L’immagine di copertina è di Enrico Pulsoni
Nel 1945, in una lettera a Luciano Serra, Pasolini affrontava il problema del suo rapporto con la poesia di Dante, collegandolo esplicitamente al proprio universo poetico, visto anche nelle sue prospettive future:
«La questione di Dante è importantissima, Luciano. […] certo l’inimitabilità di Dante, la solitudine della sua concezione poetica, l’inaccessibilità delle sue terzine sono cose dimostrate. Che gratitudine, io, posso avere da lui? E perché ricordarlo con falsa venerazione nei miei scritti che sono assolutamente privati?».
Solitudine della concezione poetica e inaccessibilità della forma poetica (le terzine) di Dante, gratitudine, ovvero, necessariamente, “benefici”: negazione dunque di ogni possibilità di rapporto fra una poesia, quella dantesca, vissuta come non privata, rispetto alla propria lirica, ai propri scritti, di cui si rivendica la dimensione “privata”, quella che nell’alterità del dialetto friulano e in una nuova e moderna metrica aveva trovato la propria forma. Un dialetto friulano materno ma riappreso quasi come lingua straniera e incomprensibile ai più; come a dire quanto di più lontano dalla lingua delle mulierculae scelta da Dante, contro il latino (incomprensibile ai più), per essere invece compreso da tutti. Lontananza dunque estrema dall’universo dantesco nel giovanissimo Pasolini e vicinanza semmai a istanze del decadentismo e dell’ermetismo, come affermerà anni più tardi, stabilendo oltre le iniziali suggestioni ermetiche una sorta di linearità progressiva nelle proprie scelte creative e critiche:
«L’idea di base della poesia ermetica era questa: il linguaggio della poesia è un linguaggio assoluto. In realtà, esistono un linguaggio poetico e uno prosastico in qualsiasi contesto letterario, ma inconsapevolmente gli ermetici esageravano con questo assunto, adottando per la poesia un linguaggio suo proprio ed esclusivo, e portando questa posizione alle estreme conseguenze, col risultato di una totale incomprensibilità, di una totale assenza di comunicazione. Come linguaggio speciale per la poesia io adottai il friulano, ed era l’esatto contrario di ogni tendenza al realismo. Era il massimo dell’irrealismo, il massimo dell’oscurità. Una volta stabilito, tuttavia, il contatto con il dialetto, questo ebbe effetti inevitabili, anche se in origine l’avevo scelto per ragioni puramente letterarie. Non appena l’ebbi adottato, mi resi conto di essere approdato a qualcosa di vivo, di reale, ciò che ebbe l’effetto di un boomerang. Fu attraverso il friulano che incominciai a capire qualcosa del vero mondo contadino. Naturalmente, da principio lo capii in maniera imperfetta, estetizzante. Fondai una piccola accademia di poesia friulana da cui uscirono alcuni dei migliori giovani poeti del dopoguerra; ma era un tipo di «comprensione» misticizzante e «poetizzante», qualcosa come i félibres provenzali. Tuttavia una volta fatto questo passo non potei più fermarmi e cosi incominciai a usare il dialetto non come strumento estetico-ermetico, ma sempre più come elemento oggettivo e realistico: il che ha raggiunto il culmine nei miei romanzi, nei quali il dialetto romanesco viene usato in modo esattamente contrario a quello in cui agli inizi avevo usato il friulano».
Proprio la scelta di quell’alterità linguistica consegnata alla scelta di un dialetto lontano e “misterioso” come il friulano e quell’ “incomprensibilità” saranno però, e intanto, la ragione della scoperta precoce di Pasolini da parte di Gianfranco Contini. Dal significato della scelta della poesia in dialetto, un senso prontamente riconosciuto e celebrato nella recensione continiana del 1943 a Poesie a Casarsa, a Pascoli (1945), al saggio di Contini del 1951 (Preliminari sulla lingua del Petrarca), in cui si polarizzava la distinzione fra il monolinguismo di Petrarca e il plurilinguismo di Dante, verrà progressivamente riconosciuto da Pasolini nell’espressionismo linguistico la chiave interpretativa fondamentale del Novecento, anche per la rappresentazione “realistica” del mondo. Sotto il segno del plurilinguismo di Dante e del rapporto fra lingua, dialetto ed espressionismo si stringe il nodo amicale e culturale che poi unirà per tutta la vita il poeta e il filologo. Un rapporto quasi paradossalmente veicolato anche dall’attenzione che Pasolini aveva già riversato sul plurilinguismo di Pascoli e sulla sua funzione profondamente innovatrice nella tradizione letteraria: la stessa che sia Contini che Pasolini riconosceranno in due capitali saggi del 1955 in occasione del centenario della nascita di Pascoli, al quale sia l’uno che l’altro attribuiscono una funzione centrale nella storia della poesia italiana per Pasolini, italiana ed europea per Contini. «Quando si usa un linguaggio normale, vuol dire che dell’universo si ha un’idea sicura e precisa» dirà Contini nel saggio pascoliano del 1955: ovunque ciò non avvenga, significa che quel mondo è in crisi e che questa crisi si vuole rappresentare. L’affermazione continiana può ben chiarire il rapporto profondo che lega da parte di Pasolini la scelta di una poesia in dialetto, dunque in una lingua “altra” da quella “normale” della tradizione nazionale, la scelta di Pascoli per la tesi e poi la funzione centrale attribuita all’interpretazione continiana di Dante, come fruitore di una lingua aperta a diversi livelli linguistici e anche a lingue “altre” nella Commedia, in opposizione alla linea petrarchesca della poesia italiana fino al Novecento.
L’utilizzazione del dialetto, romanesco questa volta, nei suoi primi romanzi, non più appunto «come strumento estetico-ermetico», ma come «elemento oggettivo e realistico», diviene chiave interpretativa della realtà e dell’emarginazione sociale e antropologico-culturale e dell’inferno metropolitano causato dal recente sviluppo capitalistico. Pasolini decide di attraversare l’inferno di Ragazzi di vita e di Una vita violenta e di immergervisi, fino a divenirne parte, almeno nell’opinione dei settori più retrivi e filistei della politica e dell’opinione pubblica. Quando viene ucciso, a soli 53 anni, Alberto Moravia, ai funerali, sottolinea innanzitutto che era «morto un Poeta». Notazione vera ma non scontata: Pasolini aveva assunto ormai una posizione preminente nella coscienza ideologica nazionale e la sua fama di autore trasgressivo sul piano sessuale, culturale e politico e “transmediale” – una sorta di nuovo “poeta maledetto” – condizionava la valutazione della sua opera, iniziata come pura esperienza lirica, come Dante, ma proseguita con romanzi oggetto di scandalo e denunce. Il mito del “poeta maledetto” (elemento fondativo della letteratura della Crisi e della “decadenza”, da Baudelaire e Rimbaud in poi) fu da allora necessariamente attribuito a Pasolini, ma anche sapientemente e forse consapevolmente ricercato dallo stesso poeta.
È a questo punto che scatta probabilmente, oltre lo stesso versante linguistico e plurilinguistico, una sorta di progressiva autoidentificazione con Dante. Dante esiliato e bandito, maledetto: come lui, Pasolini. Occorre conoscere l’Inferno, scendere all’Inferno, vivere l’Inferno, come aveva fatto e aveva narrato Dante, come Personaggio e come Autore, per poter rappresentare la Crisi del XX secolo, come Dante aveva rappresentato quella del passaggio fra il XIII e il XIV secolo. I dannati avevano esposto i loro corpi nelle pene e attraverso la scrittura e il plurilinguismo dantesco. La scrittura poteva e doveva divenire ora narrazione del corpo, esposto anche nelle sue viscere più profonde. Il corpo profondo della società diviene l’oggetto privilegiato delle sue analisi e delle sue operazioni di demistificazione. Nelle viscere più profonde, negli aspetti più repellenti, come Dante, rappresentando la realtà: quella che – dirà più volte Pasolini – sfuggiva agli scrittori borghesi e anche alla neoavanguardia. Progressivamente, Novecento, corpo letterario e corpi fisici, fino alla rappresentazione del proprio corpo fisico (nei film e in alcune famose fotografie di nudo) formano in lui e nella sua scrittura un insieme non dissociabile, così come non sono dissociabili le ragioni creative e l’attenta auscultazione e previsione delle possibili reazioni di un “popolo” che inevitabilmente diverrà progressivamente e sempre più “pubblico”.
Ragazzi di vita è del 1955: non a caso allo stesso anno risale la prima delle riscritture dantesche, la Mortaccia, mai pubblicata in vita e oggetto di vari interventi redazionali (almeno dal 1955 al 1959) e dallo stesso Pasolini poi criticata: la terzina diviene prosa, l’Inferno diviene l’estrema e più degradata periferia romana, il personaggio Dante diviene una prostituta per rivelarsi poi come un Dante-Virgilio. La protagonista, Teresa, è una prostituta che sperimenta tutte le paure del I canto del poema, ma nella forma anch’essa degradata di un altro tempo e di un altro spazio:
«Il sonno! Mamma mia! Un sonno che proprio se la stava a fà sotto, pora Teresa: capirai, co’ quella giornata ch’aveva passato, n’aveva fatti pochi d’impicci! […] Passò sotto l’archi, con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi, andò oltre il funtanone, addossato a quell’archi come un altare, e imboccò il Mandrione, per una pista di fanga, incassata sotto la muraglia dell’Acquedotto Felice […] Era quel montarozzo che sta sulla Tiburtina, dopo il Forte, prima di Tiburtino III, dove stava a abitare Peppe il Folle.
Era un montarozzo che sotto i ragazzi ci giocano al pallone, e sulle coste è tutto pieno di puncicarelli e fratte, e, arrivati in pizzo, laggiù si vede l’Aniene, tra i canneti, e dall’altra parte Pietralata, e tutt’intorno le borgate più lontane, bianche come spuma al sole. […] non c’era neanche una luce, si vede c’era una interruzione alla centrale elettrica, non una luce, né sulla Tiburtina, né dietro la borgata, là in fondo dove ci stavano di solito i fari e i riflettori. Tutto scuro, morto. E neanche una voce: neanche quei piccoli rumori che si sentono la notte: qualche cane che abbaia pei casali, o i grilli, le ranocchie. Niente, niente. E il montarozzo, detto il monte del Pecoraro, lì davanti, era alto che pareva una montagna, coi puncicarelli e le fratte che ciondolavano nell’oscurità, senza un filo di vita.
«Ma indò me trovo, qua, vaff…! » pensava Teresa, che già parlava da sola, con uno spagheggio che tremava. Camminò un po’ lì nello spiazzo giallo, verso la gobba del monte: e si sarebbe messa a strillare, se non avesse avuto paura che fosse peggio».
Teresa ha letto la Commedia attraverso un fumetto e può così riconoscere in una voce che la chiama («Aòh!») proprio Dante, che riveste però ormai le vesti di Virgilio e che la dovrebbe condurre a visitare tutti mostri e i dannati della contemporaneità (previsti: Stalin / Farinata, I suicidi di Centocelle, Andreotti / Gerione, ecc.):
«Camminava camminava, tutta col culo stretto, pora creatura, senza sapere dove andare, quand’ecco che, daje!, da dietro una gobba del monte si pararono, colla bava alla bocca, tre canacci lupi, abbaiando da torcersi i polmoni, secchi allampanati, con le code dritte sulle cosce spelate e piene di rogna. S’affiondarono contro di lei abbaiando come se la volessero sbranare, si fermarono lì a pochi metri, guardandola e continuando a cioccare con quelle boccacce schifose, girando intorno intorno come coatti. Chissà, erano forse scappati da qualche casale, alle Messi d’Oro, dietro il monte, lungo l’Aniene: o avevano sentito qualche ladro morto di fame. Adesso ce l’avevano con Teresa: e questa se ne stette lì ferma; coi capelli dritti in testa, e il sangue che gli s’era gelato. Strillare non poteva, tanta era la paura. Le usciva come una lagna dalla strozza, nemmeno quella. Poi piano piano, facendo finta di niente, sempre coi capelli dritti, fece qualche passo verso il monte, guardando i cani, e, come quelli pareva che ancora sbranarla e divorarsela viva non ci pensassero, per il momento, cominciò a salire: ma non ce la faceva, perché la scesa del monte era tutta una melma, ci si poteva sciare, e come puntava il piede per arrembarsi, questo le scivolava e le tornava giù più in basso di prima. […] Poi, verso sinistra, sentì una voce che la chiamava, che diceva: « Aòh. » Si voltò, con le mani a terra contro la fanga, a pecoroni come si trovava, e guardò da quella parte. C’era un’ombra, un’ombra che non si capiva bene chi era. Stava ferma, e guardava verso di lei. […] Ma come fu vicino, quello là la prese per un braccio, e, aiutandola a sollevarsi, le fece: «Vieni!», allora a Teresa venne una tremarella e una soggezione che quasi si sturbava, perché l’aveva riconosciuto».
II. Dante Alighieri zitto, ma come chi ha tante cose da dire, risortì dallo spiazzo del Monte del Pecoraro, con Teresa alle tacche, e, giunto sulla Tiburtina, anziché andare verso Roma, prese a sinistra, verso l’Aniene: e cominciò a pedalare di buon passo, sempre con Teresa dietro come un cane».
Ma Dante alla fine arriverà al colmo del Paradiso e alla visione di Dio; per Teresa non è prevista redenzione: la sua meta finale sarà Rebibbia.
La mortaccia apparirà a Pasolini un fallimento e rimarrà interrotta, salvo essere ripresa anni più tardi in altra forma. Negli stessi anni la Commedia riappare invece in una delle opere poetiche più rilevanti del Novecento, Le ceneri di Gramsci (1957), dove l’autore si sdoppia in un personaggio che dice “Io”, come Dante, e come nel poema userà una forma aperta di endecasillabo e quelle terzine ritenute così inaccessibili nel 1945 nella lettera a Serra. L’Io di Pasolini si presenta però esplicitamente lacerato, diviso in due parti che non riescono a trovare un punto di equilibrio; l’Io di Dante è diviso fra Autore e Personaggio, ma in un giuoco dialettico rivolto alla stessa meta, tanto da risultare a lungo celato alla critica nelle sue motivazioni più profonde. Nelle Ceneri di Gransci è la stessa nozione di “popolo” e le sue relazioni con l’Io che vengono ad essere investite dalla frattura interiore, ora lucidamente avvertita ed esposta. Lo scandalo non è più la narrazione della realtà esterna ma della propria contraddizione interiore:
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore
– nel pensiero, in un’ombra di azione –
mi so ad esso attaccato nel calore
degli istinti, dell’estetica passione;
attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione
la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria
dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica: ed altro più
io non so dirne, che non sia
giusto ma non sincero, astratto
amore, non accorante simpatia…
Come i poveri povero, mi attacco
come loro a umilianti speranze,
come loro per vivere mi batto
ogni giorno. Ma nella desolante
mia condizione di diseredato,
io possiedo: ed è il più esaltante
dei possessi borghesi, lo stato
più assoluto. Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
All’inizio fu il popolo, come insieme di individui appartenenti a una stessa comunità cui si è uniti per legami ancestrali e prerazionali, oscuri, in quanto relativi ad archetipi etnici, linguistici e sociali non dovuti a una scelta razionale ma alla nascita. L’attenzione al popolo spiega anche la sua passione ideologica e il suo impegno e la sua tipologia di poeta civile e politico, il suo rapporto con Gramsci e col Partito Comunista Italiano: la solidarietà esistenziale e politica con i deboli, l’“Altro”, e le passioni esistenziali profonde e letterarie. Cuore e viscere si avviluppano in un grumo di difficile interpretazione, fino alla crisi: «Lo scandalo del contraddirmi, / dell’essere con te e contro di te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere».
Antiborghese, populista … anticonformista. Dire ed esporre il contrario del comune sentire è riconosciuto quale compito dell’intellettuale che ormai riguarda esplicitamente il proprio stesso essere: anche e ormai, probabilmente, una strategia politico-culturale, ma vissuta e percepita dai lettori come anch’essa reale e quindi viva, espressione di una vita che attraversa l’inferno alla ricerca della luce e viene travolta da quella ricerca. Il popolo e la poesia vengono investiti contemporaneamente della stessa crisi, la luce non è più lo scopo e il conseguimento del cammino: «ma a che serve la luce?». Lo scopo è ormai la rappresentazione del cammino stesso e delle sue contraddizioni.
La discesa “all’inferno”, come già per l’amato Rimbaud, conduce all’approfondimento dei conflitti che la sua provenienza borghese causa nel suo animo e nella sua relazione col mondo, a partire dalle modalità della sua scrittura, posto che per Pasolini, ogni verità poetica è innanzitutto un problema di “verità” linguistica, di stile ad essa conveniente. Il bilinguismo e la “mescolanza degli stili” si rivelano dunque la rappresentazione più efficace e in qualche modo la verità più autentica di una realtà profonda che il poeta si porta dentro e che lo spinge dolorosamente nella condizione di scelta non compiuta, di dramma irrisolto, negli altri, per ipocrisia o per debolezza. Il plurilinguismo scoperto attraverso Contini nella Commedia, praticato nei romanzi e riconosciuto anche come la forma espressiva più adeguata di una scissione interiore, ora non basta più. L’esposizione e la rappresentazione delle proprie contraddizioni più profonde mettono in crisi non solo il rapporto col popolo ma il linguaggio stesso. La domanda delle Ceneri di Gramsci, «a che serve la luce?» a posteriori può apparire come il primo segno di una crisi che investe lo stesso genere “letteratura” in una protesta «contro l’Italia e la società italiana» e forse anche contro se stesso e il proprio cammino precedente, oggetto di una rilettura profonda:
«La prima idea che mi venne in mente fu che, d’istinto, avevo abbandonato il romanzo e gradualmente anche la poesia in segno di protesta contro l’Italia e la società italiana. Ho detto varie volte che mi piacerebbe cambiare nazionalità, rinunciare all’italiano e adottare un’altra lingua; e fu così che mi colpì come una folgorazione l’idea che il linguaggio cinematografico non è una lingua nazionale, ma piuttosto quella che definirei «transnazionale» (non “internazionale” , ché questo termine è ambiguo ) e “transclassista”: cioè, un operaio o un borghese, un abitante del Ghana o un americano, usando il linguaggio cinematografico usano tutti un sistema di segni comune. In principio pensai che fosse una forma di protesta contro la mia società. Poi gradualmente mi resi conto che le cose erano anche più complicate: la passione che aveva assunto la forma di grande amore per la letteratura e per la vita si era spogliata dell’amore per la letteratura diventando ciò che era davvero, ossia una passione per la vita, per la realtà, per la realtà fisica, sessuale, oggettuale ed esistenziale attorno a me» (intervista del 1968 a Jon Halliday, Pasolini su Pasolini, Conversazioni con Jon Halliday, Parma 1992).
Mutatis mutandis era stata la stessa scelta di Dante quando aveva abbandonato i primi trattati dell’esilio e aveva intrapreso la scrittura di un lungo poema sulla vita contemporanea, in volgare, la lingua comprensibile a tutti. La contraddizione dichiarata nelle Ceneri di Gramsci è ormai risolta, come è stato detto, in una passione per la vita, per quella realtà fisica, sessuale, oggettuale ed esistenziale, che era stata la sua scelta primordiale. Una rivisitazione che tocca anche il proprio rapporto con Dante e col senso della Commedia, a partire dal primo film, per poi chiarirsi anche dal punto di vista critico, nell’abbandono del plurilinguismo dantesco su cui si era fondato, attraverso Contini, il suo rapporto con Dante.
Il suo primo film, Accattone, del 1961, rientra apparentemente, per certi aspetti, nei canoni del Neorealismo: attori per la maggior parte non professionisti e una storia di miseria e d’inferno simile a quella di Una vita violenta. Ma lo stile è ormai contraddistinto, come il successivo, Mamma Roma (del 1962), dalla mescolanza degli stili, dall’umile-sublime già identificato da un altro filologo romanzo, Erich Auerbach, come la chiave interpretativa fondamentale per comprendere la Commedia. Il figlio di Mamma Roma giace nella postura del Cristo di Mantegna (relazione peraltro negata dallo stesso Pasolini), mentre la colonna sonora utilizza musica barocca e di Bach. Protagonista e autore, in quanto solidali analogicamente (Pasolini esplicita la sua condizione di disoccupato e perseguitato varie volte) alludono, come già Dante esplicitamente, a Cristo e alla sua passione. Il protagonista, soprannominato Accattone, è un ragazzo di borgata che si fa mantenere da una prostituta (si ricordi La Mortaccia): successivamente diviene ladro, ma per amore di una ragazza tenta di cambiare vita, senza però successo, andando incontro a una tragica fine. Come in Mamma Roma e in Ragazzi di vita, come nella Mortaccia, non c’è possibilità di salvezza, in questa vita: Accattone si apre citando in epigrafe i versi del canto V del Purgatorio: «Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lagrimetta che ’l mi toglie». E’ l’unico indizio di una speranza, non a caso solo in epigrafe ma comunque ambigua rispetto all’ipotesto semantico: il filo conduttore della Commedia pasoliniana rimane l’Inferno.
La volontà di Dante a essere poeta, di pochi anni dopo (nel centenario dantesco del 1965) è l’unico saggio di Pasolini espressamente dedicato a Dante, e occorrerà dunque tornarvi ancora una volta con particolare attenzione. Non intendeva essere, per esplicita dichiarazione, un saggio critico (anche se come tale fu accolto ed anche duramente recensito) ma un «contributo molto particolare alla “fortuna” di Dante» negli ultimi anni:
«Il plurilinguismo dantesco […] in seguito allo splendido saggio del Contini che l’ha descritto, è diventato nell’interpretazione forse rigida di alcuni scrittori “impegnati” italiani degli anni cinquanta, una «funzione», prefiguratrice e retroattiva, della letteratura italiana […]. Ma la spiegazione continiana – che in qualche modo pone l’accento sulla posizione teologico-universalistica di Dante – va puntigliosamente integrata col tener sempre presente il concreto oggetto di quel punto di vista: ossia una società che ormai richiedeva impetuosamente, a chi la vivesse, una «coscienza sociale», senza la quale l’allargamento plurilinguistico non sarebbe stato che meramente numerico, oppure meramente espressivo: una meravigliosa estasi linguistica, che, contemplando tutte le parole nella loro funzionalità e nella loro bellezza, facesse la metafora di una contemplazione di Dio ecc. ecc. Invece no: il punto di vista era doppio – e contraddittorio: al punto di vista dall’alto, corrispondeva un punto di osservazione dal basso, a livello della più contingente e meno trascendente qualità terrena delle cose. […] L’altra cosa che bisogna tener presente è una successiva interpretazione continiana. Quella dei “due registri”. In Dante, per spiegarmi nel modo più semplice, il racconto è svolto secondo due «registri»: uno veloce, quasi inespressivamente sbrigativo, quasi brutalmente fattuale. Leggete, per esempio, con il ritmo di lettura con cui leggete normalmente un libro narrativo, l’episodio di Pia dei Tolomei: non l’avete cominciato che è già finito, forse non vi siete nemmeno accorti di averlo letto ecc. ecc. Quasi si trattasse di un brandello di «libretto d’opera», che suggerisce i sentimenti e i fatti più che dirli, con approssimazione esaltata. E poi rileggete lo stesso pezzo di Pia: nella rilettura (o nella recitazione a memoria), il ritmo è quello dell’altro registro: il ritmo lentissimo, atemporale, che si iscrive in un tempo che non è né quello della lettura né quello dei fatti, ma quello metastorico della poesia: il suo «ralenti» da epigrafe sublime, il suo casto e quasi mormorato do di petto senza fine […]».
L’ultima proposizione da un punto di vista analogico e in prospettiva “pasoliniana” (con linguaggio critico proprio) riprende la proposta crociana della distinzione fra aspetti poetici e non-poetici («allotri» nel linguaggio crociano) della Commedia: una posizione che nello stesso 1965 Contini riterrà «il primo richiamo all’intelligenza moderna dell’opera, più pertinente […] di tutta la secolare ermeneutica messa assieme». E dallo stesso Contini, in una lettura del 1957 (Dante come personaggio-poeta della Commedia), riprenderà la doppia presenza dell’Io nella Commedia, estendendone però per primo la portata all’intera struttura del poema, molto al di là dell’originario intendimento continiano:
«La «doppia natura» del poema di Dante si presenta dunque – ma potremmo probabilmente continuare – sotto la specie di questa serie di dicotomie: «punto di vista teologico» e «punto di osservazione sociologico»; «registro rapido» e «registro lento»; «realtà figurativa» e «realtà allegorica»; «Dante narratore» e «Dante personaggio»; «lingua della prosa» e «lingua della poesia» […]».
Da cui la domanda fondamentale del titolo:
«Ora, c’era in Dante la volontà a essere poeta? Poeta dico, in quanto poeta? E qual era, e dov’era, questa volontà? […] Ma intanto, va subito anticipata un’osservazione non critica: un’inconscia volontà poetica è in tutto il poema di Dante, intesa come inconscia volontà proprio di dare poesia in quanto poesia. […] I “punti” del testo dove si riveli la “volontà diretta di poesia” non sono comunque verificabili né tutti da una parte né tutti dall’altra delle due serie antitetiche, né, tantomeno, lungo la linea di un qualche principio unificatore (che non sia ontologico); si presenta allora abbastanza valida, suppongo, un’ipotesi di lavoro: quella che preveda una ricerca di quei “punti” lungo la sutura dove le due serie opposte si congiungono o si urtano: e dove dunque l’espressività trovi i suoi momenti più acuti o più instabili».
Ne deriva un rovesciamento delle ipotesi sulle quali, sulle orme continiane, la cultura militante italiana e soprattutto Pasolini avevano lavorato sin dai primi anni Cinquanta:
«Ipotesi magica! La sua applicazione, sia pur schematica e impaziente, nella parte del laboratorio dedicata alle osservazioni più specificamente linguistiche, mi sembra aver rovesciato tutta una parte dell’interpretazione dantesca della cultura militante italiana di questi ultimi anni Infatti: il rapporto socio-linguistico tra le varie lingue che compongono il volgare fiorentino come lingua reale di una società articolata, dovrebbe essere, lungo la sutura che accosta due lingue molto diverse socialmente tra loro, altamente drammatico – dico drammatico espressivamente. […] l’accostamento morfologico sarebbe un’esplosione di espressività […]. Ma un accostamento di questo tipo nella Commedia non si trova mai. Non è che una mera possibilità. […] È vero dunque che c’è in Dante la coesistenza delle due differenti e opposte serie socio-lessicali: ma ognuna delle due sta sempre al suo posto, ognuna rientra dentro i limiti di un determinato caso, ossia dentro i limiti di una ideale “condizione stilistica” per rivivere emblematicamente il particolare linguaggio di un particolare personaggio (o ambiente). Solo “ripensando” alla Commedia vien fatto di tener conto della compresenza di due serie lessicali così diverse. E l’accostamento è dunque solo nella nostra testa».
Alla negazione di ogni possibilità di contaminazione linguistica nella Commedia, consegue la negazione di «ogni volontà di creare espressività»:
«E, praticamente, ogni possibilità di contaminazione linguistica si vanifica nel testo dantesco, in quanto l’ossessione discriminatoria nell’uso delle parole potenzialmente “contaminanti” è tale da ridurle pressoché a fossili: e come tali assimilate nel tono cui Dante non trasgredisce mai, per nessuna tonalità più vivace o più sublime, più vicina alle chiacchiere della terra o ai silenzi del cielo. […] Dante ha potuto ottenere questo incorporando se stesso nella sua materia, cioè rendendosi protagonista del poema. I sentimenti perciò non sono mai suoi, ma sono del Dante personaggio: l’invettiva “Ahi Pisa…”, per esempio, non è detta in prima persona, dal Dante autore, come sembra: ma è un «discorso libero indiretto» del Dante personaggio. Di qui il suo assoluto rigore stilistico: il suo mantenersi assolutamente equidistante, con tutto il resto del poema, dal momento creativo e linguistico dell’autore. La recente fortuna di Dante, fondata sulla ispirazione eteronoma e razionalistica, e sulla sua visione realistica della società – che produce il plurilinguismo – si rivela dovuta a un esame alquanto parziale».
Una parzialità che porta ad una radicale ed esplicita autocritica:
«La contrapposizione di plurilinguismo dantesco a monolinguismo petrarchesco era, almeno nella “compagnia picciola” [e cioè quella di Pasolini e dei suoi sodali], errata, o parzialmente errata. Se mai c’è da contrapporre monolinguismo a monolinguismo: un monolinguismo eletto e selettivo (Petrarca) e un monolinguismo tonale (Dante); un monolinguismo dovuto all’iterazione infinita del proprio atteggiamento interiore e del proprio rapporto con una realtà cristallizzata (Petrarca) e un monolinguismo dovuto a un’equidistanza perfettamente invariabile dal proprio atteggiamento interiore e dal proprio rapporto con la realtà, per quanto varia questa sia (Dante); un monolinguismo come soliloquio eternamente omogeneo (Petrarca), a un monolinguismo che omologa incessantemente le più diverse finzioni di dialogo (Dante)».
Sembra a questo punto evidente che Pasolini pensava a se stesso nell’analizzare Dante attraverso Contini in tutta la sua prima fase, rivedendone gli assiomi in base alle proprie esigenze creative e stabilendo una serie di parallelismi e analogie tra le proprie vicende personali e la scrittura creativa e critica (a cominciare dalla loro compresenza e dalla scoperta di Erich Auerbach, nuovo punto di riferimento filologico, dopo l’edizione einaudiana di Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 1956). Il plurilinguismo diviene stratificazione sociale di vari livelli di lingua e loro urto (l’umile/sublime cristiano e poi dantesco divenuto con Auerbach chiave risolutiva per l’interpretazione dantesca): sola vera possibilità di rappresentazione di una realtà in cui l’emarginazione personale e collettiva assumeva dimensioni fisiche e davvero “infernali”, da cui era possibile evadere soltanto rappresentandola nella sua nudità ed essenzialità. Tanto da proporre / imporre una proiezione analogica totalizzante e una nuova rivisitazione e rilettura – anche cinematografica – della tradizione letteraria, con la Trilogia della vita (Decameron, Racconti di Canterbury, Le mille e una notte), poi rifiutata quando la critica alla società contemporanea lo porterà a una visione totalmente negativa e a un nuovo e più profondo rapporto con Dante. Esiliato fuori dalla sua città l’uno e in povertà, emarginato / esiliato l’altro e per lungo tempo in povertà, osservatori del reale fin nei suoi aspetti più sgraditi entrambi, polemisti ferrei entrambi, intellettuali entrambi, prima intellettuali impegnati poi autoinvestiti della salvezza del mondo come Poeti-vate o –guida, ecc., entrambi necessari cultori del genere dell’invettiva, praticata da Pasolini in più occasioni, dalla famosa poesia sugli scontri degli studenti con la polizia, a Valle Giulia:
Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
E ancora più oltre con la denuncia di un’intera generazione corrotta dal neocapitalismo in Trasumanar e organizzar (1971), con La poesia della tradizione, in forme solo apparentemente meno indignate:
Oh generazione sfortunata!
Cosa succederà domani, se tale classe dirigente –
quando furono alle prime armi
non conobbero la poesia della tradizione
ne fecero un’esperienza infelice perché senza
sorriso realistico gli fu inaccessibile
e anche per quel poco che la conobbero, dovevano dimostrare
di voler conoscerla sì ma con distacco, fuori dal gioco.
Oh generazione sfortunata!
che nell’inverno del ’70 usasti cappotti e scialli fantasiosi
e fosti viziata
chi ti insegnò a non sentirti inferiore –
rimuovesti le tue incertezze divinamente infantili –
chi non è aggressivo è nemico del popolo! Ah!
I libri, i vecchi libri passarono sotto i tuoi occhi
come oggetti di un vecchio nemico
sentisti l’obbligo di non cedere
davanti alla bellezza nata da ingiustizie dimenticate
fosti in fondo votata ai buoni sentimenti
da cui ti difendevi come dalla bellezza
con l’odio razziale contro la passione;
[…]
Io invecchiando vidi le vostre teste piene di dolore
dove vorticava un’idea confusa, un’assoluta certezza,
una presunzione di eroi destinati a non morire –
oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva!
Viene così denunciata tutta la generazione degli anni Sessanta, come quella che nella lotta contro la tradizione e il conservatorismo, secondo Pasolini, rinunciò alla cultura. Come è stato detto, O generazione sfortunata è un’invettiva, ovvero un genere poetico tipicamente dantesco, alludendo a Dante fin dal titolo che cita la Commedia, ma integrando il trasumanar mistico del primo canto del Paradiso nella volontà di esercitare una missione morale e politica.
Anche l’ultima parte della sua opera, e in particolare la ripresa di espliciti progetti di riscrittura della Commedia, confermano una sorta di re-identificazione con Dante, riprendendo la scissione fra Auctor e agens e chiudendo con forte valore simbolico anche la sua vita: La divina mimesis uscirà postumo ma quasi contemporaneamente alla sua morte, mentre nello stesso 1975 era stato girato Salò. Le 120 giornate di Sodoma.
Nel film viene operata un’identificazione con l’Inferno dantesco portata agli estremi dell’attualizzazione, attraverso la commistione con il romanzo di Sade Le 120 giornate di Sodoma e la collocazione nello spazio e nel tempo della Repubblica Sociale Italiana. Mentre la struttura della narrazione è scandita da quattro gironi del tipo dantesco (Antinferno, Girone delle Manie, Girone della Merda, Girone del Sangue), la narrazione segue puntualmente quella del romanzo, da cui trae tutto il repertorio delle più violente patologie sessuali, stimolando le interpretazioni più diverse, laddove egli stesso provvide a chiarire alcuni aspetti fondamentali:
«il reale senso del sesso nel mio film è quello che dicevo, cioè una metafora del rapporto del potere con chi gli è sottoposto. Tutto il sesso di de Sade, cioè il sadomasochismo di de Sade, ha dunque una funzione ben specifica, ben chiara. Cioè quella di rappresentare ciò che il potere fa del corpo umano, la riduzione del corpo umano alla cosa, la mercificazione del corpo. Cioè praticamente l’annullamento della personalità degli altri, dell’altro. È quindi un film non soltanto sul potere, ma su quello che io chiamo “l’anarchia del potere”, perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune. Ma oltre che un film sull’anarchia del potere, questo vuole essere un film sull’inesistenza della storia. Cioè la storia così come vista dalla cultura eurocentrica, il razionalismo e l’empirismo occidentale da una parte, il marxismo dall’altra, nel film vuole essere dimostrato come inesistente… Beh! Non direi per i nostri giorni, lo prendo come metafora del rapporto del potere con chi è subordinato al potere, e quindi vale in realtà per tutti. Evidentemente la spinta è venuta dal fatto che io detesto soprattutto il potere di oggi. È un potere che manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio di culture viventi, reali, precedenti» (Gideon Bachmann: Pier Paolo Pasolini, Polemica Politica Potere, Conversazioni con Gideon Bachmann)
L’Inferno di Dante come rappresentazione del Male, mito e icona attraverso i secoli, viene utilizzato come archetipo di ogni possibile riflessione sul Male e nello stesso tempo, come in molteplici altre occasioni viene ridotto a frammento allusivo alla Tradizione, all’Autorità. Con Salò la proiezione sul presente dell’Inferno e di Malebolge raggiunge i suoi momenti più drammatici; solo l’Aldilà dantesco poteva offrire comparazioni e visioni paragonabili all’inferno in terra della Repubblica di Salò, essa stessa peraltro rappresentazione e allegoria del Potere (il «Palazzo») nel mondo neocapitalista. L’idea di riprendere a scrivere un Inferno contemporaneo è appunto e non a caso degli stessi anni, marcati dalle sue dure polemiche anticapitalistiche e anticonsumistiche, che divengono il centro della sua riflessione e del suo lavoro, sia di artista che di polemista. Quel ruolo di interprete e profeta rivelatore della Crisi della Contemporaneità gli è ormai largamente riconosciuto dal pubblico e dalla critica e lo porta sempre più a riprendere, anche esplicitamente, l’archetipo dantesco:
«Sì. In seguito a queste meditazioni linguistiche mi si è rimessa in moto la fantasia del narratore, e mi è tornata in mente un’idea vecchissima. Scrivere un “Inferno” contemporaneo. Prima doveva essere una donna del mio vecchio “mondo”, “la mortaccia”, che scendeva all’Inferno e lo vedeva dal suo punto di vista. Ora sono io stesso a fare il viaggio. Il mio è un Inferno classico, come quello di Dante: a imbuto, con tanti gironi, e qualche girone nuovo per i nuovi peccati. Un Inferno degli anni Sessanta, popolato di miei contemporanei: amici, personaggi, eroi della cronaca rosa o criminale, capi di governo o di partito, con tanto di nomi e cognomi: una summa eroica e pantagruelica dello spirito contemporaneo».
Ora sono io stesso a fare il viaggio. Il processo di autoidentificazione “distante”, e peraltro appassionatamente partecipe, con Dante diviene totale. La Divina mimesis rappresenta in questo senso un’ulteriore svolta che negli stessi anni coinvolge anche il suo ultimo romanzo, Petrolio. Autore e Personaggio sono presentati ormai sdoppiati, come in Dante, in un modo però che lo stesso Pasolini definisce schizofrenico: è il punto d’arrivo di quella scissione interiore, viva anche sul piano sessuale, tra etica e piacere, volontà intellettuale e pulsioni emotive che lo ha accompagnato fin dagli anni Cinquanta. È ormai riconosciuto come un moderno Profeta, che non a caso si ritiene inascoltato e che ripropone in modo radicale e antagonista la doppia figura dell’Io: nella Divina Mimesis (dove è pure proposto un doppio Paradiso e l’uso della fotografia come strumento narrativo) ma soprattutto in Petrolio, ove Carlo, il protagonista, conteso dopo la morte fra angelo e demonio, viene bipartito e vive una vita doppia e opposta. Se ormai il tempo della possibile sintesi era finito (semmai si fosse rappresentato come un’opzione reale), era ancora possibile, nel 1971, e quasi consequenziale, necessario– non solo identificarsi con la pulsione profetica di Dante, ma proporsi come figura Christi, esattamente come Dante: una dichiarazione che, dopo il suo assassinio non riesce possibile leggere senza rabbrividire, quasi fosse una profezia realmente autoavveratasi. Come Dante dichiara all’inizio del viaggio di non essere “Paolo”, proprio per affermare di esserlo, e per di più per attribuire (anche attraverso la citazione di Virgilio), alla Commedia il valore di una nuova Bibbia, così Pasolini nell’ultima parte della sua vita, da Trasumanar a La divina mimesis, concentra la propria attenzione anche su S. Paolo in quanto costruttore (progettando anche un film su di lui) e quindi, implicitamente, sul proprio ruolo di demistificatore del consumismo e di tutti i rivolgimenti catastrofici e innaturali attribuiti al neocapitalismo, fino a una prefigurazione di imitatio Christi e di martirio che poi corrisponderà tragicamente alla realtà delle persecuzioni di cui fu fatto oggetto e del suo assassinio:
«Cristo è intransigente contro il peccato di qualunquismo, di mancanza di tensione, insomma di rappacificazione facile con la vita […] Il se stesso dello starsene tranquillamente a casa propria, con la moglie, i bambini, nel tran tran del qualunquismo e della bonomia incolori, tende a non portare la croce. Chi porta la croce rischia continuamente la vita, la mette sempre a repentaglio».
La frequentazione dell’inferno, nella realtà e nella visione dantesca, si trasmette alla propria autorappresentazione estrema, di chi come Cristo-Dante porta su di sé la croce dei peccati del mondo: pur se proprio il ritorno a Dante e al suo poema permette al contempo di continuare a sperare nella letteratura, nella scrittura e magari, attraverso S. Paolo, a una possibile ricostruzione: proprio quando la letteratura e il mondo gli appaiono ormai definitivamente in crisi e perduti, Inferno, e la vita possibile gli viene troncata.
Questo articolo fa parte del fascicolo Dante nella modernità della rivista “Critica del testo” (XXIV / 3, 2021).
L'autore
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Roberto Antonelli è Presidente dell'Accademia nazionale dei Lincei e Presidente della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche. Ha coordinato la ricerca UE sul “Canone letterario europeo” e la ricerca PRIN –MIUR sul “Lessico europeo delle emozioni”. Coordina il Metamotore della Lirica romanza medievale, in collaborazione con l’Università della Calabria, di Siena e con l’Opera del Vocabolario C. N. R. Ha tenuto su invito conferenze e lezioni presso il Collège de France, il Centre d’Etudes Médiévales di Poitiers, il Seminario di 3e cycle delle Università svizzere, le Università di St. Andrews, Nantes, Paris IV, l'ETH di Zürich, Bonn, Nürnberg, Köln, Barcelona, Santiago de Compostela, Granada, Rio de Janeiro, Chicago (University of), Notre Dame, Berkeley (USA), Tübingen, La Habana (Cuba), Pechino (Beiwai), Cambridge, Shanghai, oltre che in varie Università italiane (Torino, Milano, Padova, Venezia, Bologna, Firenze, Scuola Normale Superiore di Pisa, Napoli, Chieti, L’Aquila, Bari, Cosenza, Messina, Catania, Palermo, Pavia, Istituto Universitario di Studi Superiori Pavia, Siena, Macerata, Cagliari, Bocconi di Milano, Fondazione Sapegno (Aosta).
Ha studiato origini e sviluppo delle letterature romanze dal Medio Evo all'età contemporanea, con particolare riguardo alla metrica, alla lirica italiana e provenzale e al romanzo anglonormanno, analizzati nella fisionomia ecdotica, nelle strutture formali e nelle relazioni storico-culturali. In tale prospettiva ha studiato anche il ruolo della Filologia romanza e della critica letteraria nella cultura del Novecento, privilegiando lo studio del rapporto tradizione-innovazione e il ruolo degli intellettuali europei nella società medievale e moderna, fino al XX secolo, ma con speciale riguardo ai secoli XIII-XIV, alla Scuola poetica siciliana e a Dante e Petrarca. Ha pubblicato, fra libri e saggi, più di 200 lavori, fra cui il primo commento integrale a Giacomo da Lentini (2008) e il Repertorio metrico della Scuola poetica siciliana (1984). Ha studiato lo sviluppo dell'idea di "Europa" dall'Antichità all'età contemporanea, promuovendo e coordinando ricerche e pubblicazioni sul canone letterario europeo e sul lessico europeo delle emozioni. Ha individuato il ruolo dei rimanti e delle "serie rimiche" nella costruzione del testo poetico e nelle relazioni intertestuali (1977) e proposto una diversa prospettiva teorica e pragmatica per le edizioni critiche (la «Filologia del Lettore»), promuovendo, dal 1992, la “Filologia materiale”. Ha curato e introdotto la traduzione italiana di E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Firenze 1992. Ha pubblicato, in collaborazione con Maria Serena Sapegno, due storie della letteratura italiana (L’europa degli scrittori, 2008, in 7 voll. e Il senso e le forme, 2011, in 5 voll.).
Ha ideato e organizzato la mostra "I libri che hanno fatto l'Europa", Accademia Nazionale dei Lincei-Biblioteca Corsiniana (2016). Ha organizzato e curato per l'Accademia Nazionale dei Lincei, le mostre "Leonardo a Roma. Influenze ed eredità" (2019) e "La biblioteca di Dante" (2021).
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