È indubbio che una delle cifre stilistiche della Commedia sia la sua poliedrica dimensione linguistica, la quale ha contribuito a consacrare l’opera attraverso i secoli. In questo lavoro approfondiremo un lato particolare di questo suo aspetto: l’uso di quel lessico volgare che è collocabile in fondo a un virtuale asse stilistico e diastratico.
Prima di cominciare, avverto che il testo del De Vulgari Eloquentia (DVE) e la sua traduzione in italiano saranno citate dall’edizione (FENZI 2012), mentre per la Commedia sarà preso a riferimento il testo (PETROCCHI 1967). La citazione della collocazione dei passi, tuttavia, farà riferimento ai capitoli e ai versi delle singole opere dantesche, cioè al DVE e alla Commedia. In conclusione, la traduzione dei passi della Bibbia citati sarà tratta dalla versione CEI 2008 consultabile al sito https://www.bibbiaedu.it/CEI2008/ .
- DAL DE VULGARI ELOQUENTIA ALLA COMMEDIA: TEORIA E PRASSI
1.1 La teoria del De Vulgari Eloquentia
Il DVE è un trattato in latino all’interno del quale Dante riflette su alcuni aspetti della lingua e della letteratura volgare, soprattutto alla luce dell’esperienza maturata durante l’esilio. Una «enciclopedia linguistica e stilistica» (MANNI 2013, p.37) dunque, che però non viene portata a termine. Ma quanto possiamo leggere è comunque sufficiente per delineare un quadro ideologico.
Il linguaggio è l’unica prerogativa dell’uomo. Fra tutte le lingue esistenti, solo l’ebraico prosegue la lingua parlata da Adamo (è noto come poi questa convinzione cambi radicalmente nelle pagine del Paradiso, in particolare in XXVI, 124 ss). Le altre lingue naturali sono invece il risultato di un processo di corruzione che ha le sue radici nella vicenda della Torre di Babele. La grammatica, o meglio la lingua grammaticale, cioè il latino, è un tentativo per rimediare a questa dispersione. Possiamo leggere quindi subito una caratterizzazione: da una parte il latino, lingua della grammatica e dunque sempre identica a sé stessa, dall’altra il volgare, lingua naturale e mutevole. Fra le due il volgare è la più nobile, in quanto strumento primario della comunicazione fra gli uomini.
Dante prosegue poi analizzando le lingue d’Europa per arrivare, attraverso una struttura concentrica che procede dal generale verso il particolare, a trattare i volgari italiani. Il volgare italiano è suddiviso in quattordici varietà, prendendo come punto di riferimento la catena degli Appennini. L’autore si spende così in un’analisi comparatistica dei volgari, la quale ha uno scopo ben preciso: trovare «decentiorem atque illustrem Ytalie […] loquelam» (DVE, I, XI, 1; «[la] lingua parlata italiana più bella e illustre» FENZI 2012, p. 77). Ma nessuna varietà, nemmeno quella toscana, sembra essere all’altezza. La sostanza dell’ideale linguistico viene allora affidata al canone letterario, più precisamente a quello poetico, attraverso una rassegna di autori illustri: autori cioè che hanno elevato la propria lingua a un livello unitario che esula la singola appartenenza geografica.
Nel libro II, purtroppo solo parziale, la questione è messa ulteriormente a fuoco. Dante si spende per un vero e proprio identikit del volgare illustre. L’autore precisa che questa lingua compete esclusivamente allo stile tragico, proprio dei temi sommi che raccontano all’uomo le sue finalità supreme: amore, salvezza e virtù. A questi temi elevati devono corrispondere tanto una preziosa costruzione metrica quanto una scrupolosa scelta dei vocaboli adatti.
Dante evidenzia poi un concetto fondamentale: condizione essenziale del volgare illustre è l’assenza di termini plebei o regionalmente marcati. Ma analizziamo dunque le parole che mette al bando:
«[IV] In quorum numero, nec puerilia, propter sui simplicitatem, ut mamma et babbo, mate et pate; nec muliebria, propter sui mollitiem, ut dolciada et placevole; nec silvestria, propter hausteritatem, ut greggia et cetra; nec urbana lubrica et reburra, ut femina et corpo, ullo modo poteris conlocare. Sola etenim pexa irsutaque urbana tibi restare videbis, que nobilissima sunt et membra vulgaris illustris. [V] Et pexa vocamus illa, que trisillaba, vel vicinissima trisillabitati, sine aspiratione, sine accentu acuto vel circumflexo, sine z vel x duplicibus, sine duarum liquidarum geminatione vel positione inmediate post mutam, dolata quasi, loquentem cum quadam suavitate relinquunt: ut amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securitate, defesa.
[VI] Irsuta quoque dicimus omnia preter hec, que vel necessaria, vel ornativa videntur vulgaris illustris. Et necessaria quidem appellamus que campsare non possumus; ut quedam monosillaba, ut sì, no, me, te, se, a, e, i, o, u’, interiectiones, et alia multa. Ornativa vero dicimus omnia polisillaba que mixta cum pexis pulcram faciunt armoniam compaginis, quamvis asperitatem habeant adspirationis, et accentus, et duplicium, et liquidarum, et prolixitatis; ut terra, honore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissimo, inanimatissimamente, disaventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, quod endecasillabum est. Posset adhuc inveniri plurium sillabarum vocabulum, sive verbum; sed quia capacitatem nostrorum omnium carminum superexcedit, rationi presenti non videtur obnoxium, sicut est illud honorificabilitudinitate, quod duodena perficitur sillaba in vulgari et in gramatica tredena perficitur in duobus obliquis.
[VII] Quomodo autem pexis irsuta huiusmodi sint armonizanda per metra, inferius instruendum relinquimus. Et que iam dicta sunt de fastigiositate vocabulorum, ingenue discretioni sufficiant.» (DVE II, VII, 4-7).
«[IV] Tra i quali non potrai in alcun modo comprendere né i puerili, per la loro ingenuità, come mamma e babbo, mate, pate; né i femminili, per la loro mollezza, come dolciada e placevole; né i selvatici per ruvidezza, come greggia e altri dello stesso genere, né infine i cittadini, scivolosi o ispidi che siano, come femina e corpo. Vedrai dunque che ti resteranno solo i vocaboli cittadini ben pettinati e quelli irsuti, che sono nobilissimi e costituiscono le membra del volgare illustre. [V] Definisco vocaboli ben pettinati i trisillabi e quelli molto vicini al trisillabismo, senza aspirazione, senza accento acuto o circonflesso, senza le consonanti doppie z e x, senza liquide geminate o poste immediatamente dopo una muta, e insomma quei vocaboli quasi levigati che lasciano nella bocca di chi li pronuncia una sensazione di soavità, come amore, donna, disio, vertute, donare, letitia, salute, securitate, defesa.
[VI] Chiamo poi irsuti tutti quei vocaboli, eccetto i precedenti, che sono una necessità e [o] un ornamento per il volgare illustre. Necessari sono quelli che non possiamo evitare, come certi monosillabi, quali sì, no, me, te, se, a, e, i, o, u’, le interiezioni e molti alti. Chiamo invece ornamentali tutti i polisillabi che, mescolati ai ben pettinati, rendono bella l’armonia dell’insieme, anche se hanno asprezza d’aspirazione e d’accento, di doppie e di liquide, e una speciale lunghezza: come terra, honore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissimo, inanimatissimamente, disaventuratissimamente, sovramagnificentissimamente, che è endecasillabo. Si potrebbe ancora trovare una parola o un vocabolo con un numero ancora maggiore di sillabe, ma poiché oltrepasserebbe la lunghezza di tutti i nostri versi, non è utile rispetto ai nostri attuali criteri, com’è quel honorificabilitudinitate, che nel volgare raggiunge le dodici sillabe e nella grammatica tredici, in due casi obliqui.
[VII] In che modo si debbano armonizzare dentro i versi siffatti vocaboli irsuti con i ben pettinati, lo lascio da trattare più avanti. E per chi ha un’innata capacità di scelta, basti quello che s’é detto sin qui sulla sublimità dei vocaboli.» (FENZI 2012, pp. 195-199).
I primi vocaboli a cui non si può ricorrere quando si affrontano i grandi temi dello stile sublime sono naturalmente quelli puerili («puerilia»), come «mamma», «babbo», «pate», e «mate», né tantomeno si può fare uso dei femminei («muliebria»), come «dolciada» e «placevole», perché privi di energia e ardore. Si aggiungono poi i termini agresti («silvestria»), come «greggia» e «cetra», esclusi per la loro asperità, cui seguono i cittadini leccati o spettinati («urbana lubrica et reburra») come «femina» e «corpo». Dante indica poi la classe rimanente, quella dei vocaboli cittadini ben pettinati e irsuti («pexa irsutaque urbana»), come la sostanza del volgare illustre. Questo primo paragrafo sembra dunque dedicato a una classificazione lessicale a metà tra la fonologia e la semantica.
Ai vocaboli cittadini ben pettinati però Dante dedica il paragrafo successivo, proponendo una classificazione stavolta tutta fonologica. Questi sono vocaboli trisillabici, o comunque molto vicini al trisillabismo («illa, que trisillaba, vel vicinissima trisillabitati»), privi inoltre di aspirazione, di un accento acuto o circonflesso e senza la z o la x geminate, senza le liquide doppie o immediatamente dopo una consonante muta. Questi termini, come «amore, donna» o «disio», lasciano in chi li pronuncia quasi una soavità («suavitate»).
Nel paragrafo successivo invece l’autore si spende per definire meglio i vocaboli cittadini irsuti. Fanno parte di questa categoria quei termini che, al di fuori dei precedenti, risultano per il volgare nobile una necessità («necessaria») o un ornamento («ornativa»). Necessari sono quelle parole a cui non si può fare a meno di ricorrere quando si comunica, come certi monosillabi («quedam monosillaba») quali «sì, no, me, te, se, a, e, o» e «u’». Sono invece ornamentali quei polisillabi che compaiono in presenza dei vocaboli cittadini ben pettinati e che abbiano inoltre asprezza di aspirazione e accento («asperitatem habeant adspirationis, et accentus»), oppure la presenza di doppie, di liquide o un corpo fonico molto lungo («prolixitatis»). Dante fornisce poi esempi: «terra, honore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilità, impossibilitate, benaventuratissimo, inanimatissimamente, disaventuratissimamente, sovramagnificentissimamente». Esclude poi ogni parola ancora più lunga di quelle menzionate (come «honorificabilitudinitate») per via della sua non adattabilità ai versi volgari.
Le ultime righe servono all’autore per dare un’anticipazione sommaria dell’argomento che sarà trattato nelle pagine che seguiranno: come armonizzare all’interno del verso i vocaboli irsuti con quelli pettinati. Si unisce poi una considerazione su quanto spiegato circa il lessico del volgare illustre: a chi ha senno queste indicazioni sono sufficienti.
Il trattato latino è rimasto però incompiuto. Molte le teorie che sono state fatte per questa sua interruzione, anche se probabilmente l’esaurirsi dell’esperienza lirica che lo aveva ispirato e i nuovi (e diversi) orizzonti stilistici della Commedia hanno giocato sicuramente un ruolo considerevole.
1.2 La pratica della Commedia
1.2.1 I vocaboli banditi
Nel paragrafo precedente abbiamo esaminato la teoria linguistica di Dante circa il volgare nobile. Ma come si adattano questi ragionamenti alle scelte che leggiamo nella Commedia? Il volgare del poema può essere definito illustre oppure si costruisce anche di elementi stilistici che hanno la loro origine nel volgare popolare? Cominciando a pensare alla Commedia come opera, è indubbio che questa si presenti degna del volgare sublime: i temi trattati sono tra i più alti e anche la struttura metrica è estremamente raffinata. Ma non occorre essere esperti conoscitori del poema per accorgersi che nelle sue terzine Dante cambia radicalmente idea sulle pedine del proprio volgare.
Cominciamo con una ricognizione dei termini banditi. Si pensi al vocabolo «mamma»: questo ha ben 4 occorrenze nella Commedia: potremmo supporre che la presenza di un vocabolo sconsigliato per il volgare illustre sia dovuta al peso stilistico dell’Inferno, cantica più incline a un registro basso. Ma non è così: la parola compare trasversalmente in tutte e tre le cantiche, registrando una comparsa nell’Inferno (If. XXXII, 9), due nel Purgatorio (Pg. XXI, 107; XXX, 44) e una nel Paradiso (Pd. XXIII, 121). La nostra supposizione iniziale si rivela, dunque, del tutto priva di fondamento.
«Greggia» invece ha 5 attestazione nella Commedia, due nell’Inferno (If. XV, 37; XXVIII, 120), due nel Purgatorio (Pg. VI, 24; XXIV, 73) e una nel Paradiso (Pd. X, 94). Anche qui la trasversalità della presenza del vocabolo ci porta a escludere una sua adozione prevalente nella prima cantica in virtù di un registro stilistico colloquiale o basso. Entriamo però più nel dettaglio e prendiamo in esame i casi di If. XXVIII, 120 («andavan li altri de la trista greggia») e di Pg. XXIV, 73 («sì lasciò trapassar la santa greggia»): «greggia» è certamente impiegato con l’accezione di “gruppo di persone” (in questa accezione il termine è usato sia prima che dopo la Commedia. TLIO, “greggia”), ma questa «greggia» può essere comunque sia «trista» (come nel caso di If.) che «santa» (come in Pg.). L’espressione della radicale diversità della condizione di due gruppi di persone, indicate con il medesimo termine, è dunque affidata all’aggettivo e non al sostantivo: possiamo dedurre quindi che per Dante la parola fosse priva di una connotazione spregiativa.
Fra i termini esplicitamente banditi nel DVE però quello che più è presente nella Commedia è sicuramente corpo, con ben 46 attestazioni (If. I, 28; V, 142; X, 15; XIII, 95; XX, 87; XXIII, 96; XXIV, 54; XXX, 75; XXXII, 58; XXXIII, 122, 130, 134, 146, 157; Pg II, 12, 89; III, 26, 95, 127; V, 26, 33, 124; VI, 20; X, 24; XIV 11; XV, 69, 135; XVIII, 124; XXIV, 87; XXVI, 12; Pd. II, 37, 39, 39, 50, 77, 113, 140, 143; X, 127; XI, 117; XIV, 59; XXV, 124; XXVIII, 64, 68; XXX, 39; XXXI, 90.). Contrariamente a quanto si possa supporre, non è l’Inferno la cantica con più occorrenze. Anzi, è la cantica in cui il vocabolo «corpo» compare di meno (solo 14 attestazioni). Si spartiscono il primato Purgatorio e Paradiso, con 16 occorrenze a testa. Se poi andiamo a vedere quale fra queste due cantiche abbia il canto con più occorrenze, il titolo spetta senza dubbio al Paradiso: delle 16 occorrenze totali della cantica infatti ben 8 si trovano nel canto II e, scendendo ancora di più nel particolare, «corpo» compare addirittura per ben due volte in un solo endecasillabo (v. 39: «ch’esser convien se corpo in corpo repe»).
Ancora una volta dunque siamo costretti dalle prove testuali ad abbandonare il pregiudizio secondo il quale i vocaboli plebei e realistici compaiano solo o prevalentemente nell’Inferno.
Analizziamo adesso la presenza di vocaboli con la z geminata. Una ricognizione del genere deve partire da una premessa fondamentale: non possiamo pronunciarci con eccessiva certezza sui risultati, perché di autografi della Commedia (e di Dante in generale) non abbiamo nulla, e nulla quindi possiamo congetturare circa il suo usus scribendi. Per indagare dunque quello che tutto sommato è un fatto fonetico, va considerata una moltitudine di variabili: il suono /ts/, che in italiano oggi è reso con < z >, poteva essere invece espresso in italiano antico in modalità grafiche che variavano da zona a zona della Penisola. Si consideri inoltre che non tutte le aree geografiche raddoppiano le stesse consonanti: quindi alcuni manoscritti che riportano il testo della Commedia potrebbero oscillare nella resa grafica dello stesso termine. Per esigenze di spazio, ci limiteremo a considerare in questo lavoro solo quei termini trascritti nel testo dell’edizione (PETROCCHI 1967) con < zz >.
Torniamo alle forme con z geminata. Per quanto fermamente condannati fra le pagine dell’opera latina, termini con questa struttura fonetica compaiono molto frequentemente nel poema. Di seguito le parole rintracciabili (per le medesime esigenze di spazio appena nominate, la ricerca si concentra solo su sostantivi comuni e aggettivi, le stesse classi chiamate in causa negli esempi del DVE):
Sostantivi: mezzo, magrezza, gravezza, altezza, franchezza, ampiezza, cozzi, strozza, pozza, sezzo, puzzo, gozzo, fortezza, lezzo, orizzonta, guazzo, stizzo, spazzo, riprezzo, rezzo, pozzo, battezzatori, mazza, dolcezza, guizzo, mezzul, ragazzo, pizzicor, vaghezza, cagnazzi, gravezza, orezza, orizzonte, palazzo, bellezze, empiezza, tepidezza, ricchezza, contezza, larghezza, giovinezza, nozze, sprazzo, sollazzo, secchezza, artezza, agevolezze, allegrezza, rattezza, chiarezza, baldezza, carezza, ebrezza, bozzacchioni, stoltezza.
Aggettivi: sozza, mozzi, bizzarro, drizzato, aguzza, azzurro, spezzate, pazzo, mazzerati, smozzicate, rozzo, mezzana, battezzato, lazzo, vizzo, sezzo, bozzo.
Già a una sommaria ricognizione appare evidente che la presenza di questi termini non può che essere trasversale alle tre cantiche: ciò ci porta a escludere, ancora una volta, che sia il colorito stilistico dell’Inferno la causa della presenza di questi termini all’interno del poema.
La circostanza si fa ancora più intrigante se analizziamo i casi in cui queste parole appartengono anche a sfere semantiche basse e popolari: sarebbe infatti una doppia contraddizione rispetto a quanto Dante aveva proposto nel trattato latino, dal momento che si tratterebbe di parole che andrebbero escluse sia per il loro corpo fonetico che per il loro significato, perché non adatte alla grandezza tematiche della Commedia.
Cominciamo ancora una volta dai sostantivi. Consultando i significati dei vocaboli sull’ED, è emerso che fanno riferimento a una sfera semantica popolare o bassa i termini di cui adesso discorreremo.
«Gozzo» ha una sola attestazione nella Commedia (If. IX, 98-99: «Cerbero vostro, se ben vi ricorda / ne porta ancor pelato il mento e il gozzo») e fa riferimento alla gola canina di Cerbero. Lo troviamo nell’apostrofe che il messaggero celeste rivolge ai demòni che tentano di ostacolare l’ingresso di Dante nella città di Dite. Come nota Bruna Cordati Martinelli «Il monito severo è espresso in linguaggio fortemente ‛comico’: l’indicazione del mento e del g. di Cerbero pelato dall’attrito con la catena di Ercole è assai icastica» (ED, “gozzo”).
Nel canto immediatamente successivo, il X, troviamo anche «lezzo», che ha qui la sua unica attestazione nel poema (If. X, 134-135: «per un sentier ch’a una valle fiede, / che ‘nfin là sù facea spiacer suo lezzo»). Deverbale di “lezzare”, è usato per indicare l’odore disgustoso (il «puzzo») «che’l profondo abisso gitta» (If. XI, 5).
Fin qui però siamo rimasti nell’Inferno, dunque non siamo tanto sorpresi dalla presenza di questi termini. La questione si fa allora più interessante con «puzzo»/«puzza»: il vocabolo ha infatti 6 attestazioni per la forma «puzzo» e 1 per la forma «puzza». Il significato è del tutto trasparente e delle 7 attestazioni totali nella Commedia solo 3 sono nell’Inferno (If. IX, 31; XI 5; XXIX, 50): il vocabolo è presente anche nel Purgatorio (Pg. XIX, 33) e, soprattutto, nel Paradiso, con le restanti 3 attestazioni (Pd. XVI, 55; XX, 125 e Pd. XXVIII, 26): la cantica della catarsi ineffabile, quindi, nomina la «puzza» quanto la cantica delle «rime aspre e chiocce» (If. XXXII, 1).
Continuando la nostra esplorazione in questa classe fonologica e semantica di parole, troviamo un altro caso molto interessante, sempre nella cantica del Paradiso: si tratta del vocabolo «bozzacchione» in Pd. XXVII, 125-126: «ma la pioggia continua converte / in bozzacchioni le sosine vere». Il termine indica precisamente la «grossa susina vuota e guasta» (ED, “bozzacchione”). Se allarghiamo lo sguardo all’intero canto XXVII però, noteremo che è in generale quest’ultimo ad essere particolare. Siamo nel canto della condanna, da parte di San Pietro, della contraddittoria opulenza della Chiesa: il Santo lamenta addirittura che il suo attuale rappresentante in terra abbia fatto del «cimiterio» suo «cloaca / del sangue e de la puzza» (Pd. XXVII, 25-26). Come è già stato sottolineato da molti però (per es. INGLESE 2016, p. 342), non sarebbe corretto pensare che l’uso di termini come «cloaca», «puzza» e «bozzacchione» sia da interpretare come dovuto alla scelta di un linguaggio comico: è infatti il linguaggio profetico a sfruttare questi toni. Sicuramente Dante aveva avuto modo di studiarlo sulle pagine della Bibbia (es. Is, 5, 4: «expectavi ut vinea faceret uvas et fecit labruscas», «mentre aspettavo che [la mia vigna] producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi»). Per l’intera terzina però Chiavacci Leonardi suggerisce anche l’influenza del proverbio toscano “Quando piove la domenica di Passione, ogni susina va in bozzacchione” (CHIAVACCI LEONARDI 2001, p. 494).
Un’ultima nota per gli aggettivi. Sembra particolarmente rilevante ai fini di questa ricerca il vocabolo bozzo: il termine indica precisamente «il marito “tradito”, “cornuto”» (ED, “bozzo”) e ha una sola attestazione in tutto il poema, sempre nel Paradiso (Pd. XIX, 137-138: «tanto egregia /nazione e due corone han fatte bozze»).
1.2.2 I vocaboli raccomandati
Passiamo adesso a una verifica sommaria della presenza nella Commedia dei vocaboli che invece Dante consiglia per il volgare nobile.
Non serve sicuramente una ricerca tanto approfondita per constatare che «terra», «onore» e «speranza» contano un numero decisamente elevato di attestazioni nel poema. Per quanto riguarda invece «gravitate» il caso è sicuramente più interessante. In questa forma latineggiante il vocabolo non è attestato nella Commedia, anche se compare il suo allotropo volgare «gravezza». Il vocabolo ha solo due attestazioni (If. I, 52; XXXII, 74) ma è sicuramente un caso rilevante visto che Dante preferisce la forma con z geminata al suo corrispettivo latineggiante consigliato sulle pagine del DVE.
Nessuna traccia invece delle altre parole «alleviati», «benaventuratissimo», «inanimatissimamente», «disaventuratissimamente», «sovramagnificentissimamente» e «impossibilità», quest’ultima nemmeno presente con il suo allotropo latineggiante “impossibilitate”.
Alla luce di questa sommaria ricognizione possiamo asserire che:
- l’ideologia linguistica di Dante si evolve dal DVE all Commedia;
- il pregiudizio secondo il quale vocaboli ritenuti plebei o inadatti ai grandi temi dell’opera compaiano solo o prevalentemente nella cantica dell’Inferno è infondato.
Occorre quindi, a questo punto, accennare alla dimensione plurilinguistica della Commedia.
- PROFILO DEL PLURILINGUISMO NELLA COMMEDIA E PRESENZA DI DIALETTALISMI
Per dare in modo immediato un’idea di quanto il plurilinguismo giochi un ruolo decisivo all’interno della Commedia, è sempre giusto partire con un esempio noto. Nelle pagine dell’Inferno leggiamo che Caronte è un «vecchio», «bianco per antico pelo» (If. III, 83), mentre nel Purgatorio Catone è descritto come un «veglio» «solo / degno di tanta riverenza in vista» (Pg. I, 31). San Bernardo, nel Paradiso, sarà addirittura definito un «sene» «vestito con le genti gloriose» (Pd. XXXI, 59). Per definire quindi la persona anziana Dante usa parole diverse a seconda della cantica di riferimento: il volgare per l’Inferno, l’allotropo di ascendenza provenzale per il Purgatorio e il latinismo ancora più raffinato per il Paradiso.
Ma lo aveva suggerito già Contini:
«Dei più visibili e sommari attributi che pertengono a Dante, il primo è il plurilinguismo. Non si allude naturalmente solo a latino e volgare, ma alla poliglottia degli stili e, diciamo la parola, dei generi letterari. […] Ecco in Dante convivere l’epistolografia di piglio apocalittico, il trattato di tipo scolastico, la prosa volgare narrativa, la didascalica, la lirica tragica e la umile, la comedìa» (CONTINI 1970, p. 171).
Il lessico è sicuramente il livello in cui la polimorfia linguistica della Commedia risulta più evidente.
La componente di base è il fiorentino, accolto in tutta la sua gamma espressiva: dalla parole più auliche a quelle più plebee. Presenti sono anche i latinismi, che naturalmente sono molto più numerosi nel Paradiso e segnano un raffinamento della lingua stessa. Si contano però latinismi anche nell’Inferno, cantica che addirittura contiene un intero verso in latino, cioè XXXIV, 1 «vexilla regis prodeunt inferni». I latinismi dell’opera hanno varia origine: possono infatti essere tratti dai classici, dalle Scritture o dalle opere tomistico-teologali, come anche da fonti lessicografiche o enciclopedie medievali. Abbondanti sono poi anche i latinismi di prima mano, caratterizzati da forme insolite (es. «tepe» < TEPĒRE in Pd. XXIX, 141).
Importanti all’interno dell’opera sono anche i tecnicismi, costituiti da cultismi e da elementi di lessico popolare. Spesso questa terminologia scientifica è però impiegata in contesti metaforici o all’interno di similitudini (es. Pd. XVII, 24: «ben tetragono ai colpi di ventura»). Molti di questi tecnicismi sono costituiti da grecismi i quali però, in virtù del coevo digiuno di greco dell’Occidente, sono sempre desunti da fonti latine. Lo stesso Dante poi si lanciava in creazioni di parole dal sapore greco, come «teodia» in Pd. XXV, 73. Un’altra anima delle voci scientifiche è poi costituita dagli arabismi (es. «cenìt» Pd. XXIX, 4: «quant’è dal punto che ‘l cenìt inlibra»), sempre assorbiti attraverso il latino.
Numerosi poi i gallicismi, come molti nomi in -anza presenti (soprattutto) nel Paradiso, insieme alle voci semantiche influenzate dal francese (es. «argento» nel senso di “denaro” in If. XXXII, 115: «El piange qui l’argento de’ Franceschi»).
Molto peso ha poi l’inventiva personale di Dante. Questa attività demiurgica emerge soprattutto nel Paradiso, il canto dell’ineffabile: si pensi per esempio ai molti parasintetici in in-, come «intuarsi» (Pd. IX, 81) e «indovarsi» (Pd. XXXIII, 138). Ma si tengano presenti anche alcuni nomi propri, come quelli dei diavoli in If. XXI: nomi come «Malebranche» o «Malacoda» alludono a qualità fisiche o caratteriali a partire dalla modifica di termini comuni.
2.1 Voci popolari e dialettali tra Inferno e Paradiso
Quello della Commedia è dunque un piano linguistico che si nutre di più componenti e che ha l’obiettivo di ricreare la polifonia di un mondo vivo. Vediamo dunque quali sono i casi più famosi di impiego di lessico popolare e dialettale tra Inferno e Paradiso.
2.1.1 Inferno
Nell’Inferno troviamo l’apice delle voci popolari fiorentine. In primo luogo, emerge subito la presenza di due forme che nel trattato latino vengono addotte come esempi di parole che pregiudicano al fiorentino la possibilità di innalzarsi a volgare illustre: si tratta di «manicare» e «introcque». Nel DVE leggiamo infatti nella condanna del fiorentino: «Locuntur Florentini et dicunt “Manichiamo introcque […]”» (DVE I, XIII, 2; «Parlano i Fiorentini, e dicono “Manichiamo introcque […]” » FENZI 2012, p. 95). Queste parole appaiono invece nel poema: a If. XXXIII, 59-60 «ed ei, pensando ch’io ‘l fessi per voglia / di manicar, di subito levorsi» e If. XX, 129: «sì mi parlava, e andammo introcque».
Si pensi poi anche a If. XXVIII, 22-24:
Già veggia, per mezzul perdere o lulla,
com’io vidi un, così non si pertugia
rotto dal mento infin dove si trastulla
Siamo nella nona bolgia dell’ottavo cerchio, dove sono puniti i seminatori di discordia. Per rappresentare i corpi mutilati di questi peccatori, Dante usa una metafora molto concreta: i loro corpi sono devastati in maniera maggiore di come sarebbe compromessa una botte se questa perdesse una delle doghe del suo fondo. Il concetto però è espresso con vocaboli fiorentini.
Secondo l’ED però in «veggia» è da leggere più un settentrionalismo che un fiorentinismo: il termine è comunque ancor oggi vivo in certi dialetti dell’Italia settentrionale ma è attestato anche in alcuni testi antichi toscani (ED, “veggia”).
Altre parole popolari che possono interessare il nostro discorso sono «scrofa» e «puttana». La prima ha una sola attestazione (If. XVII, 64), mentre la seconda ne ha tre (If. XVIII, 133; Pg. XXXII, 149, 160). «Scrofa» è utilizzato da Dante per indicare lo stemma di una famiglia di usurai mentre «puttana» ricorre nell’Inferno in riferimento a Taide, personaggio dell’Eunuchus di Terenzio. Per quanto invece riguarda l’attestazione nel Purgatorio il caso è più articolato. Vediamo i vv. 148-150 del canto XXXII:
Sicura, quasi rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m’apparve con le ciglia intorno pronte
Qui il vocabolo è usato per tradurre il latino biblico mulierem di Ap, 17, 3, «et vidi mulierem sedentem super bestiam» («Vidi una donna seduta sopra una bestia». Nel testo dell’Apocalisse però, il primo a riferirsi alla donna è l’angelo che così parla in 17, 1: «Veni, ostendam tibi damnationem meretricis magnae, quae sedet super aquas multas», «Vieni, ti mostrerò la condanna della grande prostituta che siede presso le grandi acque»). Dante ripropone così l’immagine scritturale per crearne una nuova, dove una meretrice è seduta sul carro che rappresenta la Chiesa: in Giovanni la «mulierem» è figura della Roma imperiale, in Dante della Curia corrotta. Il vocabolo quindi, al di là della sua semantica volgare, è usato per una costruzione elaborata che ha le sue radici in un modello biblico. Nella seconda attestazione, pochi versi dopo, il termine si riferisce sempre allo stesso designatum («tanto che sol di lei mi fece scudo / a la puttana e a la nova belva»). La parola, attestato fin dal XII secolo con l’accezione di «donna che pratica la prostituzione», appare ben diffusa quasi in tutta Italia già dal XIII secolo (TLIO, “puttana”).
Interessante poi l’impiego del vocabolo «stregghia» a If. XXIX, 76 «non vidi già mai menare stregghia / a ragazzo aspettato dal segnorso». In questo caso si tratta della scelta di un allotropo fiorentino (ma anche centro-meridionale) per “striglia”, lo strumento di ferro usato per la pulizia di cavalli e bovini. Presenta il normale esito [ggj] < -GL-, regolare nel fiorentino trecentesco (MANNI 1994, p. 315).
Un lessico poi popolare e grottesco è quello dei diavoli delle Malebolge che, oltre a possedere nomi particolari come sopra ricordato, hanno anche una parlata che sembra davvero consona al luogo che abitano. Si pensi a If. XXI, 100-102:
Ei chinavan li raffi e “Vuo’ che’l tocchi»,
diceva l’un con l’altro, “in sul groppone?”.
E rispondien: “Sì, fa che gliel’accocchi!”.
Si noti il termine tecnico “accoccare” usato con significato metaforico nel senso di “assestare”, con riferimento al processo di «adattare la cocca della freccia alla corda dell’arco (per “scoccarla”)» (GDLI, “accoccare”). Questa della Commedia pare proprio la prima attestazione, e il vocabolo è sempre rimasto tipico dell’area toscana (TLIO, “accoccare”. Naturalmente possiamo presupporre che fosse presente più anticamente il significato materiale di “sistemare la cocca della freccia sulla corda dell’arco”, anche se non se ne hanno attestazioni precedenti alla Commedia).
Possiamo chiudere questa rassegna restando ancora nelle Malebolge, citando If. XVIII, 25-27:
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva, e’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Da segnalare le voci espressive che approdano ad effetti di sorprendente drammaticità e crudezza. «Corata» è voce anatomica attestata fin dalla metà del XIII secolo e sembra diffusa solo nell’Italia Centro-Meridionale. Indica «gli organi interni del ventre degli uomini e degli animali nel loro insieme» ma in senso figurato può anche significare «cuore» o «animo» (TLIO, “corata”).
2.1.2 Paradiso
Abbiamo dimostrato che, anche a un controllo approssimativo, la terza cantica presenta una costruzione linguistica che non esclude le componenti più umili. Il sistema linguistico della Commedia si conferma dunque coerente a sé stesso, dall’inizio alla fine. Evidenziamo, in questo paragrafo, alcuni momenti del Paradiso di interesse per questa ricerca.
Cominciamo da un luogo che abbiamo già avuto modo di citare, Pd. XXVII, 22-27:
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ha del cimiterio mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa.
Si tratta, lo abbiamo detto, della collera di San Pietro di fronte allo stato corrotto della Curia romana. Abbiamo già avuto modo di commentare «puzza», ma qui tale immagine è collegata a quella della «cloaca» e del «sangue». Il vocabolo «cloaca», sicuramente quello dei due che più stona nel Paradiso, è un termine attestato proprio dal XIII secolo e pare diffuso in tutta la penisola (TLIO, “cloaca”. Di nuovo, il primo significato attestato è quello figurato di “luogo di sozzure morali, sentina di corruzione. [Per antonomasia:] l’inferno”. Possiamo perciò presupporre che circolasse ben prima il valore concreto di “condotto sotterraneo che convoglia le acque piovane e i rifiuti delle strade e delle case verso un luogo di scarico”). Mariani tuttavia, nelle pagine dell’ED, suggerisce che
«in tutta l’invettiva di s. Pietro, del resto, compaiono vocaboli latineggianti, che ben si addicono al principe degli apostoli, e che insieme riescono a non dare l’impressione di un sermo aulicus, bensì di un’accorata e sincera partecipazione alle vicende terrene della Chiesa; perciò non pare esatto, o non pare necessario notare […] che l’immagine della c. è suggerita dall’immagine della puzza, che rappresenta “le immonde turpitudini della curia”» (ED, “cloaca”).
Del resto, come insieme a Mariani nota anche Inglese, «cloaca» è formalmente un latinismo (INGLESE 2016, p. 335 lo definisce «lat. raro» mentre Mariani in ED «di diretta ascendenza latina»).
Un luogo molto simile che è rimasto nella memoria dei lettori è sicuramente rintracciabile nelle parola di Cacciaguida a Pd. XVII, 127-129:
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua vision fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’è la rogna.
All’interno del mandato divino a riferire la visione ultraterrena, qualunque conseguenza ciò comporti, Cacciaguida invita Dante a non preoccuparsi della reazione di chi si sentirà offeso dalle sue parole. Il termine «rogna» è attestato sin dal XIII secolo, circolando nella Penisola e nella Sicilia con il significato medico di «malattia cutanea contagiosa caratterizzata da intenso prurito, arrossamento della pelle e formazione di papule e vescicole» e quello figurato di «ciò che rappresenta un problema, un fastidio» (TLIO, “rogna”). Siamo quindi ancora davanti a una parola che stona con il contesto del Paradiso per il suo significato: il suo impiego però, a differenza del caso precedente, non può essere giustificato con una forma latineggiante. Il vocabolo rogna infatti è derivato volgare del lat. med. *ARANEA, con discrezione dell’articolo e regolare palatalizzazione della nasale dopo jod. Come però abbiamo avuto modo di commentare per la parola «bozzacchione», l’impiego di questo termine sembra motivato dal colorito tipico del linguaggio profetico scritturale (cfr. Iob, 2, 8: «qui testa saniem deradebat sedens in sterquilinio», «[Giobbe] prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere»).
Altro passo che ben si abbina a questa nostra rassegna può essere Pd. XXIX, 124-126:
Di questo ingrassa il porco Sant’Antonio,
e altri assai che son ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
In questo canto Beatrice condanna aspramente i predicatori del falso che pensano ad avere successo trascinati dal desiderio di mettersi in mostra. Della credulità del popolo si approfittano poi i monaci di Sant’Antonio per arricchirsi.
Nei versi in esame il riferimento sarebbe a Sant’Antonio Abate, spesso raffigurato con un porco ai piedi, simbolo del diavolo da lui più volte sconfitto. I monaci antoniani erano soliti allevare porci nei loro conventi: questi animali giravano così indisturbati, rispettati e nutriti dal popolo. Non c’è però concordia nella lettura di questi versi: alcuni infatti intendono «il porco Sant’Antonio» come soggetto (e sottointendendo un “di”): la frase dunque avrebbe il significato “di questo si ingrassa il porco di Sant’Antonio”. Chiavacci Leonardi però esprime le sue perplessità su questa lettura: in primo luogo essa renderebbe poco chiaro il secondo verso, visto che se gli antoniani sono allusi già nel primo non si capirebbe l’identità di questi «altri assai», e in secondo luogo un soggetto come «porco» non può giustificare il «pagando» del terzo verso. Il verso andrebbe dunque letto con «Sant’Antonio» come soggetto e «porco» come complemento oggetto (CHIAVACCI LEONARDI 2001, p. 530).
Il vocabolo «porco» appare attestato fin dal X secolo con il significato zoologico di «mammifero appartenente alla famiglia Suidi (Sus scrofa domesticus)» e compare in testi di tutta Italia (TLIO, “porco”).
Concludiamo questa breve rassegna con altre due voci popolari. La prima è «paroffia», leggibile in Pd. XXVIII, 84: «’l ciel ne ride / con le bellezze d’ogne sua paroffia» e significa “parrocchia” ma nell’accezione di “zona”, “regione”. La forma risulta attestata soprattutto in Italia mediana ma non è estranea al fiorentino popolare (INGLESE 2016, p. 351). Sull’origine della forma in [ff] è risultato decisivo l’intervento di Schiaffini (SCHIAFFINI 1922). Secondo lo studioso, il termine ha lo stesso valore della parola “parrocchia”, ugualmente diffusa nell’italiano antico, con cui condivide la base greca *παροχία (da πάροχος). Il passaggio χ > f sarebbe da imputare a un’alterazione del greco bizantino. Secondo l’ED, inoltre, «il termine […] è pure attestato nel Boccaccio (Teseida, VII 114) e, in modo sporadico, in altri testi coevi, anche umbri» (ED, “paroffia”).
Non si può poi non considerare la riproduzione di un dialetto estraneo a Dante, come quella che leggiamo in Pd. VIII, 73-75:
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”
Si tratta di una riproduzione del dialetto siciliano della folla («Mora, mora!») in occasione dell’insurrezione dei Vespri il 30 marzo 1282 a Palermo. L’uso del dialetto ha qui un preciso intento mimetico. Il verbo “morire” continua la base lat. volg. *MŎRIRE, in luogo del classico MŎRI deponente. Dell’esito siciliano «mora» si notino, a partire da un comune antecedente cong. *MŎRIAT, due differenze rispetto all’esito toscano “muoia” (probabilmente familiare al fiorentino di Dante, (ROHLFS 1968, pp. 298-299):
- esito non dittongato di Ŏ tonico in sillaba aperta [ɔ] (contrariamente al vocalismo tonico toscano per cui Ŏ tonico in sillaba aperta > [wɔ], come per es. HOMO > uomo);
- conservazione di [r] nel nesso [r] + [j] (contrariamente a quanto succede in toscano, in cui per es. CŎRIU(M) > cuoio).
Siamo quindi davanti a un caso in cui all’ uso del dialetto, precedentemente condannato sulle pagine del DVE, si accompagna un certo impegno nella resa mimetica.
- CONCLUSIONI
L’intervento si è articolato in due parti. Nella prima si è considerata l’ideologia linguistica di Dante così come è stata esposta nel DVE: quei principi teorici sono stati messi poi a confronto con le scelte stilistiche della Commedia, e si sono tratte alcune conclusioni. Abbiamo potuto evincere non solo che l’ideologia stilistica e linguistica di Dante muta, ma anche che la causa della presenza nel poema di lessico diastraticamente basso non è totalmente ascrivibile al colorito stilistico dell’Inferno.
Nella seconda parte, alla luce del plurilinguismo del poema, abbiamo analizzato la presenza del lessico dialettale e popolare tra Inferno e Paradiso. Di queste voci sono stati esposti i significati che avevano al tempo di Dante, tenendo sempre presente la distribuzione diatopica dei termini tra XII e XIII secolo e facendo alcuni cenni di grammatica storica.
Alla fine di questo breve intervento, possiamo ancora di più apprezzare come la Commedia abbia il suo motore nel dinamismo di un sistema linguistico che ha coscientemente rifiutato di essere torre d’avorio separata dal mondo, concentrata nella distillazione di sé stessa, per tuffarsi e mescolarsi nel mondo umano. Ed era proprio il mondo umano, con le sue nobiltà e le sue bassezze, a essere destinatario del messaggio salvifico che l’esperienza ultraterrena di un uomo fra gli uomini sta a testimoniare.
BIBLIOGRAFIA
Per la letteratura primaria:
- De Vulgari Eloquentia (FENZI 2012) = Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, a cura di Enrico Fenzi, in Alighieri, Dante, Nuova edizione commentata delle opere di Dante, Vol. III, Roma, Salerno Editrice, 2012.
- Commedia (PETROCCHI 1967) = Dante Alighieri, Commedia, edizione critica di Giorgio Petrocchi, Milano, Mondadori, 1966-1967, 4 voll.
- La Bibbia, testo tradotto dalla CEI ed edito nel 2008, disponibile online al sito https://www.bibbiaedu.it/ .
Volumi:
- CHIAVACCI LEONARDI 2001 = Anna Maria Chiavacci Leonardi (a cura di), Paradiso di Dante Alighieri, Bologna, Zanichelli, 2001.
- CONTINI 1970 = Gianfranco Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einauidi, 1970, pp. 169-193.
- INGLESE 2016 = Giorgio Inglese (a cura di), Paradiso di Dante Alighieri, Roma, Carocci, 2016.
- MANNI 2013 = Paola Manni, La lingua di Dante, Bologna, Il Mulino, 2013.
- MIGLIORINI 1992 (1960) = Bruno Migliorini, Dante, in Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1992, pp. 167-181.
- ROHLFS 1968 = Gerhard Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol. II Morfologia, Torino, Einaudi, 1968.
Articoli su riviste scientifiche o contributi in volumi:
- BALDELLI 1978 = Ignazio Baldelli, Lingua e stile delle opere in volgare di Dante in Enciclopedia Dantesca, Milano, Mondadori, 2005, vol. 4, pp. 87-176.
- FROSINI 2015 = Giovanna Frosini, Inventare una lingua. Note sulla lingua della Commedia, in “Libri e Documenti”, Vol. XL-XLI (2014-2015), 2015, pp. 205-223.
- MANNI 1994 = Paola Manni, Toscana, in “Storia della lingua italiana” a cura di Serianni, Trifone, vol. III: Le altre lingue, Torino, Einaudi, 1994, pp. 294-329.
- MARAZZINI 1994 = Claudio Marazzini, Il «De Vulgari Eloquentia» di Dante in “Storia della lingua italiana” a cura di Serianni, Trifone, vol II: I luoghi della codificazione, Torino, Einaudi, 1994, pp. 233-237.
- SCHIAFFINI 1922 = Schiaffini, Alfredo, Del tipo “parofia” ‘parochia’ (Dante, Par., XXVIII, 84), in “Studi danteschi”, vol. V, Firenze, Sansoni, 1922, pp. 99-131.
Dizionari e opere di consultazione:
- ED = “Enciclopedia Dantesca” in 16 voll., Milano, Mondadori, 2005, consultabile anche online: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Enciclopedia_Dantesca .
- GDLI = “Grande Dizionario della Lingua Italiana”, http://www.gdli.it/ .
- TLIO = “Tesoro della Lingua Italiana delle Origini”, http://tlio.ovi.cnr.it/TLIO/ .
L'autore
- Fabio Massimo Cesaroni si è laureato nel 2019 presso l’università “La Sapienza” in Lettere Moderne, occupandosi di letteratura italiana fra Settecento e Ottocento. Ha poi conseguito nel 2021, presso il medesimo ateneo, la laurea magistrale in Linguistica, discutendo una tesi di linguistica delle varietà (Tra scritto e parlato: analisi linguistica di un corpus di messaggistica istantanea). Nel corso dei suoi studi, ha approfondito anche argomenti di morfologia e linguistica storica. Collabora attualmente con alcuni blog come editor e articolista.