Introduzione
Quando pubblicai, nel lontano 1998, come abbozzo didattico, sulla rivista «Nuova Secondaria» della Editrice La Scuola (di Brescia), il mio primo studio sulla Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini, in pochi, a quel tempo, si occupavano del Pasolini dantesco. Da allora, ho continuato a riflettere sui nodi critici della Divina Mimesis, a cominciare dal perché sia rimasta opera non finita. Nella Divina, infatti, Pasolini ri-scrive (soltanto) alcuni canti (e nemmeno per intero) dell’Inferno dantesco. Precisamente, i canti I-IV e VII, abbandonando quel suo (ambizioso) progetto in forma di appunti e frammenti in prosa, tutti risalenti agli anni 1963 – 1965. Pasolini stesso, in una intervista del 1962, definì tutto questo materiale, al quale, evidentemente, stava già lavorando, come un «poema satirico in prosa», facendo riferimento anche a La Mortaccia, da considerare, quindi, incunabolo della Divina Mimesis. Nella Mortaccia, infatti, una prostituta affronta il viaggio infernale, come conseguenza di una suggestione scaturita dalla lettura di una versione a fumetti dell’Inferno di Dante.
Pasolini sarebbe tornato a parlare pubblicamente della Divina Mimesis nel 1974, a settembre di quell’anno, nell’ambito di una festa provinciale dell’Unità. A distanza di un decennio, evidentemente, aveva ripreso in mano quel vecchio progetto, ripensandolo e modificandolo, sotto l’incalzare della mutata realtà italiana, politica e culturale, rispetto al decennio precedente. E dopo aver girato, nel 1971, il Decameron, primo dei tre film dedicati alla così detta trilogia della vita (I racconti di Canterbury nel 1972, e Il fiore delle Mille e una notte nel 1974).
Al tempo di quel mio primo abbozzo di natura didattica sulla Divina Mimesis, restavo convinto che, oltre a una scelta di tipo estetica, in favore di una predilezione tutta pasoliniana per il non finito, la Divina Mimesis restasse in forma di «superba ruina», molto probabilmente, per il tragico evento della uccisione dell’autore, intervenuta nella notte tra il primo e il 2 novembre del 1975. L’opera uscì, infatti, postuma nel dicembre del 1975, per la casa editrice Einaudi. Oggi, dopo anni di studio e di riflessioni, ma anche alla luce della nutrita bibliografia pasoliniana, che, nel frattempo, ha preso a occuparsi anche di quest’opera dantesca di Pasolini, mi sono convinto che la Divina Mimesis sia rimasta incompiuta non per ragioni, come dire, pratiche, legate cioè alla mancanza di tempo, per la tragica scomparsa dell’autore, bensì per una sua ben precisa scelta artistica. A questo proposito, sul non finito pasoliniano, mi piace citare Filippo La Porta, che, in un recentissimo intervento, ha chiarito il senso autentico della natura “saggistica” dell’opera creativa di Pier Paolo Pasolini, e cioè di “assaggio”: «nell’opera di Pasolini tutto si presenta in forma incompiuta e instabile. Non per l’adesione a una ideologia letteraria (meno che mai “avanguardistica”), ma perché tale instabilità coincide per lui con la forma stessa della vita. Appunti, bozze, scalette “cantieri”. Tutto si offre come “saggio” (nel senso di assaggio)» (F. La Porta, Il narratore di se stesso, in le Repubblica, Robinson, numero speciale del 26.02.2022, n. 273, p. 29).
Per un profilo complessivo sull’opera e sul ruolo svolto da Pier Paolo Pasolini, nell’Italia del secondo dopoguerra, tra ricostruzione post-bellica e contraddizioni, fino alle prime avvisaglie di quegli anni che, poi, saranno definiti «di piombo», caratterizzata dalla contestazione e dall’affacciarsi della stagione del terrorismo, suggerisco di Filippo La Porta, Pasolini, edito da il Mulino, nella collana dei Profili di Storia Letteraria diretta da Andrea Battistini.
Segnalo, pure, una recente lettura interpretativa della Divina Mimesis, a opera di Alessandro Gnocchi, L’inferno di Pasolini, che la inserisce nel contesto largo dell’intera produzione pasoliniana, con particolare attenzione per il gran cantiere Petrolio, e, soprattutto, fornisce uno spaccato sociologico dell’Italia di quegli anni.
Tra il 1971 e il 1974, Pasolini fu impegnato, sul versante cinematografico, con il così detto ciclo della «Trilogia della vita», o «Trittico della vita», come ho già scritto, con la realizzazione di ben tre film: 1. Decameron (1971); 2. I racconti di Canterbury (1972); 3. Il fiore delle Mille e una notte (1974). Un progetto cinematografico nato già verso la fine degli anni Sessanta, che impegnò, evidentemente, Pier Paolo Pasolini non poco, come era nel suo stile, accurato e filologico, con letture ad ampio raggio, delle e sulle opere di riferimento, sugli autori, di quei tre rispettivi capolavori della letteratura mondiale, dai quali stava attingendo idee e soggetti per questi suoi film. Apparentemente distanti da presente storico, in realtà, questi tre film rappresentavano la sua risposta alla borghesia neocapitalista degli anni Sessanta-Settanta, ipocrita e violenta, braccio armato di quel progresso senza civiltà, che Pasolini denunciava in tutte le sedi. Una borghesia neocapitalista che, tra le altre cose, giudicava il sesso come mera manifestazione di oscenità. Pasolini, pertanto, pensò proprio a un ciclo cinematografico che, al contrario, esaltasse del sesso l’aspetto più gioioso e vitale, condannando, nel contempo, l’ipocrisia della classe dominante. Le pellicole, infatti, alla loro uscita, furono sequestrate e, poi, dissequestrate, e il regista fu portato in tribunale, aggiudicandosi, però, a livello internazionale riconoscimenti, premi e gran successo di pubblico.
Sono convinto che il Dante che emerge dalla Divina Mimesis, così come essa ci è stata consegnata dall’autore (nell’edizione postuma, Einaudi, del 1975), sia, in realtà, per molti aspetti, un Dante fortemente influenzato da Giovanni Boccaccio, dallo scrittore che, tra la fine degli anni Sessanta e gli ultimi mesi di vita (1975), Pasolini lesse e ri-lesse (integralmente), in modo onnivoro. Boccaccio era stato anche biografo di Dante, e grande ammiratore dell’opera dantesca, s’impegnò tra i primi a far conoscere la Commedia, da instancabile divulgatore del poema dantesco (sue furono, infatti, le prime letture pubbliche della Comedìa, a Firenze, nel 1373), e sua fu la prima biografia di Dante Alighieri (il Trattatello in laude di Dante, composto, verosimilmente, tra il 1357 e il 1362, in più stesure, in forma celebrativa, della vita e dell’artista). Tutte cose che mi permetto soltanto di ricordare, senza nulla aggiungere, tanto sono di dominio pubblico.
Ebbene, un’annosa questione critica dantesca, dibattutissima nei secoli, da parte degli specialisti di Dante Alighieri e della Commedia, ancora oggi oggetto di studi e di approfondimenti, è quella legata alla data di inizio della composizione del poema, da parte del poeta, se cioè tale inizio sia avvenuto prima o dopo gli anni dell’esilio; prima o dopo il suo ingresso in politica, della sua conseguente condanna, e del suo definitivo esilio da Firenze (grosso modo, tra il 1300-1302). I dantisti, sulla base di pochissime testimonianze di prima (o di seconda) mano, coeve, e, soprattutto, sulla base del «racconto» di Giovanni Boccaccio, dibattono, da secoli, sui così detti «due tempi» della Commedia. Per alcuni di essi, cioè, Dante avrebbe iniziato a scrivere il poema (forse in latino, forse in prosa, o forse ancora nello stile della Vita nova, cioè in prosimetro) prima del suo impegno in politica (che potremmo far partire dal 1296-1297, anni in cui Dante Alighieri entrò a far parte, rispettivamente, del «Consiglio dei Cento», e del «Consiglio del Podestà»; fino al 1300 che, come si sa, è l’anno in cui fu eletto Priore di Firenze, per il bimestre giugno-agosto), e, quindi, del suo conseguente, rovinoso, esilio. Tutto ciò sarebbe avvenuto per dar corso alla promessa con la quale, egli, aveva chiuso la Vita nuova, e cioè la promessa di dedicare alla propria donna, oramai morta, un’opera più degna e più alta. Secondo costoro, Dante, in questo «primo tempo» della stesura del poema, avvenuta già in Firenze, e prima dell’esilio, avrebbe composto i primi sette canti dell’Inferno, per poi interromperla, evidentemente, distratto dalle urgenze politiche (dalla cospirazione e dai maneggi di papa Bonifacio VIII), e riprenderla in anni successivi (intorno al 1306-1307), nel così detto «secondo tempo» del poema, per concluderla, di cantica in cantica, nel 1321 (anno della sua morte). A sostegno di questa (suggestiva) ipotesi critica del «primo tempo» fiorentino (ante-esilio) della stesura del poema, questi dantisti citano l’incipit del canto VIII dell’Inferno, per la singolare espressione che ne caratterizza il primo verso: «Io dico, seguitando, …», che darebbe, linguisticamente e narratologicamente, l’impressione, appunto, della volontà espressa dall’autore di riprendere una narrazione forzosamente e improvvisamente interrotta. I canti I-VII dell’Inferno, allora, costituirebbero, da questo punto di vista, un blocco narrativo a sé stante, frutto del «primo tempo» della stesura del poema (nucleo anche tematico, dal momento che è con il canto successivo, più cupo anche nel linguaggio e nello stile, che si avvierebbe la narrazione dell’Inferno più nero e violento, nella topografia dell’aldilà dantesco). In verità, una lettura più semplice (non vorrei dire più banale) dell’incipit del canto VIII dell’Inferno, mi porta a notare che, molto probabilmente, l’espressione «Io dico, seguitando» si giustifica per il fatto che l’episodio dell’incontro tra Dante viaggiatore infernale e il dannato Filippo Argenti viene narrato, appunto, tra la fine del VII canto e l’inizio dell’VIII, al passaggio (dal v. 97 in poi del c. VII) nel quinto cerchio, quello degli iracondi, tra i quali, appunto, trova posto Filippo Argenti:
Or discendiamo omai a maggior pieta […].
intrammo giù per una via diversa. 105
In la palude va c’ha nome Stige
questo triste ruscel, quand’è disceso
Chi, tra gli specialisti di Dante, non crede a questa ipotesi sui «due tempi» della composizione della Comedìa, giudicandola poco probante e, soprattutto, di mera invenzione da parte della fervidissima fantasia di Giovanni Boccaccio, e della sua smisurata ammirazione per Dante, la liquida seccamente, fissando, in modo canonico, l’inizio della composizione del poema, di tutto il poema, senza alcuna divisione in primo e secondo tempo, negli anni tristi dell’esilio dantesco, tra il 1306 e il 1307, dopo i primissimi (1302-1304), di quell’esilio, caratterizzati dall’illusoria speranza di tornare a Fiorenze con un atto di forza. Questo dibattito, intorno ai «due tempi» della Comedìa, nei secoli, non è mai morto; anzi, di tanto in tanto, è sempre riemerso e ha rinfocolato il confronto critico esegetico tra gli specialisti della Commedia. Non rinvio alla bibliografia dantesca, perché sterminata, all’interno della quale questo nodo critico ha trovato (e trova ancora oggi) largo spazio, tra gli specialisti.
Per le ragioni, che ho sommariamente riassunto, il Dante della Divina Mimesis di Pasolini, a mio giudizio, deve molto, se non tutto, al Dante di Giovanni Boccaccio, che, lo ripeto, fu lettura costante di Pasolini, in quegli anni. Azzardo col dire che la Divina Mimesis pasoliniana propone il suo magma testuale di appunti e frammenti, limitatamente ai canti I-VII dell’Inferno, proprio perché tale scelta, da parte di Pasolini (lettore onnivoro di Boccaccio), rinvierebbe al blocco narrativo del «primo tempo» della Commedia dantesca, così come l’autore del Trattatello in laude di Dante lo aveva fissato. Mi sono convinto che Pasolini avesse concentrato la sua attenzione soltanto su questi canti iniziali dell’Inferno, e non avesse mai portato oltre quel suo esperimento di ri-scrittura, pur avendone avuto il tempo, tra gli anni della prima ideazione e realizzazione di un inferno contemporaneo (1963-1965), e la sua morte. Questa mia ipotesi interpretativa, molto probabilmente, farà soltanto sorridere gli specialisti (di Dante e di Pasolini), dal momento che non è basata su alcuna prova documentale, ma solo su impressioni di lettura, e sul dettaglio che il frammento a noi giunto della Divina Mimesis si limiti ai soli canti I-VII dell’Inferno dantesco.
Un’ultima avvertenza. Utilizzavo il termine ipertesto in senso informatico (cioè, in quanto link, testo linkato, testo che rinvia ad altri testi, per mezzo di una rete di nodi concettuali), e non, invece, secondo la terminologia specialistica della narratologia genettiana (in quanto, cioè, testo di secondo grado, ipertesto, che non esisterebbe se non ci fosse quello di primo grado, l’ipotesto, in rapporto al quale esso si pone o come trasposizione, ovvero come modello, a seconda che nella ri-scrittura prenda dall’ipotesto azione e caratteristiche dei personaggi; oppure, che ne modifichi la vicenda narrativa). Per le citazioni dalla Divina Mimesis, ho utilizzato l’edizione Einaudi del 1975.
Il cantiere (laboratorio) della Divina Mimesis
Propongo, qui, a titolo didattico, una fitta trama intertestuale, tra Dante e Pasolini, che è alla base dell’operazione pasoliniana di ri-scrittura del primo canto dell’Inferno, in modo da mostrare il dialogo tra lingue e stili diversi, messo in atto da Pasolini (a partire dal testo della Commedia, e con la mediazione di Giovanni Boccaccio), in una mutuata prospettiva ideologica, che è quella di uno scrittore del XX secolo: dalla dimensione salvifica medievale dantesca, alla «selva della realtà» della degradazione neocapitalistica della società italiana degli anni di Pier Paolo Pasolini. L’indagine intertestuale, con relative operazioni ipertestuali, potrebbe essere estesa, oltre che agli altri canti di questa ri-scrittura pasoliniana (cc. II, III, IV e VII), anche a tutti quegli altri autori del Novecento italiano (ed europeo) che si sono direttamente o indirettamente confrontati con il testo dantesco, e con il tema del viaggio.
Il viaggio come ricerca di sé, come ri-definizione del proprio «io». Lo schema seguente si adatta sia alla crisi dantesca, determinata dall’insorgere della nuova civiltà borghese (fine XIII sec. e inizio XIV); sia alla crisi pasoliniana, dovuta all’incalzare della civiltà neo-capitalistica (inizio anni Sessanta del XX secolo):
Nel primo frammento, Pasolini precisa che intorno «…ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella “selva” della realtà del 1963, anno in cui ero giunto […], c’era un senso di oscurità…».
Lo stile semplice e il linguaggio quotidiano, umile, dell’incipit di questa Divina Mimesis rinviano all’analogo incipit della Divina Commedia, canto I dell’Inferno, analogamente caratterizzata da uno stile piano, umile, e dalla semplicità del lessico:
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita. 3
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura! 6
Il rapporto con il testo dantesco, in questi primissimi righi dell’opera di Pasolini, è immediato, e si caratterizza:
- per il riuso del vocabolo selva
- per l’impiego dell’aggettivo oscuro
- per il ricorso all’utilizzo dell’espressione «mi accorsi di trovarmi», che rinvia esplicitamente al «mi ritrovai» dantesco
- per la notazione cronologica «Intorno ai quarant’anni», speculare al «mezzo del cammin di nostra vita» di dantesca memoria
Di grande interesse didattico è sottolineare il rapporto, tra stile, tono e linguaggio dei due incipit. In Dante, il tono dimesso, didascalico, da narrazione autobiografica, del primo canto dell’Inferno, trova una spiegazione nell’individuazione del valore della variazione dei toni. È stato notato, infatti, quanto proprio la mescolanza degli stili conferisca, in Dante, rilievo poetico anche alle parti più direttamente didascaliche del poema, cioè, alle sue parti poco vibranti poeticamente, resistendo al tempo, e rimanendo indimenticabili, nella memoria del lettore medio italiano, nonostante l’usura dei secoli, e nonostante il duplice rischio, da un lato, della loro (temuta) indecifrabilità, dovuta alla distanza linguistica (tra Dante e noi suoi lettori, oggi); dall’altro, della banalizzazione. In Pasolini, invece, la questione, intorno al linguaggio e ai toni dello stile, per certi aspetti, è ancor più complessa, rispetto a Dante. In quello stesso periodo, infatti, agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, Pasolini era impegnato, sul versante teorico, con la riflessione intorno al problema linguistico della nascita d’una nuova lingua, determinata non più – secondo il suo giudizio – dalla letteratura, ma dalla tecnica, con il prevalere, in questa nuova lingua, del fine comunicativo su quello espressivo.
Ha scritto, infatti, Franco Tateo, tra i massimi interpreti di Dante Alighieri, che chi «rilegge i primi versi della Divina Commedia dopo aver completato la lettura del poema non può non soffermarsi sulla estrema semplicità del tono quasi dimesso col quale Dante introduce un’opera che si caratterizza soprattutto per la complessità della costruzione e per la rarità dei vocaboli».
Il rapporto con il testo della Commedia, dunque, Pasolini lo istituisce immediatamente, sia attraverso un’esplicita citazione (il riuso del vocabolo selva, messo, tra l’altro, in evidenza dalle virgolette) sia attraverso l’impiego dell’aggettivo oscuro. Non solo, l’aggancio con il testo dantesco viene anche favorito dall’espressione «mi accorsi di trovarmi» (che rimanda al «mi ritrovai» dantesco); dalla stessa notazione cronologica, «Intorno ai quarant’anni» («Nel mezzo del cammin di nostra vita»):
Dante:
Nel mezzo del cammina di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
Pasolini:
«Intorno ai quarant’anni, mi accorsi di trovarmi in un momento molto oscuro della mia vita. Qualunque cosa facessi, nella “selva” della realtà del 1963, anno in cui ero giunto […], c’era un senso di oscurità…»
Ha notato il linguista Claudio Marazzini che, nel 1964-65, Pasolini «elaborò una complessa ed arrischiata teoria sull’italiano contemporaneo, alla base della quale stava la lettura dei Quaderni del carcere di Gramsci, fusi con certe nozioni della linguistica moderna, in particolare con la terminologia ricavata dal libro Linguistica generale e linguistica francese di Charles Bally, un’opera del 1950, tradotta nel 1963 con l’aggiunta di un’appendice di Cesare Segre su Le caratteristiche della lingua italiana. Pasolini vi trovò una serie di concetti che ritenne di pronta efficacia operativa, ad esempio quello di “lingua sintetica”, di “sequenza progressiva”, e soprattutto la coppia antinomica “espressione/comunicazione”.
Questo nuovo italiano «tecnologico», e non più «umanistico», sotto la spinta dei centri industriali del Nord d’Italia, e della borghesia neo-capitalistica, finiva, secondo Pasolini, per determinare un vero e proprio «genocidio culturale», distruggendo non solo i dialetti delle classi popolari, ma anche le loro «diversità culturali», le loro ideologie, le loro visioni. Questa nuova lingua «tecnologica», comunque, nata brutta, nel giudizio di Pasolini, perché comunicativa e non espressiva, finiva per diventare l’aspirazione del Pasolini della Divina Mimesis. Nota, infatti, ancora Marazzini ch’egli «arrivò persino a progettare di impossessarsi della nuova lingua tecnologica, fondendola in un pastiche con altre forme di italiano, letterarie e dialettali, in vista di una Divina Mimesis che avrebbe dovuto essere l’ultimo gigantesco esperimento di mistilinguismo, quasi per fondare ambiziosamente (come nella Commedia di Dante) una nuova lingua italiana».
Si legge nella Nota n. 2 alla Divina Mimesis, per mano dello stesso Pasolini: «Nascita dell’italiano letterario […] sull’italiano, parlato nel Nord, come lingua franca della seconda industrializzazione […]. La “Divina Mimesis” o “Mammona” (o “Paradiso”) si presenta miticamente come l’ultima opera scritta nell’italiano non-nazionale, l’italiano che serba viventi e allineate in una reale contemporaneità tutte le stratificazioni diacroniche della sua storia. Nell’Inferno si parla dunque questo italiano, in tutte le sue combinazioni storiche […]. Invece, tutte le prospettive nel futuro – ossia il progetto e la costruzione (in corso) dei Due Paradisi – quello neo-capitalistico e quello comunista – saranno redatte nella supposta lingua nuova: con […] la sua assoluta prevalenza della comunicatività sull’espressività, ecc.».
Riemergono allora, nelle stesse parole di Pasolini, i concetti della variazione e della mescolanza dei linguaggi e degli stili, tipicamente medievali, e sottolineati da Tateo, per il primo canto dell’Inferno dantesco. Ai vv. 4-9 del c. I dell’Inferno, corrispondono, nella Divina Mimesis, le pp. 5-8, con riflessioni sulla «oscurità» della «Selva della realtà del 1963», e con il gioco nell’uso dei verbi, al tempo passato e al tempo presente, con l’intenzione, da parte di Paolini, evidentemente, di riproporre, anche in questo caso, sul modello dantesco, il doppio Pasolini, viandante e narratore (come già era stato per Dante autore e per Dante viaggiatore):
Dante:
- Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
- esta selva selvaggia e aspra e forte
- che nel pensier rinova la paura!
- Tant’è amara che poco è più morte;
- ma per trattar del ben ch’i vi trovai,
- dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.
Pasolini:
Leggere le pp. 5-8 del romanzo.
Al v.8 di Dante, corrisponde un’espressione di p. 8, nel libro di Pasolini:
Dante:
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai
Pasolini:
«…a annoverare come unico dato buono del mondo in cui storicamente sperimento il fatto di vivere l’esistenza di questi operai…» (p.8)
Al v.10 dell’Inferno («Io non so ben ridir com’i’ v’intrai»), Pasolini fa corrispondere:
«Ah, non so dire, bene, quando è incominciata: forse da sempre. Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire, o meglio a desiderare la propria fine?» (in Dante, vv. 11-12: tant’era pien di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai)
Pasolini continua: «Chi può determinare le circostanze in cui essa [la ragione] comincia a uscire, o a tornare là, dove non era ragione, abbandonando la strada [la “dritta via” smarrita] che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo» (p. 9).
Ha scritto, sempre Tateo, sullo smarrimento che: «la selva è propriamente simbolo di smarrimento (ché la diritta via era smarrita), è il labirinto nel quale l’uomo si trova quando perde di vista una meta sicura, quando si abbandona a false parvenze».
Dante:
- Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
- là dove terminava quella valle
- che m’avea di paura il cor compunto,
- guardai in alto, e vidi le sue spalle
- vestite già de’ raggi del pianeta
- che mena dritto altrui per ogni calle.
Pasolini:
«Ma come giunsi, in quel mio sogno fuori dalla ragione […], ai piedi di un “Colle”, in fondo a quella orribile valle – che mi aveva talmente riempito il cuore di terrore per la vita, e per la poesia – guardai in alto, e vidi, lassù in cima, una luce (quella del vecchio sole rinato) che mi accecava: come quella “vecchia verità” su cui non c’è più nulla da dire. Ma che riempie di gioia il fatto di aver ritrovata…»
Anche in Pasolini, come già in Dante, è evidente un brusco mutamento di scena, il colle illuminato, che indica una via d’uscita (la «vecchia verità», su cui non c’è più nulla da dire, ma che riempie di gioia…). Viene così dissipata la cupa atmosfera da incubo creata dalla selva: «Il superamento della selva, lo svegliarsi dal sonno alle prime luci dell’alba sono la premessa della salvezza, non la salvezza, la possibilità offerta dalla grazia, alla quale ovviamente dovrà aggiungersi un faticoso cammino, quello che porta alla sommità del colle» [Tateo].
Colle, valle e sole (quella del “vecchio sole rinato”, in quanto “vecchia verità”) vengono debitamente evidenziati da Pasolini con le virgolette, e con la maiuscola, e colle e valle rappresentano l’alto e il basso, la grazia e il peccato, la salvezza e la dannazione.
Dante:
- Allor fu la paura un poco queta
Pasolini:
«Alla luce, fatale, di quella vecchia verità, mi si quietò un po’ l’angoscia…»
È evidente, con l’esplicita ripresa del dantesco queta», il convincimento pasoliniano, che già era stato di Dante, che la situazione di smarrimento non sia drammatica, ma che, in qualche modo, si possa uscire dalla “valle”, che gli aveva «riempito il cuore di terrore per la vita, e per la poesia…».
Dante:
- E come quei che con lena affannata
- uscito fuor del pelago a la riva,
- si volge a l’acqua perigliosa e guata,
- così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
- si volse a retro a rimirar lo passo
- che non lasciò già mai persona viva.
Pasolini:
«Come un naufrago, che esce dal mare, e si aggrappa a una terra sconosciuta, mi voltavo indietro, verso tutto quel buio, devastato, informe: la fatalità del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo: a cui nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria esistenza.»
Noto che il dantesco «rimirar lo passo» è diventato, in Pasolini, «mi voltavo indietro, verso tutto quel buio», immutato nel suo significato: la fuga dalla selva-valle non è ancora conclusa, che già ci si sofferma a pensare, proprio come fa il naufrago che, con angoscia, osserva «l’acqua perigliosa». Si tratta di una similitudine poco chiara: perché la selva è detta «lo passo/che non lasciò già mai persona viva»? che significa questo? Che la salvezza di Dante sia stata unica, più che miracolosa? Questo verso 27 del c. I dell’Inferno è già un esempio di quanto sia insidiosa la lettura della Commedia, in cui, cioè, l’oscurità dell’espressione riserva inaspettati significati. Continuiamo a seguire l’esegesi di Franco Tateo, per questo nodo critico del canto I: «Se il “passo” è la vita umana, piena di pericoli come il mare, e se esso corrisponde alla selva oscura nella quale l’uomo si sprofonda con quel sonno che è la vita stessa in quanto smarrimento della vera luce, il levarsi dal sonno può avvenire solo in due modi, o attraverso la morte, che è vera vita, o attraverso la visione, che è la miracolosa esperienza della quale Dante vuol farci partecipi».
Questo è, a ben guardare, la soluzione scelta da Pasolini: «la fatalità del proprio essere, dei propri caratteri natali, la paura di cambiare, il timore del mondo: a cui a nessuno fu mai possibile scampare, portando a salvamento la propria interessa”; ed ancora: “Per il tuo bene, ora, mi pare la cosa migliore condurti in un luogo che altro luogo non è che il mondo» (p. 19).
Dante:
- Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
- ripresi via per la piaggia diserta,
- sì che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso
Pasolini:
«Mi riposai un poco, non pensai, non vissi, non scrissi…»
I collegamenti con il testo dantesco sono resi evidenti attraverso le riprese lessicali e concettuali:
riposai/posato, deserta/diserta, arrancavo verso quella nuova assurda strada, arrampicandomi per la china…/si che ‘l piè fermo sempre era ‘l più basso.
Segue il lungo episodio delle tre fiere, in Dante ai vv. 31-54, nella Divina Mimesis alle pp. 10-13:
Dante:
…quasi al cominciar de l’erta
una lonza leggiera e presta molto
che di pel macolato era coverta
[…] ‘mpediva tanto il mio cammino
Pasolini:
«dopo pochi passi di quel mio solitario e scoraggiato salire…
la bestia agile e senza scrupoli […] la “Lonza” (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi), con tutti quei colori che le maculavano la pelle […] mi impediva di proseguire per la mia nuova strada…»
La lonza è la prima delle tre bestie (seguiranno il leone e la lupa), che impediranno a Dante-Pasolini il cammino verso la salvezza. La lonza, aggraziata nei movimenti, che non rivela, cioè, subito la sua pericolosità, vuol prefigurare il primo gruppo di peccatori dell’Inferno, i lussuriosi, rei di non aver controllato in vita il soddisfacimento dei desideri istintivi [«la “Lonza” (in cui non ebbi, subito, difficoltà a riconoscermi)», scrive, infatti, Pasolini. Ma lo stesso scriverà del leone:
«Sia pure parzialmente, anche in quel “Leone”, come in uno sproporzionato sogno premonitore, io mi riconobbi»;
così pure della lupa:
«Ma dovevo riconoscermi ancora in qualcosa di ben peggio. Dal silenzio in cui si è […] venne fuori una “Lupa”, che si affiancò alle altre due bestie. I suoi connotati erano sfigurati da una mistica magrezza».
L’ordine di apparizione delle tre bestie, lonza, leone e lupa, che è in Dante, viene riproposto da Pasolini; anche in Pasolini è la lupa a far perdere al viandante la speranza della salvezza: (“La sua presenza era così indiscutibile da togliere ogni speranza di poter giungere mai a quella cima…”), a dargli angoscia (“mi dava un’angoscia da cui ero reso impotente […] quella bestia senza pace…”, a ricacciarlo nella “selva” (“Ero respinto indietro dalla tentazione di ritornarmene là dove non si richiede, in fondo, che di tacere”), e a fargli richiedere, a gran voce, l’aiuto d’una guida (“E mentre rovinavo giù […] ormai privo dell’autorità della poesia, e fatto ignorante dalle lunghe frequentazioni oscurantiste, pratiche e mistiche, ecco che mi appare una figura, in cui dovevo ancora una volta riconoscermi, ingiallita dal silenzio”).
La lupa è la cupidigia, già definita da san Paolo come «radice di tutti i mali», e ha la forza non solo di atterrire, come già la lonza ed il leone (rispettivamente, lussuria e violenza), ma anche di far recedere il viandante. Alla lupa, in Dante, è associata una tra le più oscure profezie della Commedia, quella del Veltro:
Dante:
- Molti son li animali a cui s’ammoglia,
- e più saranno ancora, infin che ‘l veltro
- verrà, che la farà morir con doglia.
- Questi non ciberà terra né peltro,
- ma sapïenza, amore e virtute,
- e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
- Di quella umile Italia fia salute
- per cui morì la vergine Camilla,
- Eurialo e Turno e Niso di ferute.
- Questi la caccerà per ogne villa,
- fin che l’avrà rimessa ne lo ‘nferno,
- là onde ‘nvidia prima dipartilla.
Pasolini:
«La sua voglia è senza fine; ne avrà di maschi… Finché ne troverà uno che […] l’ammazzerà […]. Questo qui, così ben dotato, non sarà padrone di fabbriche o di catene di giornali, non possiederà feudi nel Sud, ma le sue ricchezze saranno spirito aziendale, capitale cartaceo, e patria plurinazionale. Ah, ah, ah! Sarà lui la salvezza del mondo…» (p.19)
Il rilievo dato, nella Commedia (e ripreso da Pasolini), alla cupidigia è facilmente spiegabile: si tratterebbe di «uno dei mali più colpiti dalla satira dantesca, se pensiamo che essa è il contrario della liberalità, la grande virtù cortese con cui doveva concludersi il Convivio.” [Tateo], ipotizzando, però, accanto a quella etica, anche una lettura in chiave politica della lupa-cupidigia. In Pasolini, comunque il discorso sulla lupa prende a caricarsi di valenze che sono più stilistico-espressive, che etico-politiche: «Ho bisogno del tuo aiuto – balbettai, insicuro come non lo ero mai stato in tutta la mia vita – perché questa bestia può finire col togliermi la forza e la volontà di esprimermi. E non posso sopportare nemmeno l’idea di non essere più uno scrittore» (p.17).
Questa dimensione stilistico-espressiva, più che etico-politica, spiegherebbe pure, in Pasolini, la scelta, come Guida, del sé stesso degli anni Cinquanta, e la rinuncia all’idea originaria di Antonio Gramsci: (“Poteva essere, ad esempio, Gramsci stesso […]. Oppure, ecco!, poteva capitarmi Rimbaud, il mio Rimbaud dei diciotto anni, mio coetaneo, e castratore, col suo destino e la sua lingua già divini […]. Non avevo invece davanti a me che lui, un piccolo poeta civile degli Anni Cinquanta…”, p.16).
Nella seconda parte del canto primo, le corrispondenze tra i due testi si infittiscono:
- L’incontro tra il Pasolini-viandante ed il Pasolini-guida:
Dante:
- Quando vidi costui nel gran diserto,
- «Miserere di me», gridai a lui,
- «qual che tu sii, od ombra od omo certo!»
Pasolini:
«Come la percepii – in mezzo a tutta quella solitudine, a quel dimenticatoio, a cui ero ridotto, gridai: “Pietà, per favore” […] “Guarda lo stato in cui mi trovo, guarda, anche se io non so se sei una sopravvivenza o una nuova realtà!» (p.13)
- La risposta di Virgilio:
Dante:
- «Non omo, omo già fui,
Pasolini:
«…sono un’ombra, una sopravvivenza» (p. 13)
- L e informazioni sulle origini:
Dante:
- e li parenti miei furon lombardi,
Pasolini:
«Sono settentrionali: in Friuli è nata mia madre, in Romagna mio padre…» (p. 14)
- La nascita:
Dante:
- Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi,
- e vissi a Roma…
Pasolini:
«Sono nato sotto il fascismo, benché fossi ancora un ragazzo quando cadde. E vissi poi a lungo a Roma…» (p. 14)
- La vocazione poetica:
Dante:
- Poeta fui, e cantai di quel giusto
- figliuol d’Anchise che venne di Troia,
- poi che ‘l superbo Ilión fu combusto
Pasolini:
«Fui poeta […] cantai la divisione nella coscienza, di chi è fuggito dalla sua città distrutta, e va verso una città che deve essere ancora costruita…» (p. 15)
- Le interrogazioni della Guida al viandante:
Dante:
- Ma tu perché ritorni a tanta noia?
- perché non sali il dilettoso monte
- ch’è principio e cagion di tutta gioia»?
Pasolini:
«Ma tu, perché vuoi tornare indietro in mezzo a quella degradazione? Perché non continui a salire su di qua, solo, come sei stato destinato a essere, e come sei?» (p. 15)
- Il riconoscimento della Guida:
Dante:
«Or se’ tu quel Virgilio, e quella fonte / che spandi di parlar sì largo fiume?» / rispuos’io lui con vergognosa fronte. / «O de li altri poeti onore e lume, / vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore; / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore. (vv. 79-87)
Pasolini:
«Ah sei tu! – dissi allora – ti riconosco […] ti ho molto amato. Mi sei sempre sembrato, in fondo, devo ammetterlo, “il più alto dei poeti del nostro tempo” […]. Ho letto e riletto i tuoi volume, con grande soddisfazione: mi valga ora, per uscire da questa “impasse”, ah, ah, ah – risi – il lungo lavoro critico operato su di te […]. Tu sei colui il cui stile è stato ragione per me di affermazione e successo!» (p. 17)
- La richiesta d’aiuto
Dante:
- Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
- aiutami da lei, famoso saggio,
- ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
Pasolini:
«Ho bisogno del tuo aiuto […] perché questa bestia può finire col togliermi la forza e la volontà di esprimermi.» (p. 17)
- Il consiglio della Guida e la profezia del Veltro:
Dante:
«A te conviene tenere altro vïaggio», / […] ché questa bestia, per la qual tu gride, / non lascia altrui passar per la sua via, / […]. Molti son li animali a cui s’ammoglia, / e più saranno ancora, infin che ‘l veltro / verrà, che la farà morir con doglia. (vv. 91 e 94-5 e 100-02)
Pasolini:
«Bisogna cambiare strada […]. Con quella bestia la cui presenza ti fa lamentare, non c’è da scherzare molto […] ha fatto tutti gli sposalizi possibili. E ancora ne farà qualcuno […]. Finché ne troverà uno che […] la caccerà nel più profondo dell’Inferno, da tutte le Città dell’Occidente dove ancora regna…» (pp. 17-9)
- La proposta di «tenere altro vïaggio»
Dante:
Ond’io per lo tue me’ penso e discerno / che tu mi segui, e io sarò tua guida, / e trarrotti di qui per loco etterno (vv. 112-14)
Pasolini:
«Per il tuo bene, ora, mi pare la cosa migliore condurti in un luogo che altro luogo non è che il mondo…» (p. 19)
- L’accettazione da parte del viandante:
Dante:
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio / […]
che tu mi meni là dov’or dicesti, […]
Allor si mosse, e io li tenni dietro»
(vv. 130, 133 e 136)
Pasolini:
«Non ne ho da scegliere – dissi – vengo con te. Egli mi guardò in un istante, esaminandomi, timido e duro, di scorso, con l’occhio umido sopra lo zigomo consunto. Indi si mosse, e io gli andai dietro» (p. 19)
Resta ancora da notare, a p. 61 della Divina Mimesi (nel testo intitolato Per una “Nota dell’editore”), la tragica premonizione della sua stessa morte. Pasolini, fingendosi editore di questo testo, scrive che il suo autore sarebbe stato «ucciso a colpi di bastone»: «Un blocchetto di note è stato addirittura trovato nella borsa interna dello sportello della sua macchina; e infine, dettaglio macabro ma anche – lo si consenta – commovente, un biglietto a quadretti (strappato evidentemente da un block-notes) riempito da una decina di righe molto incerte – è stato trovato nella tasta della giacca del suo cadavere…».
Pasolini, nel 1975, presentò quest’opera come il documento della crisi che lo aveva attanagliato intorno alla metà degli anni Sessanta. Nel «frammento intitolato La Mortaccia una prostituta si appresta al viaggio ultraterreno, guidata da Dante nel ruolo di Virgilio”, ma in un’intervista apparsa su «Nuova Generazione», nel 1960, Pasolini “nomina se stesso come viaggiatore e la prostituta come guida; accenna ad un antinferno in cui incontrerà Moravia, Gadda, Thomas Mann e promette un Farinata/Stalin torreggiante all’ingresso di Dite» [W. Siti, dalla Nota introduttiva].
Altri riferimenti a questo progetto, troviamo in due interventi di Pasolini pubblicati su «Vie nuove», il primo, datato 8 luglio 1961:
[“Sto scrivendo un libro, che non so se chiamare romanzo, che racconta la discesa all’Inferno secondo la falsariga dantesca (un Dante letto sui fumetti) di una prostituta: all’Inferno si incontreranno tutti i protagonisti della nostra storia, della nostra cronaca, della nostra tipica vita quotidiana”];
il secondo, datato 6 dicembre 1962:
[“…avevo in mente un terzo romanzo, Il Rio della Grana, che poi non ho scritto, dato che è stato sostituito prepotentemente nella mia fantasia da un libro simile e molto diverso La Mortaccia, (la discesa di una povera donna, che ha letto Dante a fumetti nell’imbuto dell’Inferno: un inferno moderno dove ci si trova tutti. Il Paradiso non c’è, è in costruzione, anzi, ci sono due progetti: uno neo-capitalistico e uno marxista… Un pamphlet, più che un romanzo, come vedi: un poema satirico in prosa)”].
Tra quelli che Siti definisce come gli «incunaboli» della Divina Mimesis, ci sarebbero pure un’intervista pubblicata nel 1963 su «Il punto», nella quale Pasolini «racconta di un Gramsci/Virgilio e di Marilyn trasformata in pianta di mimosa». Ancora, alcuni passaggi del Progetto di opere future, della fine del 1963, dove «sono elencati i gironi infernali: nella zona prima i troppo continenti, divisi in conformisti (salotto Bellonci), volgari (un ricevimento al Quirinale), cinici (un convegno di giornalisti), e gli incontinenti divisi in colpevoli per eccesso di rimorso (Soldati, Piovene), per eccesso di servilismo (le masse); nella zona seconda i raziocinanti (Landolfi), gli irrazionali (l’avanguardia), i razionali (Moravia) ecc…».
In questo Progetto del 1963 «l’inferno da attraversare non è più quello vitale delle borgate ma quello deprimente della piccola borghesia neocapitalista…». Pasolini, quando passò dal progetto alla sua concreta realizzazione, rinunciò a Gramsci, come guida, e scelse «come Virgilio il sé stesso degli anni Cinquanta […]. Pasolini ha compiuto quarant’anni, politicamente deluso sconta con la rabbia l’aridità, soffrendo di quell’”esclusione della vita degli altri che è la ripetizione della propria”. Attraversare l’inferno significa ormai stilare un bilancio».
Pasolini tornò a parlare della Divina Mimesis nel 1974, in occasione di un intervento organizzato a Milano il 7 settembre 1974, nell’ambito delle manifestazioni della Festa Provinciale dell’Unità: «In questi giorni sto scrivendo il passo di una mia opera in cui affronto questo tema [il genocidio, l’assimilazione di larghi strati “popolari” al modo e alla qualità di vita della borghesia] in modo appunto immaginoso, metaforico: immagino una specie di discesa agli inferi, dove il protagonista, per fare esperienza del genocidio di cui parlavo, percorre la strada principale di una borgata, di una periferia di una grande città meridionale, probabilmente Roma, e gli appare una serie di visioni ciascuna delle quali corrisponde a una delle strade trasversali che sboccano su quella centrale. Ognuna di essa è una specie di bolgia, di girono infernale della Divina Commedia…».
Questo intervento «mette in stretto rapporto la “discesa agli inferi” della Divina Mimesis (cui è tornato a lavorare) e la denuncia del “genocidio” (che è il tema di fondo dei suoi contemporanei interventi giornalistici)» [G.C. Ferretti].
Il Pasolini-Dante, che nel 1963 immagina di trovarsi nella «selva oscura» della degradazione neocapitalistica, sembra anticipare qualcosa d’altro, e di più: non pochi tratti, cioè, del Pasolini corsaro, con le sue scandalose requisitorie contro i guasti del capitalismo maturo, tra nostalgia regressiva e acuta diagnosi.
Nella Divina Mimesis, dunque, Pasolini racconta di un viaggio nelle borgate di Roma, compiuto in compagnia del sé stesso degli anni Cinquanta, il Pasolini della poesia civile, quella delle ceneri di Gramsci e delle belle bandiere, nel ruolo del Virgilio dantesco, come guida che lo accompagna in questo Inferno contemporaneo. Le singole visioni di questa ri-scrittura pasoliniana corrisponderebbero ai cerchi danteschi. Al momento del viaggio, nei primissimi anni Sessanta, Pasolini è un intellettuale maturo, e deluso, alle prese con un bilancio interiore non più rinviabile, da affrontare (e, quindi, da raccontare). Dieci anni dopo, nel 1974, come ho già precisato, nel corso di una manifestazione pubblica, Pasolini dichiarò che la sua discesa agli «inferi» fosse da leggere come una denuncia del genocidio in atto, in quell’Italia che viveva il boom e la sua rivoluzione industriale post-bellica, senza porsi tanti interrogativi sui prezzi sociali e culturali che tale progresso comportasse. Tematica, questa del genocidio, che Pasolini, in quegli anni, andava sviluppando dalle colonne del «Corriere della sera», con articoli corsari, graffianti e polemici. In sostanza, egli denunciava la degradazione neo-capitalistica dell’Italia del boom economico, tra nostalgia regressiva, per la perdita della civiltà contadina, e acuta e spietata diagnosi delle contraddizioni dei cambiamenti in atto, profondi e repentini. La voce critica di Pasolini, la sua spietata visione corsara, ovviamente, fu una delle poche, se non l’unica, che si levò, con spirito profetico. La gran parte degli intellettuali italiani, invece, preferirono il più comodo (e utilitaristico) silenzio indifferente.
Il frammento, che qui riproduco, è tratto dal canto III della Divina Mimesis, da leggere (e analizzare) in stretto rapporto con il corrispondente canto III dell’Inferno dantesco, quello, appunto, degli ignavi. Speculare, nei due testi, è la condanna del peccato di indifferenza.
Appunti e frammenti per il canto III
1
In quel primo angolo della Città, si sentiva subito tutto ciò che essa era. Risuonavano intorno a me diverse lingue, pronunciate da bocche leggermente ripugnanti […]. Dialetti, o gerghi, parlate di poveri e di ricchi: erano le prime parole, come sempre, a rivelare subito socialmente i parlanti. Ma qui li rivelavano, invece, per così dire, sotto un aspetto asociale, spaventoso.
Chiesi, ormai compiaciuto: «Maestro cos’è quello che sento?» «Qui vivono – mi rispose lui […] – quelli che hanno eletto a proprio ideale una condizione peraltro inevitabile: l’anonimato. La fatalità, la gloria, la condanna di essere “qualunque” […]. Ma questa non è stata per loro una condizione di reale innocenza. Quanti partigiani non erano uomini e ragazzi come tutti? E quel loro stare sui monti – quel loro fumare un’ultima sigaretta prima di morire – quel loro tenersi le armi tra le ginocchia accanto al fuoco – quel loro cantare nelle rare sere di tregua – quel loro sperare nella pace lontana e quel loro sapere di dover morire – non rientravano negli atti e nei giorni di tutti? […]».
Io guardavo quella gente con pietà, e con quella nostalgia di cui la mia guida mi aveva letto in viso l’«ombra di selvaggio dolore». «Ma cos’hanno da lamentarsi così?» domandai. Essi infatti (al contrario che nella vita) qui erano infelici, piangevano, si lagnavano. «Li fa soffrire – rispese – ciò a cui hanno rinunciato. Non lo sanno […]»
2
Non mi fu difficile accorgermi che in realtà tutta quella gente, lungo le strade del loro mondo di impiegati, di professionisti, di operai, di parassiti politici, di piccoli intellettuali, in realtà correvano come matti dietro a una bandiera. Per le viuzze medievali, o per le grandi strade burocratiche, liberty, o, infine, per i quartieri nuovi, residenziali o popolari, essi non si agitavano trascinati – come pareva – dall’orgasmo del traffico o dei loro doveri: ma correvano dietro a quella bandiera. Si trattava, in realtà, di uno straccio, che sbatteva e si arrotolava ottusamente al vento […].
I rapporti testuali speculari con il canto III dell’Inferno dantesco sono sorprendenti:
Pasolini:
Risuonavano intorno a me diverse lingue
Dante:
Diverse lingue, orribili favelle (v. 25)
Pasolini:
«Maestro cos’è quello che sento?»
Dante:
«Maestro, che è quel ch’i’ odo?» (v. 32)
Pasolini:
«Ma cos’hanno da lamentarsi così?»
Dante:
«Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?» (vv. 43-44)
Pasolini:
…correvano dietro a quella bandiera
Dante:
[…] vidi una ‘nsegna
che girando correva […]
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente […] (vv. 52-6)
Lascio al lettore, ai gruppi classe, alle comunità interpretanti delle classi, il gusto (e il piacere) di proseguire in questa lettura speculare, tra il testo della Divina Commedia dantesca, e quello della Divina Mimesis pasoliniana, così come ho compito, qui, io, con l’intento di voler dare risalto a questa «superba ruina» di Pier Paolo Pasolini.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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