La scoperta

Un nuovo Livio di Petrarca: il manoscritto Arch. S. Pietro C. 132 della Biblioteca Apostolica Vaticana

Nel capitolo intitolato a Tito Livio dei Rerum memorandarum libri (1, 18, 2-3), composti dall’estate del 1343 fino all’inizio del 1345, Petrarca lamentava che solo un’esilissima parte dei 142 libri degli Ab urbe condita era giunta alla sua epoca e rammentava come si fosse messo sulle tracce della seconda decade sollecitato da re Roberto d’Angiò:

Ma, ahimè, che gravissima macchia d’infamia per la nostra generazione! A stento una piccola sezione di quest’opera così grande ed eccellente è sopravvissuta; essendo stata divisa in decadi o dallo stesso autore o, come piuttosto credo, dai disdegnosi lettori dei tempi successivi, di quattordici decadi non ne restano che tre: la prima, la terza e la quarta. Io stesso, per esortazione del defunto re Roberto di Sicilia, di sacra memoria, ho cercato la seconda con somma diligenza, ma finora senza successo. Ebbene, voglia il cielo che il mio vaticinio sia mendace! Infatti presto, se i costumi degli uomini non cambiano, temo che capiterà a quest’opera quello che un tempo si era proposto Gaio Caligola, il più scellerato dei tiranni: a proposito di costui si legge in Svetonio Tranquillo che poco mancò che facesse rimuovere i libri e i ritratti dello storico Tito Livio e del poeta Virgilio da tutte le biblioteche [= Svetonio, Cal. 34, 2]; e poco manca che la pigrizia, indifferente a tutto, stenda gradatamente sull’ingegno celeberrimo di quest’uomo quel velo d’oblio che non poté stendere la crudeltà di un tiranno (Francesco Petrarca, Rerum memorandarum libri, a cura di M. Petoletti, Firenze 2014, p. 53).

Questa sua affannosa ricerca fu vana ma l’insuccesso non comportò una diminuzione d’interesse nei confronti dell’opera che narrava le gesta e la gloria di Roma antica e si prestava a essere utilizzata sia come fonte per la sua produzione storica sia come strumento per la sua rivendicazione politica del primato dell’Urbe presso i contemporanei.
Come è noto, sono due i manoscritti contenenti gli Ab urbe condita in cui è stata riconosciuta la mano di Petrarca: Paris, Bibliothèque Nationale de France, Latin 5690 e London, British Library, Harley 2493. Il Parigino è un monumento librario che accoglie le storie di Troia e di Roma, Ditti Cretese, il compendio di Floro e la prima, la terza e la quarta decade di Livio, con un suntuoso apparato decorativo. Ne furono proprietari prima il canonico di Chartres Landolfo Colonna, esponente di una delle famiglie allora più potenti del partito romano in curia (partito, non a caso, impegnato ad affermare la supremazia culturale dell’Urbe), e poi Petrarca, che riuscì ad acquistarlo ad Avignone nel 1351 ma che – come lui stesso dichiara in una nota autografa vergata sul codice – lo possedette a lungo già in precedenza, e vi lasciò una ricca e varia messe di postille. Quanto all’Harley 2493, in un celebre articolo del 1951 Giuseppe Billanovich attribuiva a un giovanissimo Petrarca, negli anni compresi fra 1326 e il 1328-’30 in cui era a casa dei Colonna, non solo una serie di annotazioni presenti nei margini del codice ma anche ampie sezioni del testo liviano, il cui nucleo più antico (la trascrizione della terza decade) venne copiato in Italia nel XII secolo. Questo esemplare, sul quale l’araldo dell’Umanesimo avrebbe messo a frutto per la prima volta la sua acribia filologica con un’intensa attività di collazione e congettura, finì poi nelle mani di Lorenzo Valla, che ne proseguì il restauro e per primo assegnò a Petrarca il lavoro pregresso di emendazione. Tuttavia, il ruolo dell’Harleiano nella tradizione degli Ab Urbe condita è stato radicalmente ridimensionato da Michael Reeve, che ha evidenziato sul fronte ecdotico tutte le incongruenze della ricostruzione di Billanovich, e la presenza della mano di Petrarca al suo interno è stata decisamente messa in discussione da Marco Petoletti con argomenti più che convincenti sul piano paleografico e ortografico (Petoletti, Episodi della fortuna di Tito Livio nel Trecento 2019, pp. 269-294).
Se l’Harleiano andrà perciò una volta per tutte sottratto a Petrarca, d’ora in avanti gli si potrà, anzi gli si dovrà assegnare un nuovo Livio. Ho infatti identificato un altro esemplare degli Ab urbe condita che reca suoi marginali autografi. Si tratta di un manoscritto trecentesco, copiato su pergamena in Italia settentrionale, contenente il corpus completo dell’opera (in ordine inverso: terza, quarta e, in coda, prima decade), oggi conservato nel fondo dell’Archivio del Capitolo di San Pietro con segnatura C. 132 e, incredibilmente, ben noto agli studiosi sia di Livio che di Petrarca. Approdò alla Biblioteca Vaticana come lascito testamentario del cardinale Giordano Orsini, che ne entrò in possesso dopo aver assunto la porpora nel 1405: nelle quattro splendide miniature che si trovano ai ff. 2r, 65r, 107r, 193r il suo stemma cardinalizio con l’aquila ad ali spiegate è sovrapposto a quello di Francesco I da Carrara, signore di Padova dal 1350 al 1388. Il legame fra quest’ultimo e il codice è confermato dalla presenza della coppia di iniziali FF, in foglia d’oro, che solitamente accompagna il suo stemma; in ragione di ciò Billanovich ha dedotto che il Livio padovano fosse stato commissionato dal Carrarese e dunque allestito nella seconda metà del Trecento. Successivamente, invece, Giordana Mariani Canova ha anticipato fra il terzo e il quarto decennio del XIV secolo la realizzazione del corredo illustrativo, dopo averla analizzata a più riprese (Mariani Canova, La miniatura a Padova 2011, pp. 63-64). Dato, però che Francesco I diventa signore di Padova nel 1350 una datazione posteriore a questa sua nomina sembrerebbe più persuasiva, a meno di non supporre che gli stemmi siano stati aggiunti in un secondo momento.

f. 65r

L’imponente volume reca nei margini e nell’interlineo molti interventi appartenenti a lettori differenti. Fra questi un numero abbastanza consistente è da ricondurre con ogni probabilità a Petrarca per scrittura, tipologia, disposizione nella pagina. Si tratta per lo più di notabili, postille esegetiche (con pochissimi rimandi ad altri auctores) e segni d’attenzione (i suoi elegantissimi “fiorellini”), che sono tutti accostabili per grafia ai marginalia del Vat. Pal. lat. 899 con l’Historia Augusta e per mise en page al Livio parigino e che potrebbero quindi risalire agli anni del soggiorno del poeta a Padova, come la storia del manoscritto sembra peraltro suggerire. Al momento, però, non posso aggiungere niente di più sulla lettura petrarchesca di questo nuovo Livio sia perché la scoperta è recentissima sia perché la mole del testo è immensa (e occorrerà preliminarmente distinguere le diverse mani).

Di certo si prospetta uno studio lungo e impegnativo che spero di portare avanti nel prossimo futuro non senza qualche timore ma, nel contempo, con grande emozione, quell’emozione che ho imparato a sentire grazie a Silvia Rizzo e che lei avrebbe ora pienamente condiviso.

 

L'autore

Monica Berte












Monica Berté è professore di Filologia e letteratura medievale e umanistica presso l’Università di Chieti-Pescara; è stata Visiting Scholar presso il Pembroke College di Cambridge; è membro della “Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Francesco Petrarca” e del Comitato scientifico dell’“Ente Nazionale Giovanni Boccaccio”; è segretaria dell’Accademia dell’Arcadia; dirige la «Rivista di Studi Danteschi» e gli «Atti e memorie dell’Arcadia»; è responsabile di unità del PRIN 2017 Petrarca on line: biography, works, library. I suoi interessi di ricerca riguardano le tre corone della letteratura italiana (Dante, Petrarca e Boccaccio), con particolare interesse per la loro produzione latina, nonché la tradizione medievale e umanistica di autori classici. Su questi argomenti ha pubblicato diversi contributi scientifici ed edizioni critiche; è autrice, insieme a Marco Petoletti, del manuale di “Filologia medievale e umanistica” per la casa editrice “Il Mulino”.