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Un viaggio italiano con “Cafè Express” di Nanni Loy: Anna Raimo intervista Fabio Melelli

Fabio Melelli insegna Storia del cinema italiano presso l’Università per Stranieri di Perugia. Giornalista e autore di numerose pubblicazioni, saggi scientifici e vincitore del quiz “C’era due volt…lascia o raddoppia?” nella categoria storia del cinema. Nel 2014 ha vinto il premio Domenico Meccoli “Scriveredicinema”. È presidente della giuria del concorso internazionale per cortometraggi A corto di libri ed è membro della giuria del Festival del doppiaggio Voci nell’Ombra. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano: Sergio Leone e il western all’italiana, tra mito e storia (Morlacchi, 2010), Kiss kiss…Bang bang. Il cinema di Duccio Tessari (Bloodbuster, 2012), I film di Aldo Fabrizi (Gremese, 2016), Il doppiaggio nel cinema europeo (Bulzoni, 2018), Il gatto nel cervello di Lucio Fulci (Bloodbuster, 2020) e Cafè Express. Viaggio in treno al termine della notte (Artdigiland, 2021).

Professore Melelli, la ringrazio innanzitutto di aver accettato questa intervista. Nella prefazione Lei ha già spiegato le motivazioni che l’hanno spinta insieme a Gerry Guida a scrivere questo libro, ma vorrebbe ripeterle anche ai nostri lettori?

Abbiamo pensato di scriverlo, con l’amico Gerry Guida, perché ritenevamo che Cafè Express fosse uno dei film più importanti interpretati da Nino Manfredi, ma nello stesso tempo anche uno dei più misconosciuti e quindi meritevole di rilettura. Oltretutto oggi è anche un documento di un paese, l’Italia, all’epoca – è in gran parte ancora oggi – fortemente caratterizzato da squilibri e ingiustizie sociali.

Quando ha visto per la prima volta questo film? Quali sensazioni le ha lasciato questa pellicola di Nanni Loy?

Ho visto la prima volta questo film nel cuore degli anni Ottanta nel primo dei suoi diversi passaggi televisivi sulla televisione di Stato. Considerata l’età che avevo allora, mi identificai soprattutto con il personaggio di Cazzillo, il figlio del protagonista, appassionandomi alla sua sorte e domandandomi cosa sarebbe stato di lui nel futuro che il film non raccontava. Inoltre mi sembrò da subito che il film fotografasse e cogliesse una certa diffusa violenza presente nel nostro paese, ancora alle prese con gli anni di piombo.

Fin da subito nella struttura del suo libro è evidente il modo in cui sono riportati alcuni fotogrammi dal film (pp. 53-69), la scheda del film (pp. 126-128) e la scena XIII con la sceneggiatura originale (pp. 129-140). Tutto ciò è molto interessante, dato che sembra essere un’antologia dell’opera. Ritengo che anche le brevi biografie degli autori siano molti utili per poterli comprendere e contestualizzare al meglio. Cosa l’ha spinto a dare questa struttura al volume?

Insieme al co-autore Gerry Guida abbiamo cercato di realizzare un volume che affrontasse il film sotto tutti i punti di vista, dalla trama al dietro le quinte, offrendo al lettore un vademecum quanto più completo. Senza dimenticare la dimensione dell’approfondimento critico e la necessaria contestualizzazione della pellicola nell’ambito della filmografia di Nino Manfredi, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita.

Già dall’indice è evidente che il libro si presta ad essere, se mi permette, una silloge sul film Cafè Express; infatti, nel primo capitolo lei ne espone immediatamente la trama; qual è, a suo parere, la scena più iconica, quella destinata a restare impressa nell’immaginario collettivo del pubblico?

Il film, a mio parere, ha molte scene memorabili, ma certo quella più significativa ai fini della narrazione – e dove si raggiunge il più alto pathos drammatico – è quella in cui Michele denuda la mano guantata e la sbatte sul tavolino per dimostrare all’inflessibile ispettore delle ferrovie di essere realmente un povero invalido.

Cafè Express è un vero viaggio in Italia attraverso la seconda e prima classe di un treno. Si parte da Vallo della Lucania e si arriva alla stazione di Napoli; benché il tragitto sia molto breve, sul treno lo spettatore può osservare uno spaccato rappresentativo del nostro paese, con alcuni bersaglieri, una suora con orfanelli, un medico, un venditore ambulante, il controllore poco attento, dei ladri senza scrupoli e dei ricchi, alcuni falsi ed altri cortesi. Secondo lei quale insegnamento possiamo apprendere da un finale così fortemente impregnato del neorealismo di Ladri di biciclette dell’indimenticabile Vittorio De Sica?

Il finale, indubbiamente ha un sapore neo-realistico, come giustamente osserva, in quanto affida a un bambino la speranza per un domani migliore di quello costruito dai padri, ma credo che sia anche, paradossalmente, un esito favolistico, peraltro in linea con un film in cui la realtà viene raccontata come fosse una fiaba. Da questo punto di vista le ultime inquadrature del film, con Cazzillo che corre lungo le strade di Napoli, ripreso in piano ravvicinato, rimandano direttamente al bellissimo finale de I quattrocento colpi di Francois Truffaut, in cui il giovane protagonista al termine della vicenda quasi evadeva dalla realtà per cercare un’altra dimensione esistenziale, più vera e autentica.

Nel suo libro parla di Viaggio in seconda classe, un programma televisivo del 1977 in cui il regista Nanni Loy, attraverso la tecnica della candid camera, riprendeva in segreto alcune persone che viaggiavano sul treno. Può fornirci qualche ulteriore dettaglio e curiosità su questo programma così innovativo per l’epoca?

Nanni Loy aveva aggiornato le classiche modalità della candid camera, da lui già sperimentate negli anni Sessanta con Specchio segreto, con l’intento di raccontare il nostro paese scegliendo l’ottica privilegiata dei convogli ferroviari. Così, con la complicità della Rai, aveva camuffato la sua troupe sistemandola in alcuni convogli ferroviari, filmando le reazioni degli ignari passeggeri alle provocazioni sue e degli altri attori. Naturalmente era necessario occultare i mezzi tecnici, dai microfoni, sistemati all’interno delle testiere e dei braccioli, alla macchina da presa, che non vista riprendeva da dietro uno specchio.

Lei sottolinea, molto correttamente, che nella filmografia di Nino Manfredi, i treni e le stazioni ferroviarie sono sempre in primo piano, spiegando le motivazioni di questa scelta da parte dell’attore; a suo parere Manfredi potrebbe anche essersi ispirato ad altri registi e attori italiani o stranieri, come quelli da lei citati all’inizio del capitolo, che avevano anch’essi fatto del treno il “protagonista” delle proprie pellicole?

Manfredi ricordava spesso che la madre avrebbe voluto che diventasse capo-stazione. Quindi in qualche modo la passione per i treni era di famiglia. D’altra parte, Manfredi quando ha la possibilità di esordire alla regia, lo fa con un film interamente ambientato su un treno, L’avventura di un soldato, tratto da una novella di Italo Calvino, episodio de Gli amori difficili. Spesso ci dimentichiamo delle sostanziali analogie tra treno e cinema: in fin dei conti lo spettatore di un film, rimane fermo e seduto, mentre vede scorrere davanti a sé in un rettangolo delle immagini di una realtà con cui non può interagire fisicamente, esattamente come il passeggero di un treno che guardasse il panorama dal finestrino.

Tra le curiosità, dal lei riportate, apprendiamo che Cafè Express fu pensato come parte di un film in due episodi, diretti sempre da Nanni Loy; ve ne sono altre da divulgare?

Vorrei che chi vedesse il film si rendesse anche conto di quali e quante siano state le difficoltà tecniche a realizzarlo. Non dobbiamo dimenticare che il film fu girato all’interno di un vero treno, per quanto smontato e riassemblato in un teatro di posa. Bisogna pensare che all’epoca le macchine da presa erano decisamente ingombranti, quanto a dimensioni, così come erano numerosi gli impianti di illuminazione necessari alla ripresa. Per ciò credo che i tecnici del film abbiamo davvero fatto dei miracoli, per restituire il realismo delle situazioni, senza sacrificare la qualità estetica delle inquadrature.

Tra le varie testimonianze raccolte nel suo libro, qual è stata quella più significativa e quale l’ha maggiormente colpita, e perché?

Credo che tutte le testimonianze del libro siano parimenti significative, da quelle degli attori conclamati, come Leo Gullotta e Lina Sastri, a quelle dei cosiddetti caratteristi, quali Vittorio Marsiglia e Gerardo Scala.  Ognuna di queste illumina su un aspetto diverso della lavorazione e risulta tassello di un puzzle complessivamente affascinante. Certo le testimonianze tecniche- tra cui spicca quella del direttore della fotografia Claudio Cirillo, come dicevo prima, hanno un valore particolare, in quanto si configurano quasi come lezioni di cinema vere e proprie.

A suo parere, per quali motivazioni il film di Nanni Loy non è stato così apprezzato dalla critica e solo grazie al suo libro è stato (ri)scoperto?

Per certi versi il film di Loy apparteneva ancora alla grande stagione della commedia all’italiana, un insieme di film che sapeva raccontare il paese focalizzandosi sugli aspetti civili e sociali, senza rinunciare al taglio comico e ironico, se non addirittura grottesco. Quando uscì nelle sale il cinema italiano stava cambiando: era il momento in cui stava emergendo la scuola dei nuovi comici – altrimenti detti malincomici – che all’affresco universale preferivano il ripiegamento solipsista e sentimentale, rifugiandosi in uno spiccato individualismo solo parzialmente rappresentativo della società nel suo insieme.

Gentilissimo professore, ringraziandola ancora per questa bella intervista, potrebbe anticipare ai nostri lettori quali sono i suoi progetti futuri? In quali attività la vedremo coinvolta? Quali saranno le sue nuove pubblicazioni?

Abbiamo appena dato alle stampe un libro su un altro film tra i più significativi di Nino Manfredi, Pane e cioccolata, un film sull’eterna condizione dell’emigrante, un tema, come dimostrano anche le cronache dei nostri giorni, sempre attuale.

anna.raimo@live.it

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.