Nel 1982, ventinovenne, dopo alcuni anni trascorsi a Parigi e al termine di studi universitari conclusi con una tesi in medievistica, Roberto Rossi Precerutti pubblica una raccoltina poetica, Entrebescar, che riversa in forme brevi o chiuse – la seconda parte è tutta formata da sonetti – la sua profonda conoscenza della letteratura francese, e soprattutto della poesia provenzale. Se ad Arnaut Daniel e ad altri trovatori sarà poi dedicata una parte cospicua della sua futura attività di critico, l’insistenza su una forma poetica in cui la regolarità metrica coincide con una clausura del senso emerge, con singolare coincidenza cronologica, nello stesso anno, il 1982, nel quale Medicamenta di Patrizia Valduga, seguito di lì a poco da Rame di Gabriele Frasca, dà l’avvio al fenomeno del neometricismo (quello dei giovani, s’intende, perché Zanzotto e Sanguineti, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, praticano anche loro sonetti e strofismi regolari). Come ha sottolineato un giovane studioso torinese, Davide Belgradi, per il caso di Arnaut e dei suoi versi Rossi Precerutti parlerà di poesia come «struttura di separazione»; e a questa ‘separazione’ s’intona tutta la sua intensa attività poetica, che nei libri successivi continua ad esercitarsi nella forma del sonetto, del petit poème en prose – soprattutto come ekphrasis – e della sestina.
A una serie di libri pubblicati presso Crocetti (ne cito solo alcuni: Una meccanica celeste, 2000, Premio Lorenzo Montano 2001; Rovine del cielo, 2005, Premio Mondello 2006; La legge delle nubi, 2012; Rimarrà El Greco, 2015, finalista Premio Viareggio 2015) si sono aggiunti di recente quelli usciti per Neos edizioni (Vinse molta bellezza, 2015; Verità irraggiungibile di Caravaggio, 2020, finalista Premio Viareggio 2020; Il sogno del cavaliere, 2021, finalista Premio Guido Gozzano) e per Aragno (Fatti di Caravaggio, 2016, finalista Premio Viareggio 2017; Un impavido sonno, 2019, finalista Premio Viareggio 2019; e ora Genio dell’infanzia cattolica, 2021).
Mi soffermo però su Un sogno di Borromini (puntoacapo, 2018), la cui prima sezione, eponima, è costituita da un’alternanza geometrica di sestine e prose poetiche: una prosa d’avvio, tre sestine, nove prose, tre sestine, nove prose (tre delle quali comprendono anche forme inversi: due sonetti e una poesia di 14 versi brevi), tre sestine, più una prosa (con sonetto) e una sestina come explicit. Dieci sestine in tutto, dunque, nella ripartizione 3+3+3+1, e venti prose, nella successione 1+9+9+1 (numeri danteschi, si potrebbe dire), con incastonamento di sonetti. La sestina è forse il metro più difficile nella tradizione poetica occidentale: una sola ne aveva composta Arnaut, una Dante; solo il virtuosismo di Petrarca giunge a praticarla non più in modo rapsodico ed eccezionale, allineandone nel Canzoniere ben nove, di cui una doppia. Ma negli ultimi anni del Novecento, diventa una forma vitalissima. Quasi per paradosso, la complessità e i vincoli strettissimi del metro appaiono più stimolanti che precludenti, più vitali che d’ostacolo nella poesia contemporanea, della quale Andrea Afribo ha sottolineato la forte tensione al culto della metrica ‘chiusa’ come indizio di un «ripristino del momento oggettivo-rituale-comunitario della poesia di contro al genio individuale e al solipsismo dei ritmi non codificati della metrica libera».
Prendo spunto dunque da questo libro per rivolgere qualche domanda al poeta.
È curioso che proprio Lei sia quello che più si allontana dal modello arnaldiano componendo le sue sestine. Se è vero che, come recita un verso della sestina che riporto in chiusura, si tratta di una struttura che «nel continuo mutare è prigioniera» di se stessa, nelle Sue si riscontra un continuo alleggerimento del peso della parola-rima, per il quale quasi non ci si accorge di trovarsi in questo genere. C’è ovviamente una strategia sintattica – Lei non riduce mai la frase al singolo verso o al distico, come accadeva nella tradizione petrarchesca, ma lo fa non solo con l’inarcatura, bensì con una sintassi complessa, interversale, che non è facile da ottenere stando nella gabbia delle parole-rima –; e c’è una strategia ritmica, che prevede variazioni continue degli accenti per sottrarsi all’incantamento della struttura classica della sestina; ma ce n’è anche una lessicale, nel senso che i versi vengono costruiti con parole piene che stanno preferibilmente nel primo emistichio, e distolgono l’attenzione dalla parola-rima. Ci si scopre spesso a notare una certa parola rima solo alla quinta stanza, mentre prima era passata totalmente inosservata.
Ciò che più colpisce – e che va in direzione diametralmente opposta alle soluzioni, per dire, di Frasca – è la naturalezza dell’esito finale. In Non basta questo affanno, la parola «fuochi» emerge in sei accezioni completamente diverse, ed è inserita nel verso in un modo che disattiva il sistema dei modificatori con cui Gabriele Frasca, nel suo saggio sulla sestina, descrive le parole-rima. Si tratta, insomma, di sestine che non consentono una lettura con gli strumenti tradizionali.
Partiamo dalla concezione della strofa come klangbild, immagine acustica. Ovviamente, come è stato autorevolmente detto a proposito di una grande autrice di lingua tedesca, i vari livelli linguistici (fonico, metrico-ritmico, sintattico, metaforico ecc.) lavorano, ciascuno in autonomia rispetto agli altri, a costruire un’immagine. Non è però l’immagine a “liquefarsi” nella musicalità della strofa, ma la musica del significante strofico a strutturare l’immagine.
Dunque – continuando a citare lo scritto di Luigi Reitani su Ingeborg Bachmann – ciò che tento di raggiungere attraverso la consapevolezza dell’autonomia del significante poetico è “neutralizzare” la parola-rima, alleggerendola così della sua funzione di rafforzamento semantico della parola, oppure – all’inverso – immillandone le molteplici accezioni (sono debitore, a questo proposito, della lezione di Derrida, che ha segnato in parte i miei anni parigini con la teoria della disseminazione; il paradosso è che dal filosofo francese ho appreso che nessun testo è conchiuso una volta per tutte, perché – mi passi la rozza definizione – plurale… e io ho applicato questa intuizione proprio alla più vertiginosa forma chiusa: la prima sestina, infatti, la scrissi subito dopo aver ascoltato il Maestro).
E poi la sintassi, che rappresenta uno degli aspetti maggiormente caratterizzanti della mia ricerca: complessità, labirinto, indecidibilità gongorina (del grande poeta spagnolo sono stato innamorato traduttore).
Come Lei ha felicemente intuito, le mie sestine non consentono una lettura con gli strumenti tradizionali. Quanto alla composizione, devo dirle che il lavoro cresce intorno a un magma di suoni che poi si fanno parole, parole-rima, nel nostro caso, che non sono certo predisposte in anticipo sul foglio come sbarre di una prigione, ma nascono dalla situazione descritta da Iosif Brodskij con queste parole: «Poeta è qualcuno per cui ogni parola non è la fine ma l’inizio di un pensiero».
Su tale considerazione si misura, credo, la vicinanza tra sestina e sonetto: entrambi ambiscono a una perfezione chiusa, quasi un proustiano “tempo ritrovato” che è eternità senza dio: naturalmente, il tempo ritrovato di cui parlo con la spregiudicatezza che mi è concessa da una sorta di diritto di fraintendimento risiede nell’attraversamento della tradizione verso un’“eternità” breve, consapevole della nostra finitudine; l’eternità fragile di una parola in cui risuona il passato e scintilla il luminio del futuro, sempre ‘insorta’ contro la morte, che insegna ad abitare.
L’“inizio di un pensiero” è esattamente ciò che avrei voluto dire: mentre le sestine classiche sembrano esaurire il loro significato nel momento stesso della loro pronuncia – troppo scoperto è il gioco con le ‘sbarre’ per ingenerare qualcosa di più duraturo –, le Sue mi sembrano proprio raggiungere un livello per cui non si smetterebbe di leggerle proprio per via del pensiero che continuamente ne germina.
La “perfezione chiusa” di cui parla, poi, si attaglia benissimo alla sua poesia. Il ‘chiuso’ in particolare mi affascina, perché è anche come se tutto fosse detto in una stanza chiusa: anche quando la poesia è pronunciata davanti a un quadro, a occhi aperti. La voce delle Sue poesie crea uno spazio tutto interno, anzi lo ricrea, lasciando intorno solo frammenti del mondo, superando la finitudine delle cose. Mi chiedo dunque se anche per questo Lei predilige forme brevi, oltre che chiuse. Interrogandomi, recentemente, sulla scomparsa della forma-canzone nella poesia del Novecento mi chiedevo se si possa dire che la canzone (quella petrarchesca, voglio dire) è morta perché è scomparso il rapporto dell’io con il mondo che ne costituiva il fondamento. Anche se perfettamente costruito, infatti, il sonetto, come sottolineava Marco Praloran, «non può obiettivamente riprodurre un movimento argomentativo così complesso e soprattutto un movimento mentale rappresentato illusionisticamente in itinere, nel suo formarsi», come quello che sostiene le grandi canzoni petrarchesche.
Sono assolutamente d’accordo sulla ragione che Lei adduce per spiegare la scomparsa della canzone: è certo venuto meno il rapporto dell’io con il mondo che sosteneva quella complessa forma poetica. Tuttavia, per quanto mi riguarda, aggiungerei che nella poesia contemporanea è venuto meno anche quell’«imparare a vedere» di cui parla Rilke nella memorabile apertura dei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Tale attitudine è scomparsa, credo, quando si è esaurita l’esemplare funzione di “sistematizzazione” e conseguente “interpretazione” del mondo (se mi si passa la banalità della definizione) affidata non solo ai contenuti, ma alla struttura della canzone, in cui – cito ancora il Malte rilkiano – lo sguardo penetra più a fondo e non si trattiene dove sempre finiva.
Insomma, oggi è tramontata – ma non in me: lo attestano le mie sestine e anche i sonetti – l’idea della strofa come immagine acustica. Non è l’immagine a sciogliersi nella musicalità della strofa (i diversi livelli linguistici contribuiscono, ognuno autonomamente, alla formulazione dell’immagine), ma la musica del significante strofico a strutturare l’immagine.
Mi sembra latitare, in quasi tutti i poeti italiani contemporanei, la necessità di esprimere attraverso il testo poetico la dimensione originaria del linguaggio, che non è al servizio della significazione (riprendo alcune considerazioni di Massimo Cacciari espresse alcuni anni fa durante un incontro dedicato alla storia della rivista «Poesia» di Crocetti, La resistenza della poesia). La canzone, invece, esprimeva in modo esatto e preciso ciò che in modo approssimativo potremmo definire pathos, quel concetto di “emozione precisa” di cui parla Eliot. Di qui, dunque, la “necessità” della poesia, il suo «vero sapere».
Concludendo queste impacciate riflessioni, direi che la mia predilezione per le forme chiuse vuole attivare un processo in grado di rivelare, come avviene di fronte ai lavori di Rothko, «il colore del buio»: è l’unico modo che io conosca di abitare la morte, cioè di dare un senso alla nostra finitudine.
Proponiamo la lettura della quarta sestina della sezione eponima di «Un sogno di Borromini»
Nelle cose abiti, nel mutamento
della luce che accarezza la pietra
perché si sciolga in stupefatto spazio
l’angustia della corte prigioniera
fermata dalla curva dello sguardo
a un mattino di antica devozione.
Il respiro del chiostro è devozione
al raggio che prescrive il mutamento:
ferma un impavido sonno lo sguardo
di chi è sommerso sotto fredda pietra,
vestendo il soffio l’ala prigioniera
perché s’infiammi in carità lo spazio.
Sopra i ferri del pozzo ora lo spazio
circonda di un’azzurra devozione
i fogli che la mente prigioniera
abolisce dentro quel mutamento
che accoglie poi l’inaridita pietra
franta dai sortilegi dello sguardo.
Ostro di labbra fronte pura o sguardo
amoroso non comprende lo spazio
che s’infutura in fedeltà di pietra
sugli altari del cuore: devozione
alla mia ardente morte, al mutamento
del respiro, alla cobla prigioniera.
Nel continuo mutare, è prigioniera
la selva delle cose che lo sguardo
ordina dentro il solo mutamento
che soffre il cuore dal costretto spazio
portato in dono a questa devozione
la croce sigillando con la pietra.
Non può fiorire la povera pietra
se la matematica è prigioniera
di un ordine che non sia devozione
a questo scomparire dallo sguardo
pigro del mondo, dal costretto spazio
in cui scaglia la lama il mutamento.
Sentire nella pietra il mutamento
d’anima prigioniera, devozione
che si fa sguardo vuoto, insorto spazio.
L'autore
- Sabrina Stroppa è attualmente ordinario di Letteratura italiana presso l'Università per Stranieri di Perugia, dopo aver insegnato per vent'anni all'Università di Torino (senza dimenticare i sei anni di italiano, latino e greco nelle scuole superiori). Si occupa di Petrarca e di letteratura mistica. Da diversi anni studia la poesia italiana contemporanea, coordinando una serie di studi confluiti nei quattro volumi La poesia italiana degli anni Ottanta. Esordi e conferme (Pensa MultiMedia, 2016-2022).