La Cronica universalis del domenicano milanese Galvano Fiamma (ca. 1283-1345) riserva al lettore delle grosse sorprese, del tutto inaspettate data la fama di scrittore ripetitivo, farraginoso e sostanzialmente inaffidabile che ha circondato (un po’ immeritatamente) l’autore a partire dal Settecento. Nella vasta produzione storiografica di Galvano, per lo più di argomento milanese, la Cronica universalis – incompleta nel manoscritto, e con ogni probabilità incompiuta fin dall’origine – sembra essere una delle opere più recenti, composta non prima del 1340, ed è stata individuata solo di recente. È riportata da un unico manoscritto, prodotto da un copista alla fine del Trecento, una cinquantina di anni dopo la stesura del testo da parte dall’autore; il codice si trovava fino alla fine del Settecento a Milano, da ultimo nella biblioteca del monastero di Sant’Ambrogio, ma andò poi disperso ed è conservato oggi negli Stati Uniti in una collezione privata.
Grazie alle fotografie del manoscritto, che il proprietario ha gentilmente permesso di effettuare, il Dipartimento di Studi Letterari Filologici e Linguistici dell’Università di Milano ha avviato un progetto didattico che ha coinvolto una decina di studenti, per lo più magistrali; essi hanno progressivamente trascritto il testo e indagato le fonti, come punto di partenza per un’edizione critica dell’opera, che verrà realizzata nei prossimi anni. Partita senza particolari aspettative (a uno sguardo superficiale la Cronica universalis non sembra diversa dalle molte opere analoghe che circolavano all’epoca, coacervo ripetitivo di notizie precedenti di fonte erudita), la trascrizione ha invece portato alla luce alcuni passaggi di straordinario interesse dal punto di vista storico e geografico. Ci piace sottolineare che le risultanze per la ricerca sono associate, nella genesi del progetto e nel suo sviluppo, a una finalità didattica, in un intreccio delle due dimensioni che dovrebbe essere il segreto dell’università, ma che non è in genere facile realizzare; in questo caso è stato possibile, grazie a una serie di fortunate circostanze, e l’emozione per tutti è stata grande.
Anche nella Cronica universalis di Galvano, come comunemente avviene in questo genere letterario, la narrazione intreccia aspetti propriamente storici con informazioni di carattere geografico. All’interno del terzo libro (dei quattro che possediamo) Galvano si lancia in un lunghissimo excursus sull’abitabilità delle terre dal clima non temperato, con il tono di chi vuol dire la sua all’interno di un dibattito che era vivissimo all’epoca. La sua posizione è decisamente a favore dell’abitabilità anche delle regioni estreme, e a sostegno sono prodotte numerose auctoritates: scrittori antichi, enciclopedisti medievali, trattati geografici e cosmologici. All’interno del lotto, però, Galvano non disdegna di comprendere anche fonti diverse, diremmo oggi ‘esperienziali’, che parlavano di terre freddissime o torride, ma cionondimeno abitate; e in questo contesto inserisce un clamoroso riferimento a una terra situata a ovest della Groenlandia, di cui parlano non i libri, ma i marinarii:
Et dicunt marinarii qui conversantur in mari Datie et Norvegye quod ultra Norvegiam versus tramontanam est Yslandia. Et inde est insula dicta Grolandia… Inde versus occidens est terra quedam que dicitur Marckalada, ubi gigantes habitant et sunt hedifitia habentia lapides saxeos tam grandes quod nullus homo posset in hedifitio collocare nisi essent gygantes maximi. Ibi sunt arbores virides et animalia et aves multe nimis. Nec umquam fuit aliquis marinarius qui de ista terra nec de eius condictionibus aliquid scire potuerit pro certo [I marinai che percorrono i mari della Danimarca e della Norvegia dicono che oltre la Norvegia, verso settentrione, si trova l’Islanda. Più oltre c’è un isola detta Grolandia…; e ancora oltre, verso occidente, c’è una terra chiamata Marckalada. Gli abitanti del posto sono dei giganti: lì si trovano edifici di pietre così grosse che nessun uomo sarebbe in grado di metterle in posa, se non grandissimi giganti. Lì crescono alberi verdi e vivono moltissimi animali e uccelli. Però nessun marinaio è mai riuscito a sapere notizie certe su questa terra e sulle sue caratteristiche].
La Marckalada citata in questo brano corrisponde, per posizione e caratteristiche – l’aspetto boscoso, la presenza di animali – alla Markland di cui parlano la Saga di Eirik il Rosso e la Saga dei Groenlandesi, i due celebri testi norreni che narrano della ‘scoperta dell’America’ da parte di navigatori vichinghi. Secondo questi racconti, piccole spedizioni partite dalla Groenlandia a ridosso dell’anno 1000 raggiunsero delle terre situate più a ovest (identificate con il Labrador o Terranova); le emergenze archeologiche e alcune più tarde notizie in cronache islandesi confermano questa presenza, che non assunse mai carattere di una colonizzazione stabile e che sembra essersi limitata all’impianto di modeste basi commerciali. Quello di nuovo che ci porta Galvano è il fatto che notizie su terre oltreoceaniche, mediate da racconti orali di fonte marinaresca (dicunt marinarii), circolavano anche al di fuori dell’area scandinava, dove sembravano finora confinate. La prima (e per il momento unica) menzione dell’America in area mediterranea, perciò, centocinquant’anni prima di Colombo.
La notizia diventa ancor più suggestiva – fin troppo suggestiva, tanto che bisogna evitare di correre a conclusioni affrettate – se si considera qual è la probabile fonte di Galvano. Chi sono quei marinarii? Da dove provengono quelle notizie? (Non solo quelle eccezionali su Markalada, ma anche quelle più dettagliate sulla Groenlandia, che abbiamo omesso per brevità ma che non sono meno sorprendenti, nell’Italia del Trecento). Un’altra pagina della Cronica universalis indirizza verso Genova; abbiamo motivo di pensare che Galvano ricevesse notizie dal porto di questa città, e che in tale ambiente – molto prima di Colombo, ma dove poi crebbe Colombo – circolassero voci sull’esistenza di terre oltreoceaniche. Frenare la fantasia, appunto, perché l’intrigante conclusione che Colombo avesse sentito anche lui quelle voci, un secolo dopo, e che gli avessero suggerito l’idea di viaggiare oltre l’Atlantico, non ha nessun altro fondamento che la coincidenza geografica.
Perché proprio Genova? A questa città, e specificamente al suo porto, riconduce una seconda e molto più lunga notizia che si ritrova in un altro punto della Cronica universalis. Dopo i climi freddi Galvano passa a trattare dei climi torridi, e per dimostrare che anche qui è possibile vivere porta l’esempio di quanto accade in una terra chiamata Ethyopia. Lui è bene informato, ci dice, perché ha letto un Tractatus scritto dal prete del porto di Genova, in cui si trovano notizie di primissima mano; un’opera per noi perduta, ma che Galvano riferisce dettagliatamente, a quanto sembra per larga parte alla lettera. Il Tractatus raccontava che, in un anno che si può collocare fra il 1312 e il 1315, era giunto a Genova un gruppo di persone che si qualificavano come ambasciatori dell’imperator Ethyopie, inviati a un rex Yspanie per stringere un’alleanza antimusulmana; l’ambasceria era fallita perché nel frattempo il suo destinatario era morto, ma quegli uomini, passando per Genova, avevano dato ampi ragguagli sulla loro terra, che il prete aveva trascritto. L’Ethyopia, dicevano gli ambasciatori, era sede di un grande e potente regno cristiano, con precisa organizzazione feudale ed ecclesiastica; si praticavano riti analoghi a quelli romani, anche se non identici; vigeva un protocollo diplomatico accuratamente descritto; esistevano conflitti con i vicini principati musulmani; si praticavano pellegrinaggi, si adorava la croce, si veneravano certi apostoli e santi. Un’immagine dettagliata di una terra civile e cristiana, che ben corrisponde a quanto sappiamo dell’Etiopia dell’epoca, ma di segno opposto a quanto unanimemente attestava la tradizione geografico-enciclopedica occidentale della tarda antichità e del medioevo, che descriveva l’Etiopia come una tenebrosa terra di mostri, belve e barbarie, se non proprio di demoni. La lunga notizia di Galvano, ancora da studiare nelle sue implicazioni come fonte storica, rappresenta la prima menzione di un regno cristiano nell’Africa orientale nell’enciclopedismo latino, ed è la più antica testimonianza di un contatto fra Europa occidentale e quella regione nel corso del medioevo; ci si può chiedere se lo spostamento dell’immaginario regno del Prete Gianni, che proprio da questo periodo viene situato in Africa abbandonando la tradizionale dislocazione asiatica, non risenta di questo contatto.
Sappiamo chi era il prete del porto che aveva fornito notizie a Galvano. Si chiamava Giovanni, veniva da Carignano – oggi un sobborgo di Genova – ed è celebre come geografo: a lui si deve una mappa d’Europa, del Mediterraneo e delle regioni limitrofe che vari studiosi considerano un punto di svolta nella storia della cartografia occidentale. In questa mappa (distrutta nella seconda Guerra Mondiale, ma visibile in riproduzioni fotografiche precedenti) Giovanni introdusse informazioni tratte dall’esperienza diretta di viaggiatori e mercanti: segno evidente per l’interesse di questo genere di fonti, e del desiderio di valorizzarle all’interno di strumenti geografici di avanguardia. Anche Galvano utilizza le mappe: ci parla due volte di una mappa Ianuensis, più ampia di quella di Giovanni da Carignano perché comprendeva anche l’Asia, che descrive come se l’avesse in mano; e in un punto della Cronica universalis inserisce uno schema cosmologico, dove sono tracciati i principali paralleli e i nomi dei venti, espressi tanto nella forma scientifica di ascendenza classica (favonius, eurus, vulturnus…) sia nella forma usuale della tradizione marinaresca (suroch, lebeg, grecho…, i nostri scirocco, libeccio, grecale…). Al centro dello schema è posta Arin, la misteriosa località che la geografia araba, sulla scorta di quella indiana, identificava come il centro astronomico del mondo. Una commistione inedita di elementi di origine diversa, che riconduce nuovamente a un ambiente dove scienziati e marinai si scambiavano informazioni, traendone reciproco vantaggio.
Galvano infine ci fornisce una nuova notizia su una delle vicende più affascinanti nella storia della marineria, non soltanto medievale: la celebre spedizione ‘dei fratelli Vivaldi’, secondo il nome attribuito ai comandanti da quella che era finora la fonte principale, e per certi versi unica, dell’episodio, il cronista genovese Iacopo Doria. Iacopo racconta che nel maggio 1291 due navi salparono da Genova puntando verso occidente, ut per mare occeanum irent ad partes Indie; passarono lo stretto di Gibilterra e furono avvistate per l’ultima volta a Gozora, una località sulla costa atlantica del Marocco, e poi non se ne ebbero più notizie. Un episodio pionieristico e misterioso, che ha suscitato romantici interrogativi: qual era esattamente la rotta prevista? Raggiungere l’India circumnavigando l’Africa, come avrebbe fatto duecento anni dopo Vasco da Gama, o attraversando l’Atlantico, come avrebbe fatto Colombo? E quale fu la sorte della spedizione? Galvano ci sorprende di nuovo, presentando un’altra versione dell’episodio, possiamo credere ricavata ancora dal Tractatus del prete del porto. A parte alcuni dettagli diversi – il più importante è il nome del comandante: il notabile genovese Uberto di Savignone, non un Vivaldi –, quello che cambia davvero è la conclusione del viaggio. Le navi non fecero naufragio, dice Galvano: i marinai, finite le vettovaglie, sbarcarono, si diedero al saccheggio e finirono catturati dalle guardie dell’imperator Ethyopie; questi, accertato che erano cristiani, li riempì di onori e concesse loro di rimanere nel suo regno. Non tornarono indietro perché non se la sentivano di affrontare di nuovo un così pericoloso viaggio; ma gli ambasciatori dell’imperator Ethyopie, quando passarono da Genova, raccontarono di averli conosciuti.
La vicenda – o, se vogliamo, il mistero – dei ‘fratelli Vivaldi’ si arricchisce perciò di una nuova testimonianza, di valore non molto inferiore a quella di Iacopo Doria: di qualche decennio più tarda, ma risalente a una fonte molto ben informata e, se davvero si tratta di Giovanni di Carignano, contemporanea all’evento. La notizia di una sopravvivenza dei naviganti in Etiopia riappare in testi più tardi, in modo ancor più romanzato e fuggevole: poco verosimile sul piano storico, si tratterà di una leggenda consolatoria, a vantaggio delle famiglie dei dispersi e della celebrazione cittadina di un evento mirabile non solum uidentibus sed etiam audientibus, come dice Iacopo Doria. Talmente mirabile che, alcuni studiosi pensano, Dante potrebbe averne tratto ispirazione per l’episodio di Ulisse.
L’insieme di queste notizie assegnano a Genova un ruolo centrale, anche più importante di quanto si ritenesse finora, nella trasmissione dei saperi geografici nel basso medioevo: come luogo di contatto e di osmosi fra tradizioni diverse, classiche, erudite, marinaresche. Riaffermano altresì l’alto grado di ricezione delle notizie esperienziali all’interno della trattatistica scientifica medievale, con le prospettive epistemologiche che ne conseguono. Non da ultimo, stimolano a riprendere e valorizzare gli studi sulle cronache trecentesche, un genere letterario spesso trascurato per la scarsa attrattività di questi testi (di frequente lunghi, farraginosi, mal scritti, ripetitivi). In queste stesse pagine di Insula Europea è stata recentemente presentata un’altra ‘scoperta’ all’interno di una cronaca, quella della mano di Petrarca nell’Historia imperialis di Giovanni Mansionario, individuata da Monica Berté; a riscontro delle potenzialità di un campo di ricerca che ci pare ancora ampiamente sottovalutato.
Nota bibliografica
I primi risultati della ricerca sono esposti in questi nostri articoli: «Ystorie Biblie omnium sunt cronicarum fundamenta fortissima». La «Cronica universalis» di Galvano Fiamma (ms. New York, collezione privata), «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo» 118 (2016), pp. 179-216; Galvano Fiamma e Giovanni da Carignano. Una nuova fonte sull’ambasceria etiopica a Clemente V e sulla spedizione oceanica dei fratelli Vivaldi, «Itineraria» 17 (2018), pp. 63-107; The «Hystoria Ethyopie» in the «Cronica universalis» of Galvaneus de la Flamma (d. c. 1345)», «Aethiopica» 22 (2019), pp. 7-57 (scritto insieme a Alessandro Bausi); Marckalada: The First Mention of America in the Mediterranean Area (c. 1340), «Terrae incognitae» 53/2 (2021), pp. 88-106.
L'autore
- Paolo Chiesa insegna Filologia mediolatina all’Università di Milano “La Statale”. Si è occupato in prevalenza della trasmissione di testi latini del medioevo. Ha pubblicato fra l’altro edizioni critiche delle opere di Liutprando di Cremona, del De magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva, dell’Itinerarium di Guglielmo di Rubruk, nonché edizioni commentate della Vita Karoli di Eginardo e (con Andrea Tabarroni) della Monarchia di Dante.