avvenimenti · In primo piano

Pasolini maestro di emozioni, tra lingua, letteratura e calcio

Nei primi anni Cinquanta, in Italia, sostenere che l’insegnamento dovesse suscitare nei ragazzi emozioni e curiosità era come parlare cinese. Eppure, Pier Paolo Pasolini (1922-1975), a Valvasone (in Friuli) e a Ciampino (a pochi chilometri da Roma), nelle sue due brevi (ma intensissime) esperienze di professore di letteratura, grammatica italiana e calcio, lo sosteneva e, soprattutto, lo praticava, come mezz’ala. L’esperienza didattica più lunga e significativa fu svolta da Pasolini nel Comune di Ciampino, una volta trasferitosi a Roma, nel gennaio del 1950, con sua madre. Prese, infatti, servizio nel dicembre del 1951, come professore di Lettere, presso la scuola media parificata “F. Petrarca” di Ciampino, e vi restò fino al mese di dicembre del 1954, per tre anni scolastici interi (il quarto, invece, 1954-55, lo avviò soltanto, e poi si dimise, per dedicarsi con maggiore impegno e tempo alla sua attività di sceneggiatore, lasciando la supplenza, per quell’anno scolastico, a Nico Naldini, suo cugino, e, poi, suo attento biografo). A Ciampino, tra i suoi allievi, c’era Vincenzo Cerami (1940-2013), futuro scrittore, giornalista e sceneggiatore, che avrebbe detto, in seguito, del Pasolini insegnate, quanto segnasse in blu, negli scritti dei suoi alunni, banalità e luoghi comuni, stimolandoli, quindi, a essere sempre teste pensanti e critiche, teste ben fatte e divergenti. Tra il 1947 e il 1949, Pasolini aveva insegnato nella scuola media di Valvasone, sede staccata di Pordenone, dove non solo curava la formazione linguistico-letteraria dei suoi studenti, ma faceva anche da allenatore di calcio. Il calcio è stata la grande passione sportiva di Pasolini, praticandolo pure, in tutte le età, come espressione di vitalità allo stato puro, perfino, di felicità. Grande tifoso del Bologna, era stato pure tesserato, per un solo anno, nella squadra del Casarsa (estate del 1941, maglia bianco-nera della Gil Casarsa). In una intervista a Enzo Biagi, Pasolini aveva dichiarato che, se le cose della sua vita fossero andate diversamente, gli sarebbe «piaciuto diventare un bravo calciatore», giudicando il «futbol», dopo la letteratura e l’eros come «uno dei grandi piaceri» (della vita).

 

Memorabile, direi leggendaria, nel 1975, la partita disputata a Parma, tra gli undici calciatori di Pasolini (che si trovava lì vicino per girare il film Salò e le 120 giornate di Sodoma), elettricisti, truccatori, macchinisti, comparse, contro gli undici di Bernardo Bertolucci, suo ex aiuto-regista (impegnato a girare, sempre in zona, il film Novecento). La partita fu vinta dalla squadra di Bertolucci, ma Pasolini, che sul campo di calcio metteva tutta la passione e la grinta necessarie, lanciò mille sospetti sulla vittoria, guadagnata, a suo dire, con un trucco (ben orchestrato dallo stesso Bertolucci, in gran segreto). Pasolini, da calciatore, aveva sempre esaltato le sue doti di velocista (fin da ragazzo lo chiamavano “Stukas”, come gli aerei tedeschi da bombardamento del primo conflitto mondiale, proprio per queste sue qualità di scatto e di velocità). Bertolucci, invece, era sempre stato tifoso più freddo (del Parma), attento, sì, alle vicende calcistiche, ma mai passionale come Pasolini, che invece considerava il calcio come l’ultima forma di un rito religioso, in un mondo, il nostro, totalmente secolarizzato, ultima «rappresentazione sacra del nostro tempo». Bertolucci accettò la sfida di Pasolini e preparò alla bell’e meglio la sua squadra (riservandosi di sfoderare una perfida sorpresa, che avrebbe fatto, e che fece, in campo, la differenza). I film che i due registi (e amici) stavano girando, a poca distanza l’uno dall’altro, erano entrambi prodotti da Alberto Grimaldi, e avrebbero segnato, in modo diverso, la storia della cinematografia italiana. Laura Betti, grandissima amica di Pier Paolo Pasolini, era nel cast di Bertolucci, e fu tra i pochi spettatori della partita evento. Tra i due registi, negli ultimi tempi, era calata qualche ombra, per via delle critiche che Pasolini aveva mosso all’ultimo film di Bertolucci, Ultimo tango a Parigi, uscito nel 1972, giudicato, da Pasolini, piuttosto severamente, in quanto cedimento al cinema commerciale. Quel 16 marzo, alle 09.30, il Parco della Cittadella di Parma si trasformò in un luogo magico, con pochi spettatori, come unico rammarico (nessuno aveva pubblicizzato l’evento, e, data l’ora e la stagione ancora rigida, in giro, c’era poca gente). Gli undici di Pasolini indossarono, rigorosamente, magliette a strisce verticali rosso-blu, cioè, indossarono la divisa ufficiale del Bologna calcio. Pasolini, che, in quella occasione, cedette la fascia di capitano della squadra al montatore Ugo De Rossi, appena vide scendere in campo gli undici della squadra avversaria, quasi li schernì, perché si presentarono con magliette stravaganti, dal colore viola elettrico, con la scritta «Novecento», di colore giallo e messa di traverso sulle magliette. Bertolucci, che non giocò ma fece da allenatore motivatore, stando a bordo campo,  si difese dicendo ch’era stata una sua scelta precisa, quella di far preparare quel completino sgargiante dalla costumista del suo cast, Gitte Magrini, proprio con l’intenzione di infastidire e di distrarre gli avversari: magliette, calzoncini e calzettoni con colori psichedelici, disturbanti. Pasolini dopo aver perso il «derby del cine-pallone», si allontanò dal campo tutto rabbuiato e senza lasciare dichiarazioni. Subito dopo, si seppe che, in realtà, gli undici calciatori di Bertolucci non erano tutti componenti della sua troupe (macchinisti, elettricisti, ecc.), ma, al suo interno, figuravano un paio di calciatori che Bertolucci in persona, in gran segreto, nei giorni precedenti, aveva reclutato dalla squadra giovanile del Parma calcio (si parlò, appunto, di due «biondi», alimentando la leggenda che uno dei due fosse un giovanissimo Carlo Ancelotti, che, in effetti, aveva disputato nella giovanile del Parma proprio nella stagione 1975-76). Dunque, partita con trucco, finita 5 a 2 per Bertolucci, il quale, sornione, in panchina se la godeva, mentre Pasolini, rabbioso, in campo, fu pure costretto a uscire dal gioco prima della conclusione della partita, per via di interventi pesanti subiti durante la partita. A fine partita, tutti a mangiare, alla libera, con le mani, senza alcuna posata, una gigantesca torta, realizzata per festeggiare il compleanno di Bernardo Bertolucci, nato il 16 marzo del 1941.

Di quella partita esiste un cortometraggio, girato in Super8 da Clara Peploe, recentemente scomparsa, moglie di Bertolucci dal 1979. Quel materiale cinematografico fu poi rimontato da Laura Betti, confluito, oggi, nel docu-film Centoventi contro Novecento, presentato a Bologna a fine 2019, a cura di Alessandro Scillitani, per la regia, con la sceneggiatura di Alessandro Di Nuzzo. Il docu-film racconta, appunto, quella mitica partitella domenicale, entrata nella storia del calcio, del cinema e della cultura italiana (a pochi mesi dalla tragica morte di Pasolini). Per vedere il trailer del docu-film, fare click sul QR Code seguente:

Infondate tutte le voci sull’astio rimasto tra i due registi, nonostante la partita (o, forse, proprio a causa della sconfitta subita da Pasolini, su quel campetto di Parma, e a causa di un certo eccesso di baldanza dimostrato da Bertolucci, nel festeggiare la vittoria). I legami, umani e professionali, l’affetto e la stima tra i due erano così profondi e antichi, che andavano ben oltre i normalissimi contrasti estetici, su questa o quella scelta artistica, o le piccole rivalità calcistiche. Bertolucci, infatti, fu tra quelli che portò a spalla la bara di Pier Paolo Pasolini, al suo funerale, dopo l’orrenda uccisione del poeta, scrittore e regista, all’idroscalo di Ostia, nella notte tra il primo e il 2 novembre del 1975 (solo sette mesi dopo, rispetto alla partitella di Parma). Dettaglio macabro, il corpo straziato di Pier Paolo Pasolini fu trovato dietro una porta del locale campetto di calcio. Come ha raccontato Salvatore Mugno, nel libro L’ultima partita di Pasolini (Stampa Alternativa), Pier Paolo Pasolini si congedò dal calcio il 4 maggio 1975, a Trapani, disputando la sua ultima partita, con la Nazionale attori, indossando la maglia n. 11 (e vincendo). Commossa la testimonianza di Ninetto Davoli, amico e attore, che dichiarò di aver messo nella bara di Pasolini proprio la maglietta azzurra di quella ultima partita.

Ho già ricordato che sin dagli anni del suo primo insegnamento nella scuola media di Valvasone di Pordenone, tra il 1947 e il 1949, Pasolini era stato anche allenatore di calcio, sua grande passione. Di sé stesso, Pier Paolo Pasolini disse sempre di essere stato un’autentica eccezione, tra gli intellettuali italiani, in tema di rapporti tra sport e letteratura, dal momento che non solo aveva sempre scritto di sport (e, in modo particolare, di calcio), ma lo aveva pure praticato attivamente, in tutte le stagioni della sua vita, dall’infanzia, vissuta a Casarsa, con le corse a perdifiato; fino alla piena maturità, al tempo delle partitelle sui campetti della periferia romana. Nella sua ultima intervista, concessa a Claudio Sabattini, non a caso per il «Guerin Sportivo», e pubblicata postuma, il 5 novembre 1975, pochi giorni dopo la sua tragica fine, Pasolini, lamentandosi che non lo invitassero mai per tenere una conferenza sul calcio, aveva infatti chiarito che, generalmente, gli «sportivi sono poco colti e gli uomini colti sono poco sportivi. Ma io sono un’eccezione».

Il calcio, per Pasolini, scrittore e intellettuale corsaro, coscienza critica dell’Italia del secondo dopo-guerra, e degli anni del così detto boom economico, di quell’Italia post-bellica, nella quale nasceva la scuola media unica, che vedeva la diffusione di massa dei primi elettrodomestici (televisori e frigoriferi), e delle prime auto-vetture (la Cinquecento e la Seicento Fiat), di quell’Italia della mutazione antropologica (come l’avrebbe definita lo stesso Pasolini, con la morte della civiltà contadina, e con la scomparsa delle lucciole), fino agli anni della nascente contestazione giovanile, intorno al 1968; ebbene, il calcio, per Pasolini, fu sempre specchio della società, lente attraverso la quale osservare tutti i cambiamenti.

Già in un racconto del 1963, intitolato Reportage sul Dio, apparso il 14 luglio sul quotidiano il Giorno, che, nel titolo, riecheggiava il romanzo di Giovanni Testori, Dio di Roserio, del 1954, dedicato a un campione del ciclismo dilettantistico lombardo di quegli anni, Pasolini si era diffuso in riflessioni sulle fragilità del boom italiano, analizzando quelle fragilità proprio attraverso le nascenti storture del calcio, già evidenti, ai suoi occhi, sin da allora, che, cioè, il calcio, da passione autentica e sana, si avviava a diventare business stritolatutto:

Gli enormi incassi delle domeniche di passione da che mani sono ammucchiati? Io su questo, sono rimasto all’idealismo liceale, quando giocare a pallone era la cosa più bella del mondo.

In un lungo articolo del 1971, in forma di saggio, intitolato Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e i suoi prosatori, pubblicato il 3 gennaio, sempre sul Giorno, Pasolini aveva proposto una sua grammatica del calcio:

[…] Il football è un sistema di segni, cioè un linguaggio. Esso ha tutte le caratteristiche fondamentali del linguaggio per eccellenza, quello che noi ci poniamo subito come termine di confronto, ossia il linguaggio scritto-parlato.

Infatti le “parole” del linguaggio del calcio si formano esattamente come le parole del linguaggio scritto-parlato […].

I “fonemi” sono dunque le “unità minime” della lingua scritto-parlata. Vogliamo divertirci a definire l’unità minima della lingua del calcio? Ecco: “Un uomo che usa i piedi per calciare un pallone è tale unità minima: tale “podema” (se vogliamo continuare a divertirci). Le infinite possibilità di combinazione dei “podemi” formano le “parole calcistiche”: e l’insieme delle “parole calcistiche” forma un discorso, regolato da vere e proprie norme sintattiche.

I “podemi” sono ventidue (circa, dunque, come i fonemi): le “parole calcistiche” sono potenzialmente infinite, perché infinite sono le possibilità di combinazione dei “podemi” (ossia, in pratica, dei passaggi del pallone tra giocatore e giocatore); la sintassi si esprime nella “partita”, che è un vero e proprio discorso drammatico.

Subito dopo, Pasolini, aveva distinto, sempre in quel suo scritto, tra prosa e poesia, cioè tra il calcio di tradizione europea, che Pasolini definiva prosastico perché di gruppo; e il calcio della tradizione sudamericana, segnatamente brasiliana, fortemente poetico, perché calcio individualista, capace di funambolismi imprevedibili:

Ebbene, anche per la lingua del calcio si possono fare distinzioni del genere: anche il calcio possiede dei sottocodici, dal momento in cui, da puramente strumentale, diventa espressivo.

Ci può essere un calcio come linguaggio fondamentalmente prosastico e un calcio come linguaggio fondamentalmente poetico […]. Così, proprio per ragioni di cultura e di storia, il calcio di alcuni popoli è fondamentalmente in prosa: prosa realistica o prosa estetizzante (quest’ultimo è il caso dell’Italia): mentre il calcio di altri popoli è fondamentalmente in poesia.

Per giungere, quindi, ad analizzare il momento (poetico) del goal come momento epifanico, e asserire, con profondissima convinzione, che il capocannoniere di un campionato calcistico fosse da considerare come il miglior poeta dell’anno, per quella nazione:

Ci sono nel calcio dei momenti che sono esclusivamente poetici: si tratta dei momenti del “goal”. Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica. Il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno […].

Anche il “dribbling” è di per sé poetico (anche se non “sempre” come l’azione del goal). Infatti il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa.

Gli esempi citati da Pasolini, nel suo articolo-saggio, sono legati, ovviamente, a nomi di calciatori italiani di quegli anni, per altro notissimi (e tutti fior di campioni): Rivera, Mazzola, Riva, e altri fuoriclasse dello stesso calibro.

 

L'autore

Trifone Gargano
Trifone Gargano
Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.