per poi spostarsi su sollecitazione del mentore Ezra Pound a Parigi.
Qui trovò spiriti congeniali e una coraggiosa donna americana, Sylvia Beach della libreria Shakespeare and Company, che si propose come editore del libro maledetto, nel frattempo soggetto a sequestro negli Stati Uniti. Fra il 1922 e il 1927 ci furono nove ristampe, di cui due in Inghilterra (nel 1922 “2000 copie numerate, di cui 500 bruciate dalla dogana di New York”). Che fama luciferina per un libro favoloso in cui ci vorrebbe molta pazienza per stanare qualche brano erotico fra milioni di parole dell’umanità affaccendata che vi si aggira. Come in ogni luogo del mondo.
Infatti anche chi non conosce la croce e delizia di leggere “Ulisse” sa che esso racconta la storia di un giorno, il 16 giugno 1904, a Dublino, dall’alba a notte fonda, e che la vicenda si riassume in quattro parole. Un pubblicitario ebreo irlandese, Leopold Bloom, Ulisse, si aggira per la città in cerca di clienti, consapevole che la moglie, la cantante Molly, Penelope, riceverà alle 16 il suo impresario non solo per discutere di affari, ma per provare la “Vecchia dolce canzone dell’amore”, al pianoforte e a letto; intanto lo studente letterato Stephen Dedalus, Telemaco, dà lezione a scuola, fa discorsi capziosi sull’ Amleto nella Biblioteca nazionale, e finisce nel quartiere a luci rosse, pestato e tratto in salvo da Bloom, che lo conosce appena e lo invita a casa per rinfrancarsi.
Tutto qui, ma intanto entriamo nella mente di un uomo comune, Bloom, di un intellettuale sarcastico e insoddisfatto, Stephen, e della generosa Molly, molto terra a terra ma anche dea madre, vita, natura. A lei spetta l’ultima parola in un soliloquio di 37 pagine senza punteggiatura: il flusso di coscienza che nel dormiveglia si accompagna ad altri flussi: si siede sul vaso da notte sbeccato, e a quel punto si accorge di avere le mestruazioni, con sollievo dato i focosi amplessi con l’amante di poche ore prima. Molly e Leopold hanno una figlia adolescente e hanno avuto un bambino morto alla nascita, un lutto che si riverbera nel romanzo, che è stato letto come ricerca di figlio e padre da parte di Stephen (figlio di uno spiritoso fallito vedovo) e Bloom (padre di un bimbo morto).
Ed eccoci entrati nelle spire del romanzaccione, che a poco a poco svela tutti questi dati facendo parlare e pensare protagonisti e comprimari sotto i nostri occhi. La tecnica di Joyce è infatti essenzialmente teatrale (Ibsen fra i suoi maestri) o cinematografica. Non è come in Manzoni, Dostoevskij o Proust dove il narratore commenta e descrive gli eventi dall’esterno, ma chi legge è messo davanti a pensieri e azioni senza mediazione, come in qualsiasi film o commedia. Sicché al lettore si chiede attenzione, come se uno leggesse mettiamo “Amleto” e se lo mettesse in scena mentalmente. Ma tanta è la vitalità che sprizza da ogni parola che è solo un piacere giocare con Joyce.
Che andando avanti lungo i diciotto episodi del romanzo, non si stanca di inventarne sempre delle nuove, passando da una tecnica narrativa all’altra. Per esempio lo spassoso penultimo episodio, a proposito del rientro a casa di Bloom e Stephen, è tutto scritto in forma di domande e risposte, un dialogo immaginario in cui nessun dettaglio viene trascurato.
Ho detto “spassoso”. Infatti “Ulisse” è fra l’altro un capolavoro comico, unico in ciò fra gli impervi classici del Novecento. Sarà lo spiritaccio irlandese che si fa beffe di tutto ma con totale serietà e capacità di commozione, per cui lo sberleffo in un attimo diventa lacrima. L’umanità nella sua grandiosa debolezza, come ce l’hanno presentata i grandi predecessori di “Ulisse”: “Don Chisciotte”, “Gargantua”, ma anche i Vangeli. Joyce era stato formato dai Gesuiti e senza un estremo rigore non avrebbe potuto costruire quella cattedrale laica o umana commedia che è “Ulisse”.
Dunque il 2 febbraio 1922 un uomo ancora nel vigore della prima maturità poté aprire il libro in cui aveva messo tutto il suo ingegno ma sempre condito di tagliente autoironia. Per esempio nell’episodio delle “Sirene”, Joyce che era cantante e musicomane (e “Ulisse” è un libro supremamente musicale) spiegò di aver voluto rifare la struttura della fuga: le due bariste “sirene” che civettano con gli avventori, Bloom cornificato, Molly, l’amante, tutti temi che si intrecciano. Vertiginosa acrobazia che termina come? Bloom si sente una certa aria nella pancia, e del culo fa trombetta, per citare uno dei grandi modelli di “Ulisse”. Dalla cattedrale alla pernacchia. L’uomo che in ogni momento viaggia fra le stelle e le stalle. Insomma, “Ulisse” come immagine dell’universo umano, fra le più grandiose, commosse e spiritose che la letteratura ci abbia dato.
Le traduzioni da De Angelis a Terrinoni
Ormai le traduzioni di “Ulisse” non si contano. Quella di Mario Biondi (La Nave di Teseo) si distingue per un profluvio di note. Bompiani ne pubblica per il centenario una di Enrico Terrinoni con testo inglese a fronte e cospicuo apparato. Feltrinelli ha affidato la sua versione al poeta fiorentino Alessandro Ceni. Ce n’è persino una, meritoria, di un pensionato genovese, Marco Marzagalli, disponibile su Amazon. Fa sempre testo quella del 1960 di Giulio de Angelis (Mondadori). E il compianto Gianni Celati ha lasciato una sua estrosa interpretazione, edita da Einaudi.
(l’articolo è uscito in precedenza sul “Secolo XIX”, domenica 30 gennaio 2022, p. 44)
L'autore
- Massimo Bacigalupo, saggista e traduttore, è professore emerito di Letteratura americana nell’Università di Genova e Vicepresidente dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere. Ha studiato a Roma e New York, è stato autore di film sperimentali negli anni 1960-70, quindi si è dedicato agli studi letterari. Si è occupato di Romanticismo e Modernismo, in particolare di Melville, Dickinson, Pound, Eliot e Stevens (di cui ha curato Tutte le poesie nei Meridiani Mondadori). Ha anche tradotto quattro raccolte di Louise Glück, Premio Nobel per la Letteratura 2020: L'iris selvatico, Averno, Notte fedele e virtuosa, Ricette per l’inverno dal collettivo. Per le sue traduzioni ha ottenuto il Premio Monselice, il Premio Vittorio Bodini (Lecce) e il Premio Nazionale del Ministero dei Beni Culturali. È autore di Grotta Byron. Luoghi e libri (2001), Angloliguria. Da Byron a Hemingway (2018), Emily Dickinson. La mia vita se ne stava – un fucile carico (2021). Collabora a “Il Secolo XIX”, “Il Manifesto”, “Poesia” e “Paragone”.
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