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Michele Bordoni intervista Alessandro Rivali

Il suo ultimo libro La terra di Caino (Mondadori 2021) ha come protagonista centrale il noto personaggio biblico che, dopo l’uccisione del fratello Abele, viene maledetto e costretto a vagare per la terra. La terra, come da titolo, è l’altra protagonista del libro, e viene descritta in bilico fra dannazione e redenzione, fra morte e promessa di salvezza (“I corpi oscillavano alle forche, / diventavano otri nello stagno, / inseguiti dalle torce e dai dardi. // Ma gli uomini non si rassegnavano / al ferro di maschere e uncini: / ricordavano promesse e giardini”). Caino, nei gangli della storia, è il testimone muto degli accadimenti, colui che ne interroga il senso e che ha fiducia in una ricomposizione ulteriore degli eventi. Quanto questo Caino, in bilico fra l’assassino e il penitente, rappresenta l’uomo moderno?

Certo, il mio Caino rappresenta l’uomo del nostro tempo con le sue fragilità. È un personaggio di fantasia che si discosta da quello della Genesi. Non è solo l’assassino ramingo per le strade del mondo e della storia, ma anche un uomo tormentato dal rimorso per il fratricidio e cariato dalla nostalgia. Sente la mancanza del paradiso perduto dai suoi genitori, si rammarica per il rapporto infranto con suo Padre Dio, per le relazioni liquide e incerte con gli altri uomini. È un uomo che vive un amore guasto, spazzato dalle crisi interiori, ma anche un viator sempre assetato di bellezza. Quando incontra i segni della bellezza ritrova frammenti di paradiso; epifanie che possono darsi nella misericordia verso lo sconfitto, contemplando la natura o il profilo inatteso di una donna. Un paradiso per bagliori: è un’immagine che ho ereditato dallo studio della figura di Ezra Pound, in particolare dei suoi ultimi anni, quando appunto “cercava di scrivere Paradiso” per concludere i suoi travagliatissimi Cantos.
Il mio Caino è simile a Giobbe: ha una profonda ferita nel cuore e continua a interrogarsi sul senso del male. In particolare, del male che colpisce il giusto e l’innocente; per questo ho immaginato il suo vagabondaggio nei paesaggi ulcerati della storia, le terre di nessuno della Prima guerra mondiale, le città devastate dai bombardamenti, gli uomini passati al vaglio della tortura. È un Caino che si affaccia sull’abisso, alle porte del mistero, che montalianamente non si accontenta che la realtà sia solo quella che si vede.

Ancora una riflessione sul perdono: alcune delle suggestioni sul tema della misericordia vengono dall’amicizia con Arrigo Cavallina. Fu una figura di spicco negli Anni di piombo quando fondò i Pac (i Proletari armati per il comunismo) che commisero atti sanguinosi. Ebbe una straordinaria storia di conversione (che racconta nel toccante memoir La piccola tenda d’azzurro uscito per Ares) e diventò un leader della dissociazione. Rimasi molto colpito quando mi confidò che lui non voleva essere solo il sangue che aveva versato. Aveva iniziato una nuova vita (tra l’altro spesa per la dedizione agli altri), credeva (e crede) che sia giusto concedere una seconda possibilità a chi ha sbagliato. Forse non è un caso che il mio personaggio preferito dei Vangeli sia il buon Ladrone che conquista il Cielo in extremis.

Caino, nel suo volo storico da un’estremità all’altra del tempo, incrocia parecchie figure: Gilgamesh, una Straniera (che pare essere allegoria dell’“empatia / essere-con, essere-per”), un’amata, le figure dei cimiteri di Milano e Staglieno, la mummia Ötzi, i morti della bomba di Hiroshima, la statua di Margherita di Brabante. Lo sguardo di Caino sembra (a mio avviso) molto simile a quello dell’Angelo della Storia di Paul Klee nella nota interpretazione benjaminiana, incapace di “ricomporre l’infranto” perché trascinato oltre dal vento che si impiglia nelle sue ali: Caino, allo stesso modo, incontra brandelli di “vite feconde” senza riuscire però a riconnetterle a una visione unitaria, costretto come è a perderle nel suo viaggio. È un’interpretazione plausibile? Perché proprio queste figure così dissimili fra loro?

Tra le mie letture non c’è Benjamin, almeno non ancora e chissà che questa conversazione non possa essere uno spunto fecondo, di certo l’immagine che mi offre è molto suggestiva e si attaglia bene al mio Caino.
Il sogno di Caino è proprio questo: ricomporre l’unità perduta, il mondo andato in pezzi dopo il suo peccato. Mi fa molto piacere il richiamo all’empatia (su cui ha tanto lavorato una scrittrice che amo come Edith Stein). A proposito dell’universo infranto, ho avuto la fortuna di incontrare il filosofo Robert Spaemann che, dopo l’attacco alla Torri Gemelle del 2001, delineò un quadro allarmante quanto profetico dell’uomo del futuro: schiacciato dall’individualismo, disincantato, che vive in un orizzonte impoverito in cui l’unica realtà da inseguire è quella del piacere.

Il mio Caino è sognante, vive un corpo a corpo con la malinconia. È un sentimento però che lo muove all’azione, a cercare e, se possibile, “praticare” il bene perduto. Nella nostra società della prestazione guardiamo con sospetto alla malinconia. Parola che lasciamo agli “sconfitti”. Eppure, può essere una dimensione che apre a una maggiore pienezza. Ci può portare verso la vita autentica, come ricordava Romano Guardini nel Ritratto della malinconia (Morcelliana), libricino meraviglioso su cui periodicamente ritorno: “Malinconia vuol dire affinità con lo spazio infinito; con le vuote lontananze: il mare, la brughiera, i nudi dossi montani, l’autunno che fa cadere le foglie e dirada e schiarisce gli spazi; il mito, con le sue distanze temporali, che si perdono nell’indefinito passato… Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore”.

Almeno tre sezioni del libro sono dedicate ai cimiteri e alle tombe: Le città dell’ombra (in cui sono descritti i cimiteri di Milano e di Staglieno), La tomba degli amanti (ispirata al gruppo marmoreo che Luigi Orengo dedicò nel 1909 alla defunta Maria Delmas) e Margherita (dedicata alla tomba di Margherita di Brabante nel Museo di Sant’Agostino a Genova). Alla morte, in queste poesie, fa da contraltare (o da contrappunto) la scultura; alla scomparsa la bellezza. Moltissimi poi, disseminati nel libro, sono i riferimenti ad artisti, da Bruegel a Goya, da Pound a Leonardo Bistolfi, da Arturo Martini, a Velazquez. Questo del rapporto fra tomba e arte mi sembra sia un nodo centrale del libro: può parlarne?

Come scrive Cees Nooteboom nel suo bellissimo Tumbas (Iperborea): “Tutti i cimiteri sono un romanzo”. Raccontano vite, quelle storie di cui siamo sempre assetati (come, tra l’altro, testimonia l’esplosione delle serie tv e le loro estese narrazioni). Mi hanno sempre affascinato i cimiteri. In Italia ne abbiamo alcuni straordinari, come il Monumentale di Milano (è più conosciuto dagli stranieri che dagli italiani) o Staglieno a Genova, sorprendente città dei morti che oltre alle sculture vanta un paesaggio naturale molto vario di colline e radure.

Mi hanno sempre interessato gli artisti di fronte alla morte, nel momento in cui cadono le maschere e si ha solo desiderio di incontrare la verità. Per questo mi ha appassionato l’epopea di Gilgamesh, il libro di Giobbe (che andrebbe studiato a scuola), ma anche la meditazione così carica di vita di Ungaretti sul martoriato fronte dell’Isonzo. Passeggiare per un cimitero è come prendere la macchina del tempo. Si vedono cambiare gli stili artistici, dalle limpide forme neoclassiche di Canova alle inquietudini simboliste; si vede cambiare la lingua di una popolazione (che differenza tra le lapidi dell’Ottocento “borghese” a quelle quasi “afone” per il dolore delle guerre mondiali); si incontrano personaggi dimenticati che hanno ancora molto da raccontare…

Parlare di Caino implica parlare di un mito, di un simbolo, di un “universale fantastico”, di una figura che può assumere la valenza energetica dell’archetipo, di qualcosa che si attiva alla vicinanza di esperienze e di incontri capaci di evocarne la potenza. Qualcosa, dunque, di eternamente presente, legato (per rimanere su un lessico benjaminiano) più all’origine delle cose che alla genesi delle stesse. In particolare la figura di Ötzi che “viaggia nel pendolo della storia. / Cerca i ritorni di luce” mi pare molto interessante sotto questo punto di vista. Nella stessa sezione si leggono questi versi: “Metamorfosi della materia. / Pianure. Pitture. Selci. / Il tempo chiamato indietro. // Si riavvolge il nastro: / la via dall’Eurasia all’Africa. / Il popolamento a clessidra” che sembrano confermare questo “tempo circolare” della dimensione archetipica. È così?

Quante cose imparo da questa conversazione… Sì, è così. Caino è un mito, ma Caino siamo tutti noi. Abbiamo nostalgia del bene, ma poi cadiamo nell’errore. Come del resto insegnavano Agostino o Petrarca. Come sostiene il sociologo Pierpaolo Donati, siamo in un mondo di relazioni ibernate (molto interessante il suo dialogo con il teologo Giulio Maspero in Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, Città Nuova, 2021). La pandemia ha catalizzato le esperienze più diverse. Abbiamo visto gesti di dedizione sconfinata e di altrettanto sconfinato egoismo. Temo che il processo verso l’individualismo sia ancora più accentuato. Anche perché, come Caino, siamo tarlati dall’invidia. Ci aspetta un futuro incerto. Il mio libro passa in rassegna molti orrori, come era già accaduto nel precedente La caduta di Bisanzio, tuttavia continuo a credere che la Storia non sia solo il ceppo grondante di sangue del carnefice, ma un campo che resta aperto alla libertà dell’uomo. In questo senso, mi sono di consolazione le pagine di Uno psicologo nei lager del grande Viktor Frankl, forse il più bel testo che abbia mai letto sui campi di sterminio: la storia di un uomo che ha perso tutto nel lager (tutti i famigliari e l’unica preziosa copia del suo manoscritto) tranne sé stesso e la sua empatia verso gli altri.

Caino, dalle prime e paurose parole del serpente (“Scriverò la tua vita nel marmo / un intreccio di narcisi e falci, / sarai solo quello che sei stato”) sembra, nel corso del libro, assumere un altro destino. Caino non rimane “quello che [è] stato” ma evolve come personaggio prendendo su di sé alcuni aspetti contraddittori rispetto al suo fato di “perpetuare la catena del male”. Caino fa ammenda e diventa (con le parole di Pound) “l’uomo che esamina di notte / la tessitura dei suoi errori”, andando alla ricerca di incontri che lo possano disarticolare dai “telai del sangue / abbracciato all’idea del bene”. Tutto, insomma, lascia presagire – e questo mi sembra il messaggio forte di speranza insito in questo testo – che l’Inferno della terra lasci il posto non tanto al Paradiso, quanto al Purgatorio, alla riconquista di un Eden, quell’Eden che, dantescamente, è proprio in cima alla montagna del Purgatorio. “Come Pound scrisse nel Paradiso, / portami dove sempre siamo stati, / dove l’acqua di tinge di pervinca. // Perché questa fiumana di porpora / sbiadisca in un estuario azzurro / e io riveda la fonte e i giardini”. Un percorso “dalle foci alle sorgenti”, per citare il primo Luzi, un ritornare alla casa del Padre. Il quale, forse, non è tanto una divinità quanto semplicemente “uomo” e “terra”, Adamo in senso etimologico. La terra di Caino sarebbe così l’uomo e l’umanità intesa nel senso migliore possibile che Caino riconquista a posteriori dopo un cammino purgatoriale. È un’interpretazione troppo azzardata?

Il messaggio della Terra di Caino è di speranza e il personaggio conosce un arco di redenzione. Inizia spezzando per invidia la schiena del fratello Abele e termina i suoi giorni dopo una vecchiaia di secoli insegnando la misericordia e tenendo in mano – lui ormai paralizzato dalla malattia – delle schegge di quarzo, simbolo di eternità (un aneddoto che ho mutuato dagli ultimi giorni di Oliver Sacks). Il Purgatorio è la mia cantica preferita (che sto rileggendo proprio nel 700° anniversario della morte di Dante); amo la storia dei pentiti dell’ultima ora come Manfredi che conquistato il paradiso quando tutto sembrava compromesso. Il mio Caino però è stanco di soffrire e di vivere relazioni false. Vuole incontrare il volto di Dio, la sua tenerezza, la brezza del paradiso di cui sentiva parlare dai suoi genitori dopo la cacciata dell’Eden. Il suo purgatorio è stato lungo e tormentato, come quello immaginato da Pascoli per il protagonista del Bordone: “D’allora ha errato. Seco avea soltanto / il suo bordone. E qua tese la mano, / e qua la porse. E ha gioito e pianto. / E vide il fiume, il mare, il monte, il piano: / tutto: e a tutto era più presso il cuore, / di quanto il piede n’era più lontano”.
Caino ha i piedi pieni di polvere per il lungo viaggio. Ha bisogno di essere accudito dal Padre… di incontrarlo dopo averlo cercato nelle Scritture, per esempio meditando le parole di Osea, il profeta della tenerezza di Dio: “Quando Israele era fanciullo, / io l’ho amato / e dall’Egitto ho chiamato mio figlio… / A Èfraim io insegnavo a camminare / tenendolo per mano, / ma essi non compresero / che avevo cura di loro. / Io li traevo con legami di bontà, / con vincoli d’amore, / ero per loro / come chi solleva un bimbo alla sua guancia, / mi chinavo su di lui / per dargli da mangiare” (Osea, 11, 1-4).

L'autore

Michele Bordoni
Michele Bordoni, nato nelle Marche nel 1993, laureato all'Università di Padova con una tesi sull'opera di Mario Luzi, è dottorando in Letteratura italiana presso l’Università di Cagliari, dove studia il rapporto fra immagini e parole tra Rinascimento e Barocco, con un focus sul pensiero di Giambattista Vico e sull’emblematica rinascimentale. Come poeta ha pubblicato, per i tipi di italic, Gymnopedie (2018), vincitrice del Premio Opera Prima al concorso Guido Gozzano del 2019, secondo posto al premio Solstizio nello stesso anno. Alcuni suoi testi sono inclusi nell’antologia Abitare la parola (Ladolfi, 2019) e nella rivista internazionale Gradiva. Collabora come redattore per alcune riviste online, quali "Nuova ciminiera" e "Atelier".