Un volume di sobria eleganza editoriale propone in 259 pagine l’intero corpus poetico di un autore che senza enfasi è lecito definire un maestro. Tutte le poesie di Rodolfo Di Biasio (Ghenomena, Formia 2021, € 35) consente infatti di ripercorrere un itinerario che nei suoi necessari mutamenti nel corso di oltre cinquant’anni di scrittura si segnala per rigore e fedeltà a un’urgenza espressiva mai venuta meno. Nato a Ventosa sui Monti Aurunci nel 1937, Rodolfo Di Biasio è stato insegnante, collaboratore e direttore di importanti periodici letterari, autore di narrativa e di saggi, ma è soprattutto e inevitabilmente poeta. I suoi esordi, come per non pochi autori della sua generazione, si situano nel superamento critico dell’ermetismo secondo le più varie declinazioni di un apprendistato letterario che anche geograficamente, in questo caso, si avvicina alla lezione di poeti come Libero De Libero e Leonardo Sinisgalli.
Ma è la Storia, di cui Di Biasio conosce presto il volto tragico nel protrarsi delle devastazioni belliche lungo la linea di Cassino, il vero reagente che lo porterà ad una pronuncia originale dove l’eleganza della tradizione letteraria novecentesca si unisce a una scarnificazione del dettato che è in primo luogo morale. La sottrazione, parola chiave per avvicinare questo poeta, è dunque da intendere del superfluo, quanto non può che conferire al testo energia e verità. E perché questo risulti più chiaro Di Biasio colloca la sua prima raccolta (Niente è mutato, 1962) solo in appendice a Tutte le poesie, ad indicare come la propria voce risulti invece riconoscibile, in primo luogo a lui stesso, solo a partire da Poesie dalla terra (1972), volume che fa corpo con il seguente e a mio avviso decisivo Le sorti tentate (1977). Classicità – non mancano gli influssi cardarelliani come ebbe a osservare Giacinto Spagnoletti – e modernità volta all’essenziale interagiscono in questo libro di sorprendente limpidezza e significativa collocazione fuori tempo. Lontano dalle temperie del periodo in cui esce, tanto sperimentali neoavanguardistiche in letteratura quanto ideologiche, Le sorti tentate si fa ricognizione di un mondo arcaico che la Guerra – “ai bimbi si addice la maiuscola” – incrina per sempre, lasciando tracce che non si dimenticano. La crisi dell’antico paesaggio dell’Italia del Sud, già annunciata in Poesie dalla terra – “Sono poche le case che hanno i tetti, / quelli rossi di una volta, / quando la pioggia vi batteva / e le rondini sbirciavano dal nido / la nenia delle gocce alla grondaia.” – è collocata nell’urto di una Storia che, se agisce livellando come nei secoli ha sempre agito, opererà questa volta una frattura pasolinianamente irreversibile. E il paesaggio, lo stesso in cui Moravia ambientò un fortunato romanzo, è abbuiato da acquatinte di ispirazione goyesca nel rievocare le immagini dei “morti / che soldati portavano a dorso di mulo / a macerare nella scarpata / in poca terra / per salvarli dal graffio dei corvi / dei cani che non avevano più casa.”
Libro profondamente segnato dal dramma e dal dolore, Le sorti tentate è nondimeno aperto alla speranza e al mistero dell’esistere, che voci di ancestrale origine pagana rendono più fitto e incantatorio. Tale punto d’arrivo, tale giustezza probabilmente irripetibile, che avrebbe forse potuto avere ascolto più attento che non abbia ricevuto e costituire pertanto utile materia di riflessione, poneva tuttavia al poeta la necessità di un ripensamento. I decenni successivi vedono infatti Di Biasio impegnato nell’elaborazione di una personale scansione poematica nutrita di succhi classici e testamentari, che trova per generale riconoscimento il suo esito più persuasivo nella raccolta Patmos (1995). Ha osservato Luigi Fontanella (Raccontare la poesia. 1970-2020, Moretti & Vitali, Bergamo 2021) come il climax del libro si avverta fin dai versi di Shelley in esergo, in un presagio-desiderio di primavera fitto nei rigori dell’inverno (“O, Wind, / If Winter comes, can Spring be far behind?”). E forse non si andrà lontano dal vero cogliendo nei successivi poemetti una coloritura utopica nel confronto quasi ossessivo con la luce e con il mare.
Poesia lirica e di pensiero, Patmos nella tessitura dei sette pometti che lo compongono accentua la congeniale modalità in levare, a dar risalto a un ordito essenziale nella ricerca – dirà lo stesso Di Biasio – “non certo della parola pura, ma della parola puntuale”. Quanto ha sicuramente a che vedere con la più volte sottolineata discrezione di questo autore, ma a condizione di “ridare alla voce discrezione – cito ancora Fontanella – il significato originale dell’etimo, ovvero dal latino discernere, e perciò considerando il lemma come capacità, da parte dell’autore, di valutare, di volere distinguere, di vedere chiaramente”. Si tratta di una peculiarità, ma come si può capire anche di un programma, che conduce Di Biasio a una ricapitolazione del proprio percorso poetico portandolo in figura di passato a parlare con urgenza del presente. Il singolare trittico dall’ossimorico titolo Mute voci mute (2017) articola infatti nella maturata forma poematica temi e tonalità presenti in Poesie dalla terra e in Le sorti tentate, li enuclea e li “ricuce” in una scansione più fluida. Come in un antico retablo sono di scena la Guerra, la Fame e la Peste. La Guerra è la stessa che il poeta ha conosciuto bambino, ma è figura di tutte le guerre, di tutte le privazioni e derelizioni mai cessate e la Peste è una malattia dell’anima che porta a distruggere il Pianeta che ci nutre. “I vecchi ci dicevano / di non dissipare / acqua ed erba / che la notte sarebbe venuta / desolata / Ci dicevano che tutto è della terra…”. Parole di una saggezza a cui non abbiamo prestato ascolto e il risultato, almeno da un anno a questa parte, è sotto gli occhi di ognuno. Tuttavia, se drammatica e stringente è l’analisi, la poesia, e la fiducia che in essa il poeta ripone, sono ancora lì: “Un varco allora verso la luce”, a consentire un auspicio che potrebbe salvarci: “Ci tornino fraterne / le creature del cielo e del mare / della terra / Anche il serpe o il giacinto / spontaneo o la viola di ciglio / le stesse disimparate / per insensatezza di desiderio // Ci torni il loro nome / dismesso sulle labbra”.
L'autore
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Marco Vitale (Napoli 1958) vive a Milano dove al lavoro in biblioteca unisce la traduzione letteraria e le collaborazioni editoriali. Tra le sue traduzioni le Lettere portoghesi, Bur 1995, Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand, Bur 2001, Stanze della notte e del desiderio di Jean-Yves Masson, Jaca Book 2008, Miseria della Cabilia di Albert Camus, Nino Aragno Editore 2011. La sua poesia è raccolta nel volume Gli anni (Nino Aragno Editore 2018, premio Luciana Notari e premio Dino Campana 2019, premio internazionale Gradiva 2020) e comprende cinque volumi di versi.
È stato tradotto in tedesco da Maja Pflug (Ein Winter, Josef Weiss Editore, Mendrisio 2008) e in inglese da Barbara Carle (Emblems of Sleep, Gradiva, New York 2020). Collabora a “Cenobio”, a “Poesia”, a “Succedeoggi” e fa parte della redazione delle Edizioni di poesia Il Labirinto.
(foto di Dino Ignani)
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