Nato a Varese, Luca Cottini si è laureato in Lettere Classiche all’Università degli Studi di Milano. Trasferitosi negli Stati Uniti, ha conseguito un Master in Italian Studies presso la Notre Dame University e un dottorato in Studi Italiani ad Harvard. Professore alla Villanova University in Pennsylvania, Cottini esamina il rapporto tra tradizione e innovazione, e l’interazione tra cultura e imprenditoria. Da tempo i suoi studi si concentrano sull’industrialismo italiano, sulla fusione di arte e tecnologia che è cifra del nostro ‘percorso’. In quest’ottica, Italian Innovators si pone come un osservatorio privilegiato, un’inedita sonda sulla creatività italiana. Prima podcast poi canale YouTube, esso è un contenitore di storie, il tentativo di raccontare un’Italia viva, dinamica, attraverso figure di grandi innovatori – siano essi studiosi, industriali, donne e uomini di scienza, sport, musica, moda.
Professor Cottini, partiamo dalle origini. Come è approdato negli Stati Uniti?
Dopo la mia laurea volevo trovare una maniera di continuare a studiare e insegnare allo stesso tempo. In Italia per chi insegna è difficile sviluppare un percorso di dottorato e viceversa per un dottorando è molto difficile fare esperienze continuative di insegnamento. Per questo ho cercato fuori dall’Italia e in particolare negli Stati Uniti dove i programmi “graduate” sono concepiti come spazi simultanei di ricerca e insegnamento, dove lo studio non è separato dalla comunicazione e dove la professione non entra “dopo” un diploma ma è già parte del percorso. Detto questo, ho fatto domanda, giusto per non dire di non averci provato, mi hanno accettato alcune università e ho scelto di andare a Notre Dame. Da lí poi è partito un itinerario umano e professionale molto più lungo di quello che mi sarei aspettato che mi ha portato a Harvard, e poi a McGill e ora a Villanova.
Modernità letteraria e cultura industriale: i fari della sua produzione affondano le radici in una visione dinamica, figlia dell’incontro tra tradizione e innovazione. Occuparsi di questi temi, declinarli al presente – erodendo le dicotomie – ha anche un valore simbolico?
Cultura e industria sottintendono la stessa esperienza del portare frutto. In latino la parola cultura indica coltivazione e industria significa lavoro, laboriosità. Cultura e industria sono il lavoro necessario, in ambito intellettuale o materiale, a moltiplicare o ottimizzare una realtà data. In Italia l’immaginario artistico, poetico o visuale è intrinsecamente legato all’orizzonte del fare cosiddetto materiale. Non c’è separazione tra poiein (fare poetico) e prassein (fare pratico). In questo senso ricostruire il legame tra estetica e produzione significa individuare il cuore di un modello che cerca di dare forma alle idee e rilevanza intellettuale ai prodotti. Quando Depero firma una bottiglia per Campari l’oggetto si trasforma da cosa, merce a piattaforma di significato. Quando D’Annunzio crea il brand La Rinascente o dà il nome alla linea di sveglie Veglia il fare industriale acquisisce un valore estetico. Quando Gio Ponti teorizza la cultura del design un nuovo tipo ibrido di intellettuale emerge, capace di creare oggetti unici e allo stesso tempo seriali.
Il sapere umanistico conserva, dunque, una sua vitalità…
Tutti i personaggi di cui mi occupo hanno questo respiro umanistico che colloca l’attività accademica, professionale o imprenditoriale dentro un orizzonte più grande. Che Fabiola Gianotti, direttrice del CERN abbia un diploma in pianoforte o Sergio Marchionne, grande manager FIAT abbia una laurea in filosofia non è insignificante. C’è un modello, una formazione, che affonda le sue radici nella tradizione umanistica italiana, che genera frutti diversi o alternativi. Il successo degli innovatori italiani sta proprio in questa capacità di combinare bellezza e efficienza, profondità e leggerezza, heritage e innovazione tecnologica.
Italian Innovators si configura come un tentativo di conciliazione, un osservatorio privilegiato sulla nostra cultura. Come nasce l’idea? Raccontare l’Italia del passato, animata da passioni, talenti, prospettive vincenti, consente di individuare nuovi orizzonti. E il paese ‘reale’, quello più prossimo a noi, conserva una forza che si annida nelle origini.
Italian Innovators nasce dal dialogo tra la cultura italiana e quella americana. Per quanto strano possa sembrare, in realtà osservo la cultura americana a partire da quella italiana, evitando di presentare il mio modello come “migliore” e indicandolo invece come “alternativo,” cioè come luogo di una diversità creativa che obblighi a riformulare le proprie certezze, ad ampliare l’orizzonte, a non dare per scontato il reale. Rispetto al modello pionieristico americano, proiettato verso la frontiera e la ricerca illimitata della novità, il modello imprenditoriale italiano invece guarda al futuro con gli occhi rivolti al passato, ritrovando in esso non ceneri da adorare, ma la forza vitale che un tempo ha dato vita a quella che oggi chiamiamo tradizione. Per questo ho scelto la chiocciola come immagine simbolo del mio lavoro. Si avanza lenti (Sergio Pininfarina diceva “innovare ma non troppo”), ma dando vita a forme che aspirino a durare. Si avanza fuori ma solo dopo aver scoperto cosa si ha dentro, in modo tale da costruire prodotti che siano, manzonianamente, utili, veri e interessanti. Innovazione dunque ha a che fare con rilevanza, allo stesso modo in cui l’originalità in un’opera letteraria ha a che fare con la capacità di dare forma a un mondo.
I protagonisti delle sue storie sono ingegneri, artisti, donne e uomini legati al mondo del business, della moda, dell’educazione. Quanta ricerca c’è dietro ogni episodio?
Dietro ogni episodio c’è il lavoro di entrare in sintonia con i miei personaggi: di studiarli, di collocarli dentro un orizzonte storico (e in questo la mia ricerca accademica aiuta moltissimo), e di innamorarmi di loro. L’esperimento di Italian Innovators sta proprio in questo tentativo di conciliare rigore accademico con la passione per lo storytelling. Per fare questo con successo occorre molta pratica e molto dialogo con il pubblico. Un cammino di apprendimento, che è simile a quello che serve per imparare una lingua. Ultimamente, fare accademia seria su una piattaforma leggera come YouTube richiede di combinare sostanza e leggerezza, molteplicità e semplicità.
La sua selezione sembra guidata da un duplice intento: quello di riannodare i fili, offrendo ritratti dal valore paradigmatico, e quello di ‘stupire’ l’utente, che incontra storie e personaggi meno noti.
Certo. Per tornare alla mia storia, che racconto anche in uno dei miei video (My personal journey), io voglio essere allo stesso tempo studioso e insegnante. Lo stesso porto sul mio canale: da una parte, la passione di capire, di studiare come zelo (studium) di connettere punti e riannodare fili e dall’altra l’urgenza di comunicare ciò che ho trovato, ciò che mi stupisce, come dono gratuito e sempre nuovo. È da questa comunicazione urgente e appassionata che nasce una forma di conoscenza dinamica e, se vuole, teatrale. Una conoscenza che si fa atto, scoperta, dialogo. Una testualità che si fa linguaggio visivo. Una conversazione che si fa apprendimento (soprattutto nelle interviste dove sono io il primo a imparare). Una presentazione di temi che si fa incontro, condivisione, simposio.
Italian Innovators è anche un esperimento, un’idea di lezione che travalica le aule. Quanto è importante promuovere un sapere che raggiunga un pubblico più ampio, lo stimoli alla compartecipazione, a inter-legere la realtà?
L’insegnamento non è solo didattica o tecnica ma anche e soprattutto il rischio di comunicare se stessi, di lasciare un segno dentro proprio perché qualcuno l’ha lasciato prima in te. Non c’è in-segnante vero che non sia stato prima in-segnato. Il primo rischio è dire “questo vale”, “questo punto di realtà vale la pena, emerge sugli altri,” o anche solo “questo è bello.” Questo pesare la sostanza delle cose è il lavoro del pensatore (letteralmente pesatore), del critico, dell’educatore e dello scrittore. Dire ciò che vale e argomentarne le ragioni richiede il coraggio di mettersi a nudo, di mettere sul tavolo le carte che secondo noi rendono interessante la vita. Un insegnante lo fa davanti a un gruppo di studenti, un autore lo fa davanti a un gruppo di lettori, un content creator lo fa davanti a un gruppo di viewers, ma in fondo il gesto è lo stesso. Io ad esempio racconto agli americani cosa rende la cultura e lo stile italiano così attraente e cerco di spiegare perché in modo complesso e convincente. Perché il dialogo nasca ci vuole la pazienza di leggere, di interagire, e anche una scintilla particolare. Come Dante suggerisce, la favella come lingua poetica nasce solo da una favilla di fuoco donato.
Come evolverà il progetto? Ha in mente altri temi, nuove linee di indagine?
Nella quarta stagione, che inizia a settembre, oltre ai profili e alle interviste, introdurrò a grande richiesta delle brevi chiacchierate in italiano su alcuni dei personaggi che ho trattato nelle prime tre stagioni. Oltre a ciò, userò la piattaforma per organizzare conferenze tematiche con colleghi che vogliano rischiare un modello nuovo di comunicazione accademica. In questo momento, il successo di iscritti della piattaforma rende possibile utilizzare il canale come piazza virtuale di scambio tra ricercatori in varie discipline e luogo di interazione tra accademia e mondo del lavoro. Il sogno è che questa piattaforma possa diventare presto un centro online di ricerca sull’Italia a cavallo tra cultura e innovazione.
L'autore
- Ginevra Amadio si è laureata con lode in Scienze Umanistiche presso l’Università Lumsa di Roma con tesi in letteratura italiana contemporanea dal titolo Raccontare il terrorismo: “Il mannello di Natascia” di Vasco Pratolini. Interessata al rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta, ha proseguito i suoi studi laureandosi con lode in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con tesi magistrale dal titolo Da piazza Fontana al caso Moro: gli intellettuali e gli “anni di piombo”. È giornalista pubblicista e collabora con webzine e riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema e letteratura otto-novecentesca. Sue recensioni sono apparse in O.B.L.I.O. – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Italiana Otto-novecentesca. Collabora stabilmente con Treccani.it, con il blog del Premio Letterario Giovanni Comisso e con le riviste Frammenti, Npc Magazine, Sapereambiente, Cronache Letterarie. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del Cinema Italiano dedicato al cortometraggio.
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