Quando vivevo in Bolivia conoscevo bene certi mercati nei villaggi andini dove si potevano ammirare tessuti di lana di lama, pecora o alpaca con motivi che erano il risultato di un plurisecolare meticciato tra le culture originali e quelle europee: come gli aguayos di Tarabuco, con sofisticate intersezioni geometriche che disegnavano ali di condor o colli di camelidi.
Girando per le sale del Kunstmuseum di Basilea – l’altra mia patria, in questo nomadismo ch’è ormai la mia vita – ho creduto di sperimentare uno di quei momenti di sovrapposizione sensoriale che chiunque si sposti da un luogo all’altro del pianeta deve aver provato in più di un’occasione. Ammirando una delle prime opere di Sophie Taeuber-Arp mi sono imbattuto negli stessi colori rugginosi e cobalto a sbalzo sull’ordito di fili spessi di lana, e la diagonale zigrinata era certamente quella, un’ala di rapace andino, una V spezzata che non andava da nessuna parte. Oppure ovunque.
Mi sono stupito, perché quelle opere a ricamo che stavo ammirando erano del 1915 o giù di lì, e sono quasi certo che in quegli anni le culture originarie andine, soprattutto quelle boliviane, per secoli meno note di quelle del Perù o del Cile, non fossero di pubblico dominio. Ma era solo la prima delle tante sorprese che mi sarei portato via dal Kunstmuseum.
A poca distanza dai ricami spiccavano tre grandi tele verticali, alte e strette, impreziosite da severe cornici di bronzo: rettangoli neri, azzurri e terra di Siena intersecati tra loro e nei quali si insinuavano, bidimensionali e puri, triangoli delle stesse tonalità. Questi oli su tela sono del 1918, ma vi sono anche oggetti tridimensionali, come un portacipria in legno dipinto, addirittura del 1916. Con quei quadri e con quelle sculture dunque Sophie Taeuber proponeva al panorama artistico europeo un’astrazione limpida negli stessi anni in cui un gruppo ristrettissimo di artisti – Kandisnky e pochi altri – masticava e digeriva l’opera teorica che in qualche modo è il fondamento della più grande rivoluzione artistica della modernità: Astrazione ed empatia di Wilhelm Worringer, uscito nel 1907.
Sophie Taeuber era nata alla fine del secolo diciannovesimo, nell’89. Era entrata nel Novecento bambina, e all’alba delle avanguardie era già lì. Questa artista nata a Davos, nel cuore dei Grigioni, agiva nel cuore dell’innovazione intellettuale ed artistica nel momento stesso in cui essa si produceva: non era insomma un’epigona, magari brillante e dotata, non aderiva a movimenti già consolidati. Si gettava nella mischia quando la materia era ancora magmatica, tutta da plasmare, con i rischi di incomprensione e fallimento che questo sempre comporta.
Nella sala accanto una grande teca di cristallo invitava a una non agevole sfida mentale: che cos’era quel mostro fantascientifico, quel pupazzo di metallo cilindrico che incedeva con cinque gambe da robot quando la parola robot non era ancora stata inventata (la si fa di solito risalire al romanzo R.U.R. pubblicato nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Čapek) e con altrettante braccia e teste, come una costellazione di individui che convivono schizofrenici in un solo corpo? Che cos’era quell’altro eroe dal cipiglio violento e il busto come un rocchetto luccicante? Queste e altre figure appartengono alla collezione di marionette create da Sophie Taeuber per la messa in scena di una favola veneziana del Settecento, il Re Cervo di Carlo Gozzi, proposta dal Direttore della Scuola di Arti Applicate di Zurigo Alfred Altherr nel 1918. E allora ho messo insieme i dati dell’equazione, facile facile: Zurigo, Altherr, 1918, uguale Dada, ovvero Tristan Tzara e Hans Arp. Quest’ultimo sarebbe stato poi il futuro marito di Sophie, che infatti sarebbe passata alla storia come Taeuber-Arp.
Tanto per chiarire: la partecipazione di Picasso al balletto Parade, con le musiche di Erik Satie e il soggetto di Jean Cocteau, è appena di pochi mesi prima e soprattutto – mi assumo la responsabilità delle mie parole – meno dirompente e innovativa. Picasso aveva ideato soprattutto magnifici costumi, Taeuber qui stravolgeva addirittura l’anatomia dei personaggi, la loro adesione alle leggi della natura.
Mi interrompo idealmente, ammirando una vetrata a quadrati monocromatici che anticipa Mondrian, e mi chiedo quale sia la nota stonata in tutta questa storia. Più che altro è un’interferenza, un rumore di fondo: perché Sophie Taeuber viene citata così poco, al di là naturalmente del circuito degli addetti ai lavori e di quello, fortunatamente sempre più ampio, degli appassionati dell’arte moderna e contemporanea? Perché, quando ho pensato poc’anzi al primo dadaismo zurighese, mi sono subito venuti in mente Tzara e Arp e non lei?
Inevitabile pensare che molto dipenda dal fatto che si trattasse di un’artista donna, che evidentemente ha pagato i limiti di riconoscimento individuale della figura femminile nella cultura novecentesca. Oggi fortunatamente non è più così, o almeno non lo è del tutto, per quanta strada resti ancora da fare: almeno non c’è nessuna difficoltà a mettere in fila i nomi di Louise Bourgeois, Marina Abramovic’, Regina José Galindo o Tania Bruguera, non diversamente da quelli di Lucien Freud, Damien Hirst, Maurizio Cattelan o Peter Doig.
Non era altrettanto facile tra le due guerre mondiali. Ed ecco allora che solo il matrimonio con Hans Arp permise a Sophie Taeuber di avere opportunità di visibilità e presenza altrimenti difficili da cogliere, ma comunque mai allo stesso livello dei colleghi uomini. La cosa mi colpisce particolarmente proprio perché ci troviamo al cospetto di un’innovatrice assoluta, che anticipa spesso i tempi e in ogni caso li vive appieno, nel momento in cui giungono a maturazione, non dopo, quando è più facile per chiunque citare e riproporre.
Ci sono perfino, nella mostra basilese, mobili che non sfigurerebbero in nessuna rassegna del miglior Bauhaus, disegnati e realizzati dall’artista grigionese. Ci sono le sue tele geometriche che la collocano nel cuore del movimento strutturalista, accanto a figure come László Moholy-Nagy, o che l’avvicinano all’Abstraction-Création e naturalmente al gruppo Cercle et Carré, che tutti noi conosciamo per Kandinsky, Mondrian e – ancora una volta – Hans Arp.
C’è a questo proposito esposta nel Kunstmuseum di Basilea una foto che ritrae i protagonisti della mostra inaugurale di Cercle et Carrè, che poi sarebbe stata anche l’ultima, il 18 aprile 1930 presso la Galerie 23, a Parigi: Sophie Taeuber vi appare in secondo piano, seminascosta, come purtroppo si conveniva alla consorte di uno degli artisti in mostra e non – quale invece era – una delle artiste presenti, l’unica donna, se la mia memoria non mi tradisce, tra tanti uomini: Kandinsky, Mondrian, Gropius, Arp, Le Corbusier, Schwitters, Torres García, González, Léger, Garin. Sembra la formazione di una squadra di calcio, magari schierata con il Metodo o WW dominante nei terreni di gioco di quel decennio; e lì, su una fascia, in posizione di ala tornante dal dribbling secco e non certo di oscuro centromediano metodista, immagino guizzare l’inventiva di Sophie.
Tragicamente beffardo anche il destino, nei confronti di questa fuoriclasse. Dopo aver lasciato una Parigi improvvisamente ostile e invivibile perché occupata dai nazisti, era andata a rifugiarsi a Grasse, nelle Alpi Marittime francesi, insieme al marito e ad altri artisti, tra i quali Sonia Terk Delaunay, guarda caso, un’altra donna condannata a essere legata nella memoria più al celebre marito, Robert Delaunay, che alla propria produzione.
Non riuscendo più a sopravvivere, letteralmente sopraffatti dagli stenti e dalla malnutrizione, Arp e Taeuber avevano deciso di fuggire ancora e rientrare in Svizzera. Il 13 gennaio 1943, a Höngg, nei pressi di Zurigo, Sophie morì nel modo più tragicamente banale, uccisa dal monossido di carbonio fuoriuscito di notte da una stufa. C’è in questa vicenda il ghigno satanico della storia di quegli anni feroci: una camera a gas inavvertitamente montata da chi fuggiva dall’orrore nazionalsocialista. Negli archivi della polizia zurighese l’incidente resta catalogato come “decesso della signora Sophie Taeuber-Arp, di professione casalinga”. Di professione casalinga.
Ci sono voluti molti anni perché Sophie Taeuber riemergesse dall’oblio, mentre Arp, che sfuggì alla morte per avvelenamento da gas e visse altri ventitré anni, sposò la ricca collezionista Marguerite Hagenbach e vide le proprie quotazioni salire continuamente.
Nel 1995 la zecca elvetica emise un biglietto da cinquanta franchi con l’effigie di Sophie Taeuber, una serie ritirata poi nel 2016. Già prima, nel 1981, il MoMA di New York le aveva reso omaggio con un’importante mostra. La splendida esposizione di Basilea, la città dove morì nel 1966 Hans Arp, sarà replicata a ottobre presso la Tate Gallery di Londra e a fine anno di nuovo al MoMA di New York.
Con intelligenza e ammirevole senso di organicità, in questi stessi giorni sempre a Basilea la Fondazione Beyeler propone un’altra riflessione apparentemente ovvia e che pure non era mai stata presentata, non almeno con questa evidenza e sistematicità, mettendo in dialogo Auguste Rodin proprio con il marito di Sophie, Hans Arp.
Due grandi scultori, distanti l’uno dall’altro in fondo poco più di quarant’anni, essendo nato Rodin a Parigi nel 1840 e Arp a Strasburgo nel 1886, eppure separati dal taglio netto che nell’arte figurativa segna il Novecento, soprattutto se inteso come secolo breve nella lezione di Hobsbawn, e dunque iniziato realmente con la Prima guerra mondiale: figurativo, classico nelle forme ancorché post-romantico, impressionista, pre-simbolista nei contenuti il primo, surrealista, astratto e appunto dadaista il secondo.
Girando per le magnifiche sale della fondazione, disegnate da Renzo Piano e in questo momento in parte allagate da una marea verde per la sontuosa installazione Life di Olofur Eliasson, ci si rende tuttavia conto di quanto Arp citasse coscientemente Rodin, fino a riproporre in forme astratte le precise posture dei modelli dello scultore parigino.
La testa di Giovanni Battista sul piatto voluto da Salomè, che nel 1887 Rodin rende con realismo temperato da un impressionismo virtuoso, diventa nel 1926 l’Head-Stabile di Arp, o nel 1929 semplicemente Head, sagome di legno dipinto che avvolgono il dolore e la rassegnazione del decapitato in un involucro di silenzio, commentato dal brillare sanguigno del rosso sulla piattezza del bianco. L’Eva di Rodin, un marmo del 1883 nel quale la prima donna avvolge se stessa in un abbraccio di pudore e autoassoluzione, si ripercuote nel 1960 nel torso di Demetra, interpretato dall’ultimo Arp come un enorme corpo levigato, privo di spigoli, nel quale la dimensione femminile sfuma via illiquidita.
Paolo e Francesca, in quest’anno dantesco, si perdono tra le nubi in un piccolo marmo di Rodin già tardivo, del 1904, non poi così più grande né distante dalla versione di Arp, un legno sagomato del 1918 nel quale la nuvola, o il vento, è un poligono quasi regolare, e uno degli amanti assume le fattezze della colomba dal disio chiamata.
Il fin troppo noto Pensatore, qui in una versione in bronzo di quasi due metri di altezza del 1903, si fa incrocio di curve e di vuoti nel grande Tolomeo III di Arp, del 1961. È luccicante, quasi rame il bronzo di Arp, scuro, simile a pietra lavica quello di Rodin, che abbiamo tutti ben in mente, con il pugno piegato ad angolo quasi innaturale a supporto di un mento corrugato e di un volto corrucciato: a sua volta richiamo forse al pugilatore del Quirinale, scolpito da Lisippo nel quarto secolo avanti Cristo.
Non c’è confine nelle linee curve della versione di Arp. Non c’è confine nell’arte, se non nelle categorie che decidiamo noi spesso a posteriori, con affanno classificatorio e con un po’ della protervia propria dei posteri sopravvissuti. Come Arp sopravvisse a Sophie, come il pugilatore di Lisippo alle rovine dei secoli e delle invasioni, come Paolo e Francesca alla tormenta eterna.
Quanto a me, attraverso il Wettsteinbrücke, che mi aveva accolto a Basilea quasi vent’anni fa. Sollevo lo sguardo verso le due nuove gigantesche torri della Roche, la cui sommità si avvolge lievemente a riccio come il bastone episcopale sullo stemma della città, qui fattosi materia leggera grazie al colore bianco che si confonde con il cielo. Penso sempre più spesso, in questi anni, agli sviluppi della fisica quantistica a partire dalla relatività, all’idea che il tempo giaccia su un asse di coordinate con lo spazio e che non debba necessariamente scorrere in una sola direzione. Che qualcuno sollevi Sophie dalla sonnolenza provocata da quella stufa, mi scopro a pregare, che la sua testa si pieghi delicatamente con lo stesso angolo di quella del Battista nel marmo di Rodin, ma che le palpebre, così pesanti in Giovanni, le si aprano di nuovo. Che ci guardi almeno un’ultima volta, ammirati dal suo robot.
L'autore
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Silvio Mignano è nato a Fondi il 23 ottobre 1965. È scrittore e diplomatico di carriera: ambasciatore d’Italia in Bolivia, dal 2007 al 2010, in Venezuela dal 2015 al 2019, e attualmente in Svizzera.
Ha pubblicato i romanzi Una lezione sull’amore (Fazi, 1999), Le porte dell’inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili, La favola del mercante Docibile e della principessa siriana (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015), Il Danzatore inetto (DeriveApprodi 2018), il libro di favole Il regalo del rinoceronte (Manni, 2004, con illustrazioni dell’autore), le raccolte di poesie Taccuino nero per il viaggio (Caramanica, 2003), Non abbiamo uno sceneggiatore di scorta (Gente Comun, La Paz, 2009), La nostra ribelle buona educazione (Manni, 2011, con prefazione di Enrico Testa, Premio Sertoli Salis 2012 per il miglior libro italiano di poesia del biennio) e I Venerdì Santi (Passigli, 2017), e il libro di racconti El Bolígrafo Boliviano (Robin-Biblioteca del Vascello, 2015).
I suoi libri sono stati tradotti in spagnolo.
Ha tradotto tra l’altro l’antologia di poesie cubane L’isola che canta (Feltrinelli, 1998, a cura di Danilo Manera), Río Quibú di Ronaldo Menéndez (Fazi, 2009), I miei fratelli Fidel e Raúl, di Juanita Castro (Fazi, 2010, con lo pseudonimo di T. Ferreri) e l’antologia di poeti venezuelani Mezzogiorno in Venezuela (Robin-Biblioteca del Vascello, 2017).
Con lo pseudonimo di Mario Cabrera Lima ha scritto la sceneggiatura del film Haiti Chèrie di Claudio Del Punta, premio Giuria Giovane al Festival di Locarno nel 2007 e premio proprio per la sceneggiatura al Festival di Mons (Belgio) del 2007.
È stato anche presidente del comitato organizzatore della Biennale dell’Arte contemporanea de La Paz nel 2009, quando il Presidente della Giuria era Achille Bonito Oliva.
A Basilea ha curato con Germano Celant nel 2006 Avenue Rotella, l’ultima mostra di Mimmo Rotella ancora vivente, tenutasi presso il Museo Tinguely. Collabora con il mensile italiano L’Indice dei Libri, con L’immaginazione (Manni editore), con Margini, la rivista dell’Istituto di Italianistica dell’Università di Basilea, diretta da Maria Antonietta Terzoli, con Insula Europea, rivista on line diretta da Carlo Pulsoni, e con l’Enciclopedia Treccani.
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