A voler descrivere sommariamente la Galizia con un aggettivo, un motto – con due parole, insomma – è facile affermare, senza timore di essere smentiti, che questa remota zona dell’Europa Occidentale è una terra esoterica. Meta di un celeberrimo pellegrinaggio che sarebbe superfluo citare e che ne enfatizza il carattere mistico, regione posta alla “fine del mondo” e isolata per buona parte della sua storia, popolata da streghe e da maghe, vittima di pregiudizi che ne hanno celato per secoli la lingua e le tradizioni, la Galizia è – come vuole la formula- terra meiga. Una terra magica.
Tanto misticismo e oscurantismo (logicamente connessi) rendono ardua l’impresa di quanti vogliano conoscerne la storia, la letteratura e la civiltà. Benché in Galizia non manchi di certo una vivace e millenaria vita culturale, ci si imbatte al principio di tale impresa, in una matassa di dinamiche antropologiche, politiche, sociali e linguistiche che si scontrano con una grave e inevitabile carenza di fonti. Il vissuto storico-sociale galego ha ostacolato la conservazione e la creazione stessa di fonti scritte così come ha frenato un’efficace distribuzione e registrazione dei materiali esistenti. Diventa particolarmente importante, allora, guardare non solo alle poche testimonianze scritte reperibili (dirette e indirette, galeghe o castigliane) ma anche prestare debitamente orecchio a quelle che – atavicamente – sono le fonti più attendibili: i testimoni oculari.
Nelle righe che seguono e secondo questa prospettiva vorrei far luce su qualcosa che ha richiamato la mia attenzione grazie a una delle lezioni offerte quest’anno dal Centro de Estudos Galegos (CEG) della “Sapienza” Università di Roma, diretto dal professor Attilio Castellucci: il Teatro Galego. Sarà il caso di far notare fin da subito che quando si parla di Teatro Galego si parla inevitabilmente di un teatro contemporaneo, venendo a mancare appunto registrazioni e attività teatrali – professionali o criticamente impostate – antecedenti al secolo scorso.
La lezione del CEG ha contato sulla voce di una testimone oculare d’eccellenza, invitata per l’occasione a parlarci della sua esperienza entro l’ambito della drammaturgia galega: l’attrice Manuela Varela.
Nata a San Sebastián nel 1978, figlia di migranti galeghi, Manuela torna in Galizia all’età di nove anni e da quando ne ha undici inizia il suo percorso teatrale che la porta a diventare una delle protagoniste del Teatro Galego contemporaneo. Attiva principalmente in Galizia, dove la sua opera performativa si esplica soprattutto in spettacoli in lingua galega, lavora per diverse compagnie teatrali di rilievo (Teatro de Noroeste, Teatro do Atlántico, Centro Dramático Galego, per citarne alcune), occupandosi di teatro classico e di repertorio, di teatro postmoderno e infantile; è nota anche per diverse performance televisive (si ricordi ad esempio il suo primo importante lavoro in Santiago, Ciudad de piedra diretto da Ángel Peláez).
Prima di cedere a lei la parola attraverso l’intervista, è opportuno fare un piccolo passo indietro e contestualizzare storicamente e socialmente la realtà da cui nasce e su cui si fonda il Teatro Galego contemporaneo. Sarà importante soprattutto, per i non addetti ai lavori, chiarire da dove parte il blocco linguistico e culturale che impedisce al sistema artistico galego di affermarsi.
Logicamente, il Teatro Galego contemporaneo poggia su una storia ben più antica di cui recepisce le contraddizioni e – per quanto concerne la sua diffusione e le difficoltà a questa legate – i limiti.
Come è accaduto con la letteratura in lingua galega, anche il teatro – e forse questo più criticamente della prima – soffre dell’onda lunga dei cosiddetti “Secoli Oscuri” e della più recente censura franchista, periodi che determinano quel pregiudizio verso la lingua e la cultura galeghe cui sopra si accennava e la conseguente penuria di fonti.
Entrambe i periodi hanno fatto sì che la produzione in lingua galega, letteraria o drammatica, subisse affatto una damnatio memoriae e un sistemico oscurantismo, abusi di cui le voci galeghe ancora pagano le conseguenze.
Durante i Secoli Oscuri (sec. XVI-XVIII) non si scrive quasi nulla in lingua galega. La Galizia è annessa al Regno di Castiglia dopo una serie di lotte punite con una dura repressione che passa in special modo attraverso la mortificazione della cultura e della lingua locali. L’aristocrazia castigliana blocca la documentazione e la produzione in lingua galega ed è artefice di spregi e umiliazioni a danno della popolazione regionale. Parlare in galego, scrivere in galego, essere galeghi è motivo di mortificazione e discriminazione.
Bisognerà attendere la pubblicazione dei cantari di Rosalía de Castro nel 1863, partoriti all’ombra dei movimenti nazionalisti galeghi e la cui data di uscita coincide non a caso col canonico inizio del Risorgimento Galego, per assistere a una prima rivendicazione e a un tentativo di riconoscimento della lingua scritta. La poesia passa finalmente per lo scritto e cerca un suo spazio, rivendica una dignità che manca da secoli, dal medioevo. La figura di Rosalía, di una donna, come guida simbolica della ribalta culturale, in una terra silenziosamente ma fortemente matriarcale, giocherà un ruolo decisivo anche nell’affermazione dei movimenti femministi attuali, decisamente molto sentiti in Galizia e di cui si troverà traccia anche nel teatro (come si vedrà dalle stesse parole di Manuela Varela).
La rivendicazione linguistica e culturale ha i suoi effetti ma la nuova spinta culturale si affievolisce ben presto, forse troppo presto, sotto il torchio del Franchismo. Durante questi anni – in cui non è legalmente proibita l’espressione in lingua galega ma in cui una serie di discriminazioni e atti punitivi collaterali rendono di fatto effettiva una censura non esplicita – il teatro galego vive in clandestinità. Si tratta di un teatro giovane, non professionale, che sconta una deficienza di secoli e la cui attività è in mano a compagnie dilettantistiche che operano disseminate in zone isolate della Galizia e che paga quindi caramente il prezzo della clandestinità. Agli occhi di chi osserva la realtà teatrale galega, pare che fra gli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, l’attività teatrale non esista. Alcune sporadiche attività drammatiche, a ben vedere, sono visibili intorno agli Sessanta e a ridosso della morte del dittatore, grazie a concorsi che riuniscono le disperse compagnie teatrali esistenti. Nulla però viene fermato, registrato o memorizzato dalla critica e dalle storie della letteratura o del teatro. E soprattutto, molti dei testi presentati – per il Certamen do Miño ad esempio – non sono rappresentati ma solo scritti. Tutto sembra, ancora, confondersi nell’abituale oblio.
Con l’attività di Roberto Vidal Bolaño il teatro è finalmente protagonista di una vera e propria rivoluzione. Bolaño nasce a Santiago de Compostela nel 1950, dove muore nel 2002, e la sua carriera nel teatro prescinde da una formazione accademica. Lavora come macchinista, come tecnico e poi come attore, scrive anche come critico teatrale per El ideal Galego, ed è insomma all’interno del teatro, lavorando concretamente con i mezzi del mestiere e senza titoli accademici, che matura la sua idea di un teatro nuovo, professionale, un teatro che debba uscire dall’ambito amatoriale e popolare e farsi teatro nazionale, rappresentante della cultura e dei costumi galeghi in Galizia e in tutta la Spagna. La strada non è certo semplice e ancora oggi il suo lavoro – recentissimo nell’ottica della formazione di una dimensione artistica e di un sistema di generi – non può certo definirsi concluso.
Nel 1974 Bolaño fonda il gruppo teatrale Antroido, gruppo da cui comincia la professionalizzazione del Teatro Galego e da cui partiranno le esperienze delle successive compagnie teatrali (alcune di queste ancora operative in Galizia e già citate sopra, Teatro do Atlántico, Centro Dramatico Galego, Teatro do Noroeste).
Bolaño diventa impresario – rischiando economicamente in prima persona – di Antroido e ricerca per la compagnia un teatro stabile, degli attori, costumi, attrezzature di scena. Esiste la compagnia e inizia così il cammino professionale degli attori e del teatro; manca però un repertorio e manca per giunta una lingua normalizzata. Quando Bolaño scrive non esiste ancora una norma ortografica per la lingua Galega, manca uno standard, e non esistono testi teatrali classici in lingua galega conosciuti dal pubblico e a questo riproponibili. Bolaño cerca di ovviare a tali problemi adattando per la messa in scena i testi di quei romanzi galeghi che avevamo riscosso nel frattempo una discreta fortuna (si pensi a Eduardo Blanco Amor, ad esempio) oppure adattando e traducendo testi teatrali stranieri, dedotti dai repertori del teatro classico, in particolare francese e inglese.
Gli spettacoli messi in scena da Bolaño presentano in questo periodo una riflessione sul potere dal punto di vista dei potenti o dal punto di vista degli oppressi, accostandosi alle tematiche della dittatura e della rivoluzione; cercano una rivoluzione anche nella qualità della stessa messa in scena. Bolaño sperimenta un linguaggio teatrale nuovo, un teatro in cui la scena invade il campo e si getta nel pubblico, sfondando la quarta parete. A mancare però è anche questo ideale pubblico con cui si cerca di comunicare e di interagire. La popolazione galega è abituata a un teatro popolare, amatoriale, relegato alla dimensione del folclore, non è avvezza alle rappresentazioni teatrali nello spazio fisico di un teatro canonico. E, per giunta, la popolazione galega è poca. Il territorio conta pochissimi centri urbani e risulta disseminato di villaggi e piccoli paesi rimasti vuoti dopo le onde migratorie del secolo appena trascorso.
Lo sforzo di Bolaño in questo senso è enorme: si adopera per avvicinare quanto più pubblico possibile al teatro, opera pressioni sulla classe politica dirigente affinché venga vista e riconosciuta una cultura “alta” in Galizia e, con grande lungimiranza, inizia a lavorare nelle piazze, con le marionette e per un teatro infantile, con lo scopo di avvicinare i bambini al teatro, di abituare il pubblico, fin dall’infanzia, all’arte drammatica.
L’impulso dato da Bolaño alla maturazione – se non alla creazione stessa di un teatro in Galizia – è enorme e ha successo. Si uniscono al suo nome quelli di altri importantissimi autori di teatro che garantiscono una continuità a questa spinta propulsiva. Oggi, nei grandi centri urbani di Santiago de Compostela, A Coruña, Vigo e Ourense si contano numerosi teatri, grandi e piccoli, sovvenzionati o meno dai municipi locali; vanno in scena opere straniere in lingua straniera o tradotti, e va in scena finalmente un teatro in galego.
Non c’è però da illudersi molto sulla riuscita di questo percorso: è difficile stabilire cosa sia, e quali spazi abbia, un teatro propriamente galego, inteso come rappresentazione di gusti e riflessioni rappresentativi della Galizia e della sua società così come espressione della stessa, tormentata, lingua galega. Attualmente il teatro soffre di una mancata pubblicizzazione e di uno scarso interesse di pubblico. I centri urbani restano pochi, i paesi e i villaggi contano uno scarsissimo numero di abitanti o sono lasciati in uno stato di totale abbandono. La crisi economica del 2008 ha gravato molto – ovunque – sulle politiche culturali e quanto si è perso in Galizia non è stato più riguadagnato. I municipi, che sono necessariamente in prima linea nella sovvenzione e nella gestione delle attività teatrali sul territorio, non contano dipartimenti in grado di gestire esclusivamente le attività culturali, avendo spesso in mano la gestione dello sport, dell’educazione, delle feste e della attività locali. Le trafile burocratiche per le sovvenzioni municipali sono poi ostiche e lunghe; spesso i municipi filtrano e controllano l’attività teatrale, bloccando o modificando l’espressione artistica di registi e compagnie d’avanguardia per presentare allo scarso e difficile pubblico opere che garantiscano un afflusso dignitoso negli spazi messi a disposizione. C’è poi un effettivo contrasto fra compagnie che mettono in scena un teatro classico e di repertorio e compagnie postmoderne che si dedicano al teatro d’avanguardia e all’esplorazione di nuove forme espressive: un contrasto che impoverisce e che inibisce una situazione già molto complessa e che Manuela Varela lamenta, sperando in un dialogo costruttivo per il bene delle arti sceniche e per l’avanzamento della cultura in Galizia. C’è infine l’apporto della globalizzazione, che riguarda finalmente anche l’isolata (fino a poco tempo fa arretrata) Galizia, e che da una parte apre una serie di nuove prospettive e sperimentazioni al mondo teatrale e culturale, ma dall’altra spersonifica l’identità locale, gettando una regione piccola e pregna di peculiarità, nel villaggio globale e inibendone – ancora! – l’espressione nella lingua natia. In conclusione, l’arte scenica (e non solo questa) non ha vita facile; ma la difficoltà di farsi strada non inibisce lo spirito artistico dei galeghi e il loro grande, appassionato, desiderio di far conoscere sé stessi, la loro terra, la loro lingua e le loro tradizioni. Ed è qualcosa di cui poter essere in qualche modo grati perché tanta perseveranza ci offre la possibilità di accedere al mondo galego.
L'autore
- Dottoressa di ricerca in Italianistica presso “La Sapienza”, Università di Roma. Ha seguito un percorso accademico incentrato sulla Filologia italiana e romanza ed è diplomata in Archivistica presso la Scuola Vaticana di Paleografia, Archivistica e Diplomatica. Si occupa di cantari, di letteratura popolare del Cinquecento e della Storia delle donne. Ha vissuto per un periodo a Santiago de Compostela, lavorando presso il Museo do Pobo Galego, dove ha svolto ricerche sulla letteratura e le tradizioni popolari galeghe e sulla scrittura femminile. Attualmente è docente di Lettere a scuola.
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