Per gender studies si intende un approccio critico incentrato prevalentemente sul genere in quanto costruzione culturale, distinto dal sesso biologico e considerato strumento privilegiato di interpretazione della realtà. La dialettica maschio-femmina diviene la chiave di volta dell’interpretazione. Questo è un passo di un saggio che mi pare esemplificativo dei modi in cui il gender è stato finora recepito in Italia:
La nozione di genere (proposta come categoria analitica a partire dalla quale ripensare ciò che per millenni è stato considerato naturale differenza tra il maschile e il femminile) ha svolto un ruolo fondamentale in ordine alla messa a fuoco del punto di vista adeguato a rendere conto della configurazione storica dei rapporti tra uomo e donna. Elaborata in ambito femminista americano e inglese a partire dagli anni Settanta, questa categoria ha progressivamente e definitivamente sostituito nelle ricerche di scienze sociali la nozione di differenza tra i sessi, connotata nel senso della autoevidenza anche quando la diversità dei ruoli e degli atteggiamenti a essa connessi è emersa come il risultato di determinanti sociali e culturali. La prospettiva di genere ha guardato di fatto al maschile e al femminile in termini relazionali, di costrutti simbolici e di «sesso sociale», riconfigurando in modo più problematico e sottile quanto nella concreta prassi è a questi associato [1].
L’ascesa della categoria di “genere” nelle scienze sociali è ormai sancita da numerosissime pubblicazioni in lingua italiana, in particolar modo tra gli americanisti e in generale tra gli studiosi di letterature moderne e contemporanee. Negli ultimi decenni il gender si è infiltrato anche nel mio campo di studi, Dante e la letteratura medievale. Si può dire anzi che su Dante e sul Medioevo siano state messe alla prova tutte le principali tendenze critiche contemporanee. E non sempre i risultati sono stati convincenti. È questo, a mio parere, il caso degli studi di genere, una tendenza critica dietro la quale c’è un po’ di tutto e che trascina con sé alcuni aspetti negativi: innanzitutto, l’assenza di prospettiva storica.
Un esempio della debolezza degli studi di genere è l’edizione commentata delle Rime di Dante pubblicata nel 2009 a cura di un’affermata studiosa americana di letteratura italiana medievale [2]. Recensendo un precedente volume della studiosa, allora non ancora tradotto in Italia, un dantista si era in effetti già chiesto, in riferimento al tentativo di tracciare una gendered history della letteratura italiana, se si trattasse «solo di una pagina dei gender studies» o se potesse «aprire nuove possibilità di comprensione dei testi medievali e danteschi», limitandosi a obiettare che un lettore non abituato al gender avrebbe dovuto forse tenere presente «anche il genre, cioè la teoria e la pratica del sistema medievale di generi letterari»[3]. Io mi spingerei a dire che gli “studi di genere” non riescono a dire nulla di davvero nuovo e di decisivo sulla letteratura medievale e su Dante in particolare.
[…]
L’introduzione a Guido, i’ vorrei comincia così: «In questo sonetto il giovane Dante parla dell’amicizia, una variante dell’amore»[4]. Immediatamente dopo si precisa che l’amicizia è uno dei grandi temi danteschi e se ne seguono le tracce nei testi. Fin qui nulla di strano. Un aspetto positivo è proprio il suo battere sui sentimenti, sulle emozioni, senza tralasciare, com’è giusto, le fonti. Alcune illazioni sono tuttavia troppo ardite. L’idea, ad esempio, che le «tre identità plurali» dell’incipit, facendo «parte di un cerchio magico», preannuncino i tentativi del Paradiso «di dare vita poetica all’idea che il Tre possa diventare l’Uno pur rimanendo sempre il Tre»[5], è priva di fondamento. Allo stesso modo, è discutibile che la «perfetta unità» agognata dal poeta descrivendo un contesto ideale, di sogno, per sé ed i suoi amici, non sia possibile «senza violare l’identità individuale»:
i vari tentativi sperimentati nella storia umana di realizzare l’unità volitiva in termini politici hanno portato a forme di assolutismo. Guido, i’ vorrei non va in quella direzione; appartiene invece a una dimensione […], che è consapevolmente irreale[6].
Che cosa ha a che fare Dante con la critica (moderna) dell’assolutismo? Che cosa importa che Guido, i’ vorrei vada in una direzione diversa? E la Monarchia? Per non parlare dell’osservazione secondo cui l’aver messo, nell’incipit, da una parte Guido e dalla parte opposta l’io, prefiguri «il dissidio poetico e ideologico che finirà col rompere l’armonia tra Dante e il suo primo amico»[7]: un’idea molto bizzarra di Dante “profeta”.
Ma i problemi veri sorgono quando entra in campo il gender, cioè quando si fanno i conti con i sessi inseriti nel loro contesto sociale. Il commento spiega infatti come nell’ottava del sonetto sia descritta una situazione puramente “maschile”. Nulla da obiettare: è innegabile che, nei primi otto versi, compaiono solo i tre nomi (maschili) elencati nell’incipit. Per chi decidesse di arrestare qui la lettura, sul vasel (‘vascello’) ci sarebbero infatti solo Guido, Lapo e Dante. Si potrebbe pensare che nelle terzine si verifichi una frattura sintattica e quindi anche di significato. Le donne si nominano in effetti solo là: Vanna, Lagia e, chiunque essa sia, «quella ch’è sul numer de le trenta» (v. 10). Il critico strutturalista, invece, ne fa un tratto pertinente. Innanzitutto, la presenza delle donne testimonierebbe dell’«impulso verso la conciliazione della differenza»[8]. Poiché i generi sono una costruzione essenzialmente sociale, qui Dante avrebbe inteso annullare le differenze tra uomo e donna in un sogno di fuga dalla società. L’ipotetico sogno dantesco sarebbe tuttavia incrinato dalla «ostinata presenza di singolarità tra le donne»[9]; Dante, infatti, si augura che «ciascuna di lor fosse contenta» (v. 13). Esisterebbe quindi una tensione strutturale sottolineata «dalla divisione tra ottava (gli amici) e terzine (le loro donne)»; tensione tra un’identità maschile che tende a confondersi e un’identità femminile che è invece irriducibile. Ma si tratta di un sogno di Dante o di un sogno di chi interpreta? A questo punto si tirano le fila del discorso:
Guido, i’ vorrei è un sogno di galleggiare, leggeri come la spuma del mare, lontani da qualsiasi divisione: non solo lontani dalle divisioni che possono separare un uomo e una donna, ma lontani anche – e forse soprattutto, date le forti identità maschili che danno l’avvio al sonetto – dalle divisioni che possono separare un uomo da un altro uomo. L’autentico spazio privilegiato del sonetto è lo spazio maschile dell’ottava, prima dell’aggiunta delle donne nelle terzine. Senza insistere su un latente omoeroticismo, va notato che il participio passato associato in tutta la tradizione cortese con l’amore erotico, preso, viene usato per gli uomini che sono «presi per incantamento» […][10].
È vero che il participio di prendere è anche verbo tipico, già provenzale e poi siciliano, del vocabolario erotico duecentesco. Ma pensare che basti questo per parlare di «latente omoeroticismo» significa non tenere conto della ricchezza del lessico antico. Nella banca dati in rete del Tesoro della lingua italiana delle Origini (www.vocabolario.org ) si trova facilmente preso per fame, per inganno, per maleficio ecc.; da solo, per incantamento è anch’esso abbastanza diffuso e vuol dire, senza possibilità di equivoco: ‘per magia’. D’altronde, nella letteratura italiana delle Origini si trovano diversi episodi di omoeroticismo (per nulla latente), sufficienti a rendere superflui esercizi esegetici di questo tipo. Ma è più importante notare la prospettiva globale: Guido, i’ vorrei sarebbe un sogno di sintesi tra i generi, tra uomo e donna, tra uomo e uomo.
Il problema è che Dante non aveva alcuna intenzione di fondersi anima e corpo con i suoi compagni: obbediva invece a una tradizione letteraria attraverso la quale riusciva a esprimere pensieri e desideri che forse, in una certa misura, appartenevano anche al suo vissuto personale. Ma comporre un sonetto dedicato a un altro poeta nel quale si fa l’elogio di alcune donne fiorentine era probabilmente un atto dovuto da parte del giovane poeta, in linea con le convenzioni dell’ambiente letterario. Dal punto di vista degli studi genere, invece, il poeta che condanna risolutamente – com’era ovvio nel mondo in cui viveva – la lussuria e la sodomia avrebbe sognato, come possiamo noi oggi sognare, una sintesi di identità. L’unica sintesi agognata da Dante è quella nel divino. Ma, come tutti sanno, è una sintesi inaccessibile all’uomo: in Paradiso, nel momento in cui si giunge all’ultima visione, viene meno la capacità di rappresentazione attraverso la parola.
In un libro importante, nel quale si faceva piazza pulita delle ipotesi di filiazione dell’amore cortese dall’amore mistico, Étienne Gilson affermava:
On ne peut prouver qu’une doctrine dépend d’une autre, en invocant comme preuve que la même idée se rencontre dans les deux, lorsqu’il s’agit d’une idée qu’il était facile, soit de trouver par soi-même, soit de trouver ailleurs[11].
Il precetto potrebbe essere generalmente utilizzato per distinguere tra rapporti testuali veri e falsi, ma nel nostro caso ci esorta a non confondere il desiderio di un’ascesa verso Dio con un semplice, sebbene estremamente raffinato, esercizio cortese di stile. A voler giocare invece con i rapporti testuali, che cosa ci sarebbe di più adatto di Tre uomini in barca? In effetti, una semplice gita al fiume apparterrebbe a Dante e al suo tempo ben più di qualsiasi sintesi di identità maschili o femminili.
In una recensione a un libro su amore e morte nella letteratura medievale francese e occitana, un filologo romanzo, esaminando la “teoria queer”, una linea interpretativa che si può considerare un sottoinsieme del gender, coglie un punto fondamentale: il Medioevo ha proprie specificità che non possono essere in alcun modo cancellate dal punto di vista dell’osservatore moderno (o post-moderno). Come Lancillotto è alla ricerca del Graal, del grande Altro e non della regina dei queer studies, per Dante l’Altro è l’amore divino[12]. Inoltre, per quanto ne sappiamo, Dante era perfettamente inserito nei codici di comportamento del suo tempo. Possiamo davvero credere che il poeta che da giovane ha partecipato alle battaglie del Comune, che ha seguito un cursus honorum del tutto tradizionale (poesia compresa), che ha partecipato attivamente alla vita politica cittadina fino all’esilio e che nella Commedia rimpiange i costumi antichi e auspica nelle Epistole la discesa in Italia dell’Imperatore, sia stato un trasgressore delle norme etiche e sociali? Un romantico rivoluzionario? Un rivoluzionario, peraltro, che rinnegava la componente “maschile” e autoritaria del suo tempo? In realtà, la polarizzazione maschile/femminile, semplicemente, non spiega nulla, perlomeno non nel mondo di Dante: l’interpretazione deve essere calata nella storia, non può pretendere di divenire atemporale. La prospettiva di gender, invece, rischia di cancellare del tutto la storia.
[Estratto dal volume di Marco Grimaldi, La poesia che cambia. Come si legge Dante, Castelvecchi editore ©2021 Lit Edizioni s.a.s. Per gentile concessione.]
Note
[1] G. D’Agostino, Travestirsi. Appunti per una «trasgressione» del sesso, in H. Whitehead, S. B. Ortner, Sesso e Genere. L’identità maschile e femminile, a cura di G. D’Agostino, Sellerio, 2000, pp. 9-51, a p. 51 (ed. or. 1981).
[2] Dante Alighieri, Rime giovanili e della ‘Vita nuova’, cura, saggio introduttivo e introduzioni alle rime di T. Barolini, note di M. Gragnolati, BUR, 2009.
[3] G. Ledda, [rec. a] T. Barolini, Dante and the Origins of Italian Literary Culture, Fordham University Press, 2006, in «L’Alighieri», L 2009, pp. 169-75, alle pp. 174-75.
[4] Ivi, p. 181.
[5] Ivi, p. 185.
[6] Ivi, pp. 187-88.
[7] Ivi, p. 190.
[8] Ivi, p. 188.
[9] Ivi, p. 189.
[10] Ibidem.
[11] É. Gilson, La Théologie mystique de Saint Bernard, Vrin, 19693, pp. 206-7 [‘Non si può provare che una dottrina dipenda da un’altra adducendo come prova che la stessa idea si riscontra in entrambe quando si tratta di un’idea che era facile trovare sia da sola sia altrove’).
[12] F. Zinelli, [rec. a] S. Gaunt, Love and Death in Medieval French and Occitan Courtly Literature. Martyrs to Love, University Press, 2006, in «Medioevo Romanzo», XXXII 2008, fasc. II, pp. 454-56, a p. 456.
L'autore
- Marco Grimaldi (Napoli, 1979) si è laureato all’Università Federico II, è stato borsista dell’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, ha conseguito a Siena il titolo di dottore di ricerca in Filologia romanza e ha lavorato all’Université Paul-Valéry di Montpellier e all’Università degli Studi di Trento. È attualmente ricercatore e professore aggregato di Filologia della letteratura italiana alla Sapienza, Università di Roma. Ha diretto l’unità romana del progetto FIRB 2013 L’Italia dei trovatori: repertorio informatizzato delle poesie occitane relative alla storia d’Italia (secc. XII-XIV). Si occupa prevalentemente di poesia italiana e occitana medievale. Oltre a numerosi articoli su alcune delle principali riviste internazionali di filologia e letteratura italiana e romanza, ha pubblicato un libro sui trovatori (Allegoria in versi. Un’idea della poesia dei trovatori, Bologna, il Mulino, 2012), un commento alle Rime di Dante (Le Rime della ‘Vita nuova’ e altre Rime del tempo della ‘Vita nuova’, Roma, Salerno, 2015; Le Rime della maturità e dell’esilio, 2019) e un saggio divulgativo su Dante (Dante, nostro contemporaneo. Perché leggiamo ancora la ‘Commedia’, Roma, Castelvecchi, 2017). È membro del comitato scientifico della «Rivista di studi danteschi». Il suo blog è www.marcogrimaldi.com.
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