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Paola Laskaris intervista Miguel Ángel Curiel

Entrevista en español

Federico García Lorca in un frammento inedito affermava che: “Si possono raggruppare i poeti a seconda dell’elemento naturale che amano o preferiscono e si può misurar il loro valore sulla base del dominio che hanno nell’esprimere quell’elemento o per la loro capacità respiratoria di subacquei”. Nelle tue poesie terra, acqua, aria e fuoco acquistano un significato originale e primordiale; poesia degli elementi, del cosmos. Il mondo naturale prende forma davanti ai nostri occhi e lo riconosciamo nei suoi odori, colori, rumori. Tuttavia, la tua non è una poesia ‘descrittiva’; la natura si scompone, si spoglia, si depura, si fa essenziale. Come definiresti la tua relazione con l’ambiente che ti circonda? Con quale elemento senti di avere più affinità?

Credo che si tratti di una domanda essenziale e importante in riferimento alla mia scrittura poetica. Così importante che è difficile rispondere in modo semplice. Il poeta è in un certo senso come l’uccello, ma non è l’ornitologo, l’uccello canta e vola, ma non può spiegare perché canta e vola, e l’ornitologo può avanzare in proposito solo qualche congettura, che la maggior parte delle volte rischia di essere sbagliata. In un certo senso tutto il mio dramma poetico si sviluppa all’aria aperta, sotto il cielo, se il pathos fondamentale della mia poesia è la morte, lo spazio della natura, gli spazi in aperta campagna mi suggeriscono o mi offrono tutti i materiali necessari per il racconto poetico che nasce da questa strana ossessione per quella dialettica così essenziale e umana che si produce tra la vita e la morte. Perciò l’osservazione è fondamentale, ma mentre stai osservando l’orizzonte o una montagna, o la linea di un sentiero che attraversa uno spazio sinuoso, o il corso di un fiume, in fondo in qualche modo stai osservando te stesso, tutto può partecipare di questa strana allegoria: tu sei il paesaggio, tu sei o stai in tutto questo, e allo stesso tempo vivi il dramma, vivi dentro al testo poetico, il testo allora è più reale di te, perché in qualche modo tu trascendi in esso. Un esempio di questo sarebbe ciò che espongo qui di seguito: l’aria è il mio amore per le cose, direi che è così, si muovono, il mio amore e la mia ira la muovono, non s’infrangono nell’aria, si muovono da soli e non si vede l’aria. Oppure quest’altro esempio: come gli alberi pieni di neve sono stato in tutte le cose, ma le parole non fanno ombra, né hanno un corpo, sono il Tamashī, l’occhio marcisce guardandole. Credo che la mia poesia, o piuttosto la mia poetica nasca dall’osservazione e allo stesso tempo dal senso di meraviglia e immersione che sperimento negli spazi aperti.

Un aspetto fondamentale della tua poesia è il suo carattere fluido o liquido. Il suo scivolare da un libro all’altro senza soluzione di continuità. Un tuo libro non è mai qualcosa di chiuso, definito o definitivo. È un’entità viva che si rinnova costantemente alimentandosi di vecchie e nuove visioni e parole. I tuoi libri El agua ed Eulalia sono un esempio di questo processo di metamorfosi del testo. Qual è la tua relazione con la scrittura e la riscrittura?

Intendo la mia scrittura poetica, la mia poetica, non la mia poesia – il poeta alla fin fine non possiede nessuna poesia, né la poesia, non c’è nessuna relazione di possesso tra loro, al massimo il denominato poeta può essere un operaio, qualcuno che opera attraverso una poetica all’interno della realtà del mondo, ed è lì, in quella realtà in cui le poète, attraverso la sua scrittura poetica cerca in qualche modo di arrivare alla fatalità o a ciò che erroneamente chiamiamo poesia; il poeta non scrive mai poesia, ma sì scrive attraverso una poetica, una realtà del mondo –, io intendo questa poetica, la mia, come un processo, la scrittura del libro, non dei libri, un solo libro che si va formando, che si va scrivendo, che è vivo, questo libro si pubblica in parti e ogni certo tempo. Devo anche ammettere che non sono sempre stato cosciente di ciò, me ne sono reso conto a metà del processo e mi ha sorpreso.

In una poesia recente che ho cominciato con una citazione da San Giovanni della Croce “Come riconosco la fonte che sgorga e scorre, anche se è notte!” Questo è il lemma, il libro, la scrittura è la fonte che non smette di sgorgare, la notte la congiunzione di luci lontane. Questa oscurità sarebbe humus, terra, lascia intravedere ciò che è lontano, per te una specie di anima, la sfera sono pianure, al contrario, scompari in esse ed esce l’uccello dalla pietra, e giunto in alto esplode in un blu morte, come la collezione di luci di Caballer, anche il sole si muove, si denuda un uomo di fronte a una donna, cose le dice una volta che ha lasciato a terra i vestiti – non può muoversi, non esiste il movimento – si è levato le scarpe, sta in silenzio, apre molto la bocca perché lei veda il sole dentro, lei ora porta il soprabito di lui, le è grande, cammina verso la finestra e lo trascina, l’orlo si riempie di polvere, si sente minacciata, le quattro parole che riescono a dirsi sono nere, il silenzio si rompe contro le pareti, la finestra, la pioggia, i limiti, alla fine lei dice lì, finiscono sempre per bruciarli quei campi, lo chiamiamo amore, li bruciano, nessuno accorre, si spengono da soli, il mare è rimasto schiacciato dal cielo, è scuro, non è luce che gli dei dimenticano tra le maniche di gialla cenere, è inchiostro e l’oscurità stessa in cui il giorno si è addentrato in me nell’attraversare il Royal red and blue di Rothko, quel rosso ardente era infinito, alla fine veniva il blu spento, e dopo qualche giorno il futuro, mi ha chiamato al telefono: piove all’inferno, tutti i giorni sono un inferno di pioggia, ecco perché l’orografia è importante, soprattutto quando il mondo si è bruciato in successivi incendi, ora puoi riconoscere con lo sguardo come fu tutto al principio, era così, e lo sarà ancora per molto tempo, si vedono i giganti mossi da onde di ultrasuoni, non sono lenti come sembrano, un loro passo ne vale cento dei tuoi, cadono e li solleva il tempo, e si sollevano le nubi di polvere al cadere a terra dei giganti, finché non si posa la polvere nera trascorre un intero inverno, l’assenza di gravità nelle case degli amanti sconosciuti, non ci sono mari, le ondulazioni del terreno e le creste di rocce scomposte, sono già saturo di passato, sembra un tempo che si brucia da solo, è un unico rilievo modellato dalla strana forza della speranza, quando smisi di scrivere sulla pista di atterraggio me ne andai, l’uomo che mi sorvegliava, il padrone del tempo mi seguì durante tutto il viaggio di ritorno, non fui mai capace di vederlo, non mi sono mai voltato indietro per vedere com’era, ma lo si sentiva: sono io che ti detto e ti sorveglio, in quel momento io stavo ormai uscendo dal Royal red and blue di Rothko e mi abbagliò il sole forte del mattino. Un libro non finisce mai, io scrivo solo un unico libro. È così che lo sento.

Si è soliti pensare che la poesia fissa l’istante e supera il tempo nella misura in cui rende eterno il momento. Nel tuo caso mi sembra di assistere ad un processo molto più complesso, poiché il testo è sottoposto al tempo del suo creatore, che torna su ciò che ha scritto e, cambiandolo, lo devia dalla sua linea e gli assegna un’altra traiettoria, prolungando la sua caducità, fino a quando quella stessa mano non stabilisca un altro inizio e torni a plasmare un’altra forma, a tracciare una nuova rotta. Cioè nella tua poesia il valore eternizzante della parola poetica non ha a che vedere con l’inamovibile fissità del testo, ma piuttosto con la sua stessa mobilità. È un tempo circolare più che lineare. Qual è la tua relazione con il tempo reale e poetico?

Credo che questa sia una relazione incosciente, non è programmata, anzi si produce in modo casuale, è il risultato di un processo che io non domino, poiché la scrittura, la poetica in cui mi addentro finisce per dominarmi: in questa poesia intitolata Principio si percepisce questa relazione tra temporalità e atemporalità a cui tu così acutamente alludi:

Principio

Alla fine
del libro diceva –tu– mentre
parlava
di se
stesso
si asciugò,

in lontananza brilla il mare,
vai,
su.

Principio e fine in questa poesia si sono trasformate alla fine nello stesso spazio: ciò che tra quel principio e quella fine è contenuto è tutta una vita, fa riferimento anche alla atemporalità temporale della scrittura di un libro, quel libro è tutta l’esistenza di qualcuno, di chi lo scrive, di chi lo vive. Avremmo potuto scambiare il principio per la fine: nelle mie poesie il tempo scorre sia in avanti che all’indietro, avanza nella misura in cui retrocede: la dimensione visionaria ha bisogno di un tempo circolare: nella poesia, nelle mie poesie, il tempo gira, lo strano levogiro dell’esistenza misura il tempo della memoria.

Un’altra cifra stilistica della tua poesia è la libertà della parola, che – man mano che si libera dalle briglie della sintassi, della grammatica e della norma –, si fa fluida, enigmatica ed essenziale. La tua lingua poetica non arriva solo a plasmare la realtà esteriore ma la pronuncia, le dà una forma acustica precisa. Nella tua poesia si mescolano spesso diverse lingue, in un dialogo di sovrapposizioni e giustapposizioni (tedesco, italiano, latino, inglese, francese, giapponese, ecc.) Quale impulso di spinge a viaggiare attraverso le molteplici geografie della parola?

Non lo so con esattezza. Succede che il processo di scrittura si mantiene vivo grazie all’estrema libertà con cui uno lo intraprende: se non mi sorprende mi annoio. Molte volte devo affrontare il testo poetico con un grado di astrazione: in questo modo la poesia legge meglio il cielo; il cielo, o campi che girano, le poesie sono rifrazioni, le goût de la mer en le sel du mal, guida la rondine di mare, quei fiori sono frecce, in linguaggio alpino Pfeilen, il resto concime, colpa. Emily Dickinson scrisse che il poeta accende la luce e poi svanisce. Ma la luce continua e continua. La poesia può spegnersi da sola, ma tu, io, crediamo di gettare in essa le parole che non finiranno mai di ardere.

Nei tuoi libri di poesia si alternano alcuni testi in versi brevi che si stagliano con piglio assiomatico nella purezza diafana della pagina, ed altri che occupano l’intero spazio tipografico a disposizione, fingendo una prosa che è solo un miraggio, perché continua ad avere un ritmo poetico intrinseco che lo distanzia da ciò che comunemente si definisce “prosa poetica”. Come definiresti i testi come “Saudade”, “La festa” o “Un lungo muro” che appaiono nel libro L’acqua?

Oggi direi, ma forse non domani, che si tratta di testi di indagine, di ricerca, quella ricerca ha bisogno di un maggiore sviluppo, una scrittura che vuole distendersi, che non sa quando fermarsi, che ha bisogno di raccontare qualcosa, che nasce precisamente dallo stupore che produce l’esistenza, anche in questi testi c’è una festosità di fondo, e questa componente gioiosa deve essere condivisa, ha bisogno di essere ascoltata e contemplata: oggi la penso così, ma come accade con i temporali notturni, quando apri ad essi la porta, non puoi guidarli, muoiono da soli. A volte bisogna scrivere godendosi l’esperienza stessa del vivere.

Si percepisce una profonda spiritualità in tutta la tua opera; dai tuoi versi affiora una specie di simbolismo mistico e panteista. È così?

Sì, e ogni giorno di più sono un uomo religioso in quanto la mia religione è la poesia: per me la poesia ha un profondo senso religioso, è una religione in sé: mi fa capire meglio il mondo, sgorga da un profondo mistero dove non ci sono più dei: ma il misticismo a cui gioco, quello in cui voglio vivere è a sua volta un misticismo causale e per nulla religioso, solo profondamente umano. Guardando il cielo sente i miei piedi ancorati alla terra. In un certo senso intendo le mie poesie come una preghiera, al nulla?

Alda Merini, che tu conosci e apprezzi, ammoniva a non cercare di afferrare i poeti “perché vi sfuggiranno tra le dita”. Un po’ come l’acqua, no? Potresti definire il tuo modo di essere e sentirti poeta?

L’ho sempre definito a partire dalla meraviglia dell’esistenza, e vivo con intensità quello stupore dell’esistenza a partire da una radicale sensazione di appartenenza. L’esistenza mi sembra meravigliosa e strana. Mi considero un poeta nella misura in cui lavoro con le parole lussate, una poesia, la caduta elicoidale del nulla è guidata dallo sbieco delle nostre parole.

C’è come una visionaria pazzia nelle tue poesie; quella straordinaria capacità di vedere ciò che gli altri non percepiscono o lo fanno solo parzialmente. Come Don Chisciotte sei un poeta errante che cerca di condividere il suo mondo reale e onirico con gli altri. Come vivi questa condizione ‘privilegiata’ ed enigmatica?

Credo che quella pazzia a cui alludi sia piuttosto una strana lucidità: anno di siccità libero dal peccato, l’occhio guercio del cielo, magia stelle marine, la forma non importa, ogni principio è veloce. Senza movimento non c’è quiete.

La cosa che più sorprende della tua voce poetica è il suo carattere allo stesso tempo singolare e universale; il suo nuotare controcorrente rispetto a gruppi, etichette, tendenze e generazioni. Qual è la tua relazione con la poesia contemporanea?

È totale, sono un poeta contemporaneo, ma non sono un poeta gregario. In questo senso il mio maestro è o è stato José Ángel Valente, ed altri poeti di quella stirpe. Nella poesia si può stare unicamente da soli, ma questa solitudine in relazione a gruppi e generazioni non è stata una scelta voluta o un’imposizione a me stesso. Me la sono procurata in modo naturale, è connaturale a come intendo la scrittura poetica. Ho amici che scrivono anche loro, ma per la maggior parte anche questi amici sono soli: arcipelaghi di amici.

Ángel Luis Luján, parlando del tuo libro L’Acqua, afferma che “ciò che la tua poesia ci rivela non può essere mostrato in altro modo; ciò che attende il lettore è un’esperienza unica, e forse la sua unica salvezza”. La poesia può essere una forma o uno spazio di salvezza?

A volte credo o penso di sì, che possa arrivare ad avere questa qualità, ma subito mi rendo conto che non è possibile, che ci aiuta appena a salvarci, e allora mi chiedo di nuovo: salvarci da cosa? C’è qualcosa da cui l’uomo debba salvarsi? La poesia ci sta costantemente salvando dall’istante, solo dall’istante, ma l’accumulazione di istanti, di minuscole salvezze di istanti non ci salva per niente del tutto. Non esiste ciò che chiamiamo salvezza, esiste la consolazione. E questo può forse consolarci? La attenzione assolutamente pura e senza inclusioni è preghiera diceva Simone Weil. A lui consegnavano le ultime parole del mondo, al dio delle tenebre, alla fine del viaggio queste facevano luce, alle sue spalle la notte numero 14 del millenovecentosessanta, cozzare di ciottoli e scintille in cielo, per colui che curava con le parole le sue non erano una guarigione, né quelle degli altri, pro-curava non ferire, non fare danno con esse, le ultime parole del mondo si bruciavano in fretta nell’aria, non ferivano Margarite, ma l’aria non mi sosteneva nell’aria, non mi sosteneva, non ho nemmeno voluto cancellarmi del tutto scrivendo le mie miserie, una riga che separi questo da quello, la cosa terribile della riga è il suo inizio e la sua fine, ma l’aria non mi sosteneva nell’aria, una riga più lunga possibile, e mi sento bene con la mia ombra dall’altro lato della riga, poi faccio dei passi indietro, ma l’aria non mi sosteneva nell’aria.

L'autore

Paola Laskaris
Paola Laskaris
È professoressa di Letteratura spagnola all’Università degli Studi di Bari. I suoi interessi gravitano attorno alla poesia e al teatro del Siglo de Oro e dell’epoca contemporanea. Ha pubblicato tre libri di poesie in spagnolo: Ecdótica del amor (Sial Pigmalión, 2014, con prologo di José Lucía Megías), Período (hipotético) (Amargord, 2017, con prologo di Agustín Calvo Galán) e Horizonte inerte (Madrid, El sastre de Apollinaire 2019). Traduce poesia dal e al castellano. Tra le sue traduzioni – oltre alle antologie degli incontri di poesia “Nací el 21 en primavera...” che organizza biennalmente a Bari (La rosa inalcanzable, Sentieri meridiani Edizioni) – si ricordano: Giovanni Caravaggi, Desde las riberas /Dagli argini (Madrid, Legados, 2014; traduzione dall’italiano allo spagnolo); Aurora Luque, Los limones absortos. Poemas mediterráneos (Fundación Málaga, 2016); Miguel Ángel Curiel, Fábrica de la seda / Fabbrica della seta (El sastre de Apollinaire, 2017 e Zaragoza, Pregunta, 2019 – seconda edizione); Mar sin fronteras. Antologia liquida di poesia spagnola contemporanea (Bari, Stilo Editrice, 2020).

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