All’amico Alessandro De Rosa, compositore classe 1985, bisogna riconoscere un merito fondamentale. Quello di aver realizzato nel 2016 la biografia ufficiale di Ennio Morricone, edita da Mondadori con il titolo Inseguendo quel suono. Un testo imprescindibile per chiunque voglia accostarsi all’opera del grande Maestro. Dentro c’è tutto Morricone. Anche quello più intimo. E non era facile coglierne l’essenza. De Rosa, con i suoi modi garbati e la sua irrefrenabile curiosità, è riuscito a raccontare la storia di una carriera irripetibile. Lui che Ennio lo ha conosciuto così bene, non poteva dunque mancare nel nuovo film di Giuseppe Tornatore. Lo abbiamo raggiunto per fargli qualche domanda.
Alessandro, oggi nelle sale esce Ennio, il monumentale documentario realizzato da Giuseppe Tornatore. Nel film sono raccolte le più varie testimonianze. Da Springsteen a Morandi, da Tarantino a Pat Metheny, da Clint Eastwood ad Hans Zimmer. Impossibile nominare tutti. Fra queste c’è anche la tua, che nel film ha uno spazio e un ruolo molto importante. Tu che Ennio lo hai conosciuto a fondo, cosa hai provato a far parte di questa grande opera?
Una grande emozione, se vuoi anche inaspettata. Quando con Ennio stavamo finendo di lavorare al libro Inseguendo quel suono, Tornatore, che nel libro è presente con una testimonianza nella parte finale, mi parlò di questa idea, ma era ancora in uno stato primordiale. Ennio era al corrente di questo progetto e voleva che io ne facessi parte. Così nel 2017, un anno dopo la pubblicazione del libro, Tornatore mi chiamò per iniziare questo lavoro. Fu un’intervista lunghissima – più di quattro ore – interamente registrata a Roma. Alla fine mi ringraziò molto. Lavorando in radio conosco bene le esigenze di regia, quindi ho cercato di essere nelle risposte più funzionale possibile. Nel luglio scorso Tornatore mi ha richiamato per registrare un’altra parte di intervista. Nel frattempo mi contattavano spesso i suoi assistenti, perché magari nel ricostruire la storia di Ennio c’erano delle incongruenze oppure mancavano dei dati. Da lontano seguivo questo progetto con impazienza, perché avevo il grande desiderio di vederlo. Certo, ritrovarsi lì dentro da un lato penso sia ancora uno scherzo, perché non mi sembra vero. Dall’altro penso che negli ultimi anni con Morricone abbiamo fatto un percorso insieme, quindi probabilmente era anche giusto che io ci fossi. Comunque la mia presenza è stata determinata dalla volontà sia di Ennio che di Tornatore.
Come nella biografia che hai curato per Mondadori, mi pare che il film voglia raccontare tante sfaccettature nascoste, di tipo umano e professionale, riguardanti Morricone, e cioè andare oltre il profilo noto e conosciuto dal grande pubblico. Pensi che il film possa stimolare la curiosità degli spettatori e spingerli a conoscere di più di questo immenso artista?
Penso proprio di sì, perché è un formato completamente diverso. Noi insieme avevamo fatto il libro che oggi è tradotto in molte lingue. Poi abbiamo pubblicato anche un podcast su Amazon Audible, che si presenta in tutt’altro modo. Un conto è scrivere un libro e farlo insieme a lui, un conto è proporre il podcast di un’intervista. Il documentario cinematografico è un altro tipo di formato, realizzato con tutta una controscena fatta di immagini e di musica. E poi, anche in virtù della forza comunicativa che solo il cinema possiede, l’argomento riesce ad entrare in contatto con molte più persone. Tutto ciò rappresenta senza dubbio un’occasione – Tornatore lo ha sottolineato più volte – per avvicinare, senza pretese di esaustività, il grande pubblico a delle problematiche che non solo riguardano Morricone e la sua identità, ma che toccano da vicino la musica e il cinema. Il documentario trasuda di questo amore di Tornatore verso Morricone, ma questo amore è rivolto anche verso la musica e il cinema. Che il film rappresenti un’opportunità è un augurio che sento di fare a tutti noi.
Come sappiamo Morricone intraprendendo la strada del cinema si è gradualmente distaccato dall’ambiente accademico nel quale si era formato. Tutto questo ha contribuito a creare in lui un profondo disagio di tipo etico, provato nei confronti di molti colleghi compositori, penso in particolare al suo Maestro Goffredo Petrassi. Anche per questo, Ennio è sempre stato molto critico verso sé stesso. Eppure è chiaro a tutti che il suo nome sarà per sempre legato alla storia della musica. Secondo te Morricone, col tempo, è riuscito a comprendere e ad accettare questo suo destino?
Credo che questa cosa, fino all’ultimo, lo abbia sempre sollecitato a una riflessione. In genere noi prestiamo molta attenzione alle risposte. Invece molto spesso sono le domande a fare la differenza. Per tutta la vita Ennio si è chiesto se anche il suo modo di essere compositore, fosse degno di questo nome. Questo problema esistenziale lo ha portato a delle soluzioni straordinarie. Lo ha spinto a ricercare la sua identità, a trovare sé stesso e a ritrovarsi ogni volta. In qualche modo la sofferenza è andata via via nel tempo ad assottigliarsi. In un’intervista che facemmo a Locarno negli ultimi anni mi spiegò quanto per lui fosse importante il contatto con il pubblico. Questo contatto con il pubblico, sentire materialmente il consenso delle persone, era una cosa che gli piaceva molto. È stata una sorta di terapia per questa sofferenza. Molti sono stati i processi che lo hanno portato a riscoprirsi anche in funzione della sua storia personale, della storia della musica più in generale, dai presupposti da cui era partito. È un percorso che è rimasto sempre aperto, ma questo non va inteso come una cosa negativa. Si è assottigliata la sofferenza, non lo stimolo per fare sempre meglio. Anzi, tutto questo è stato il motore propulsivo per la sua creatività. Diceva che bisognava «aspirare sempre al meglio». Anche grazie a questo dissidio interiore la sua produzione appare oggi estremamente variegata, ma al tempo stesso estremamente coerente con i suoi principi di compositore. Bisogna solo ascoltare bene.
Nella parte finale del film Tornatore ha inserito le due premiazioni agli Oscar. Credo che la vittoria nella categoria «miglior colonna sonora», ben nove anni dopo aver ricevuto l’onorificenza alla carriera (che nell’ambiente è considerata come una sorta di pensionamento), sia una cosa assolutamente fenomenale, mai accaduta prima e poco sottolineata. Ti trovi d’accordi con questa mia idea?
Mi trovo sostanzialmente d’accordo con questa tua idea. Il premio Oscar è un riconoscimento importante, anche se a mio giudizio non sempre la sua assegnazione è stata dettata dal merito e dalla qualità. A volte i premi dipendono da altri fattori. Ma questa sua vittoria qualcosa vuol dire. Vuol dire molto anche l’aver accettato questa sfida con Tarantino, un regista così particolare. Nella sua continua avventura Ennio si è sempre cercato di misurare. Lui diceva sempre che i premi sono dei punti di ripartenza. Lo ha detto quando ha vinto l’Oscar alla carriera. E in effetti era vero, o almeno lui li viveva così. E lo è stato anche con la vittoria per la musica di The hateful eight nel 2016. Ancora un punto di partenza che comunque l’ha portato a continuare a comporre musica. Fidiamoci di queste parole di Ennio.
Morricone ha più volte detto che uno dei suoi più grandi rammarichi è quello di non aver potuto lavorare con Kubrick per le partiture di Arancia meccanica. Non credi, invece, che abbia evitato un potenziale pericolo? Mi spiego meglio: conoscendo la complessità del carattere di Kubrick e lo spiacevole episodio accaduto al grande compositore americano Alex North che si vide tagliare dal regista le musiche originali scritte per 2001: Odissea nello spazio a vantaggio di Strauss e Ligeti, non credi che la mancata collaborazione gli abbia risparmiato una delusione?
Su questo fatto i racconti sono molteplici e spesso non coerenti l’uno con l’altro. Prima di tutto occorre dire che per Morricone sono anni di grande impegno, nel cinema e non solo. Dal ‘70 al ‘72 c’è il record della sua produzione cinematografica con un numero di collaborazioni straordinario. Lui minimizzava sempre, ma fra questi c’erano anche film importanti. Insomma di lavoro lui ne aveva sin sopra i capelli. In quel periodo accade che un grande regista come Kubrick lo chiama per fare le musiche di Arancia meccanica, perché era rimasto molto impressionato dalle partiture di Indagine su un cittadino al disopra di ogni sospetto di Elio Petri. Quando Kubrick lo cerca, Ennio è al lavoro per Giù la testa di Leone. Forse si è trattato di un malinteso. Altri dicono sia stato Leone a “marcare il territorio”. In ogni caso non se ne fece nulla. È vero, Ennio ci teneva a difendere la sua identità di compositore, ma il compromesso era in grado di trovarlo con quelle personalità che gli facevano capire che la loro opera non era un’approssimazione, ma una visione artistica. Nei film cui ha preso parte è sempre stato complice dei registi. Penso, ad esempio, alla sua esperienza con Pasolini. Io credo che con Kubrick non avrebbe trovato problemi. Anche perché Kubrick era stato molto chiaro con ciò che voleva. E poi anche perché Arancia Meccanica e Indagine, pur essendo film dissimili, hanno dentro la stessa “sporcizia”, cioè il racconto di quel detrito sociale che diventerà tematica in molti thriller degli anni ‘70. Quando due così s’incontrano, o ci sono sincronie straordinariamente importanti, oppure possono non compiersi mai. Forse è anche un bene che sia andata così.
Alessandro, tu sei un compositore e ti sei fatto conoscere da Morricone attraverso una tua composizione che lui ha giudicato molto positivamente. Di che cosa si trattava?
Quella sera del 9 maggio 2005 gli avevo consegnato un disco con più brani. In quegli anni avevo il desiderio di creare qualcosa di mio. Allora ero chitarrista, ma avevo iniziato a fare i primi esperimenti di composizione con il computer. Mi piaceva lavorare sul tessuto orchestrale. Devi sapere che gli Yes a casa mia erano come la bibbia. Io ho anche lavorato con Jon Anderson. Ecco, gli Yes aprivano i loro concerti con la Firebird suite di Igor Stravinsky. Fu così che divenne il mio compositore preferito. Quando scoprii la Sagra della primavera mi ricordo che andai al conservatorio di Como a prendere la partitura e iniziai a vedere come funzionava l’orchestra. Quel disco, ti dicevo, si componeva di vari esperimenti, ma la traccia 11 era una specie di rifacimento della Sagra della primavera. Lo avevo intitolato I sapori del bosco perché immaginavo una foresta con dei personaggi che avevo creato. È un pezzo di circa sei minuti dove ho cercato di ripristinare le sonorità della parte introduttiva. Non ero andato oltre. Alla fine scoprii che uno degli amori di Morricone era proprio Stravinsky. Dopo averlo ascoltato Ennio mi chiamò. Non trovandomi, lasciò un messaggio nella segreteria telefonica: mi invitava studiare composizione con un buon maestro per cercare una mia strada. Conservo ancora la registrazione.
Una domanda quindi a De Rosa compositore di musica assoluta: secondo te Ennio Morricone in questo settore musicale così esclusivo, è altrettanto riconoscibile come nelle sue composizioni per il cinema?
Questa è una bella domanda. Ci sono delle tendenze che tornano e ritornano. Ma la cosa che tu dici è molto interessante perché ci riconduce ad una problematica più grande. Per essere riconosciuti si deve creare anche un’abitudine in chi ascolta. Non è solo un fatto intrinseco all’elemento musicale. La sua musica per il cinema è famosissima e con un accordo riconosciamo subito che è Ennio Morricone. Ma la musica assoluta è meno conosciuta. Io riesco a identificare la sua mano, le sue tendenze, e anche l’intenzione che non riguarda esclusivamente il risultato o l’effetto compositivo, ma anche come lui esprime la sua sensibilità. Ci sono moltissimi effetti timbrici, ma è una riconoscibilità meno codificabile all’orecchio dei più. In Ennio c’è stata una continua evoluzione. Se ascolti il suo primo concerto e lo confronti con la Missa Papae Francisci ti accorgi che sono due cose diverse. Però ci sono degli amori, penso ad un certo uso della modalità, che alla fine rimangono e che, almeno nel mio caso, rendono possibile un riconoscimento.
Il film di Tornatore esalta l’universalità del genio musicale di Morricone, un genio che probabilmente già nel decennio 1965-1975 era riuscito a esprimere tutta la sua grandezza. È in quegli anni compie una vera e propria rivoluzione della musica per immagini, attraverso una ricodificazione stilistica di interi generi cinematografici e televisivi. Qual è l’eredità che Morricone lascia ai compositori della nuova epoca?
Rimangono molti messaggi. Rimane ad esempio il messaggio di comporre una musica degna nei confronti di un contesto ben più ampio rispetto a quello che è il suo utilizzo in un film. Questo ci riconduce ad un insegnamento ancora più importante che riguarda un tipo di approccio che definirei sacro, mistico, di grande devozione nei confronti di ciò che si fa. Nelle sue composizioni c’è qualcosa di più del semplice “impegno”. C’è una ricerca espressiva continua. Questo atteggiamento credo sia molto attuale e sia anche un grande antidoto nei confronti della società consumistica in cui viviamo. Ci spinge a trovare il valore, a dare valore a ciò che si fa. Lo trovo un insegnamento universale. Oggi alla musica del cinema e degli audiovisivi è richiesta un’altra cosa. L’attenzione è spostata altrove, nella prova dell’attore, ad esempio. Tu inizi a entrare nella psicologia del personaggio non con un tema musicale specifico, ma attraverso i dialoghi. Questo implica il fatto che spesso alla musica venga data un’importanza diversa rispetto a quella che ad esempio le conferiva Leone. C’è ancora la possibilità di recuperare la profondità: solitamente quando c’è viene più ricercata ed espressa in altro modo.
L’eredità di Morricone è quindi nell’aver saputo offrire un punto di vista diverso rispetto alle immagini. La grandezza di Ennio non sta tanto nella musica – che è bellissima – ma nel punto di vista che ci propone con quella musica in abbinamento alle immagini. Lui è in grado di spostare il nostro punto di vista. Prendi il finale di Fräulein Doktor di Lattuada. La musica ribalta quello che si è visto. C’è una spia che dopo aver mandato a morire migliaia di persone viene catturata e messa nel sedile posteriore di un’auto. In quel momento parte una musica straordinaria che descrive la pazzia di quel personaggio. Ennio riesce ad avere pietà anche di una figura come questa, rovesciando completamente quello che abbiamo metabolizzato durante il film. Non dico che la salva, ma la mostra per quello che è. Una bellissima donna che piange e ride al tempo stesso, mostrando tutta la sua follia. La musica sospende quasi da un giudizio. Queste sono cose fortissime, perché cambiano il punto di vista della nostra comprensione della realtà, del film, della storia dei personaggi e dei nostri sentimenti.
Alessandro, nel ringraziarti per la tua disponibilità, vorrei che ci dicessi in una battuta perché Ennio è un film da vedere…
Perché è film ricco di amore e tutti noi ne abbiamo molto bisogno.
michelangelocardinaletti@gmail.com
L'autore
- Michelangelo Cardinaletti (Fabriano 1993) è dottorando di ricerca presso l’Università per stranieri di Perugia e cultore della materia per le cattedre di Storia e critica del cinema e Storia del teatro e dello spettacolo dell’Università degli Studi di Perugia, dove si è laureato nel 2018 con una tesi sugli sceneggiati televisivi di Ugo Gregoretti. Si occupa di cinema e audiovisivi, con particolare interesse al contesto italiano. Ama la musica e lo sport. Dal 2009 fa parte dell’Associazione Italiana Arbitri della FIGC.