Nel canto X del Purgatorio, Dante utilizza l’espressione «visibile parlare» (v. 95), per alludere ad alcuni bassorilievi, che completano la sua narrazione nel girone dei superbi, con scene di umiltà premiata, e scene di superbia punita. L’edizione integrale della Divina Commedia interamente visiva, in 100 selfie, tanti quanti sono i canti del poema, da me sceneggiata, e illustrata da Malika Roberto, che qui annuncio in anteprima, in corso di stampa, intenderà condurre il lettore in un percorso visivo. Dante stesso fissò per l’eternità peccatori, purganti e beati in uno scatto da selfie, che li rendesse cioè riconoscibili ai lettori di tutti i tempi: Ciacco è immerso nel fango, da goloso; Paolo e Francesca sono abbracciati, tra i «peccator carnali»; Manfredi, principe negligente, biondo, bello e di gentile aspetto, mostra la sua ferita; il conte Ugolino rosicchia la testa dell’arcivescovo Ruggieri, nel Cocito ghiacciato; Cunizza, Folco e Raab ridono felici, tra i folli amanti del cielo di Venere; l’invidiosa Sapìa ha le palpebre cucite; e così via. 100 selfie, per 100 canti.
Il problema della fisicità delle anime, per cui esse soffrono tormenti, è stato affrontato più volte dalla critica dantesca, in quanto questione filosofica dibattutissima, da parte della teologia cristiana medievale, che doveva conciliare, appunto, il fuoco reale, di cui si legge nella Scrittura, e al cui tormento sono sottoposte le anime (ed è temuto anche da Dante: «e io temëa ‘l foco» [Pg, XXV, 116]), con la così detta teoria dell’anima separata, dell’anima cioè divisa dal corpo, che, appunto, restava in terra, al momento della morte. Dante, in qualche modo, pone (e liquida, per bocca di Virgilio) il problema della fisicità delle anime già nel canto III del Purgatorio, in due terzine fulminanti, entrambe degne di un twitt contemporaneo:
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
Come si può ben notare, Virgilio, con questi due twitt, apre e chiude la questione, senza alcuna possibilità di replica. Trattasi di mistero divino, a noi inconoscibile. Virgilio, cioè la ragione umana, prende atto della propria impotenza. Di conseguenza, egli giudica folle (matto) colui che s’illude di penetrare tale mistero, ricorrendo alla sola ragione. Tanto è vero che Dante, nel canto XXV del Purgatorio, farà trattare la questione non più a Virgilio, ma a Stazio, anima che ha quasi ultimato il suo cammino purgatoriale, e che, quindi, si appresta a salire al Paradiso celeste. Stazio, dopo aver preso in esame le risposte che al quesito forniva la filosofia aristotelica, pur mediata attraverso la Scolastica medievale, propone una sua personalissima soluzione, sulla fisicità dell’anima, e, quindi, sul fatto che le anime, in quanto tali, potessero soffrire pene corporali. Ovviamente, la paternità di questa soluzione è tutta dantesca. È Dante, infatti, che s’arrischia, nel coevo dibattito teologico a lui contemporaneo, e che ben conosceva, con una soluzione innovativa.
In apertura del canto XXV, Dante personaggio freme dal desiderio di chiedere come mai le anime dei golosi dimagriscano, nonostante la loro natura spirituale. Virgilio gli chiarisce che esiste una relazione speculare tra il corpo e l’anima; poi, però, invita Stazio a spiegare meglio il concetto. Questi, scusandosi di prendere la parola al posto di Virgilio, illustra a Dante come si formi l’anima dell’uomo, con una lunga e dotta dissertazione, attingendo alla filosofia aristotelica, e partendo dall’origine fisica dell’anima vegetativa. Per poi chiarire la formazione dell’anima sensitiva, che sviluppa i cinque sensi, e, infine, il passaggio dall’anima sensitiva a quella razionale, grazie all’intervento diretto di Dio («lo motor primo», 70), che la infonde nel feto, formando, così, un’unica sostanza con le altre due nature dell’anima («come d’animal divegna fante», 61). Quando il corpo muore, continua Stazio, le facoltà intellettive, nell’anima, sono più intense. Una volta conosciuta la destinazione da raggiungere nell’aldilà, intorno all’anima si dispone una forza formatrice, che le dà un aspetto di «ombra», simile alla figura umana, rendendola così capace di provare piacere e/o dolore. Di qui, la geniale idea dantesca di ritrarre tutte le anime, da lui collocate nei tre regni ultraterreni, in forma di figure umane, in una posa (selfie) riconoscibile. Tale originalissima soluzione, sulla consistenza corporea dell’anima (il così detto corpo aereo), consente a Dante, innanzitutto, di risolvere una necessità di finzione artistica (incontrare le anime, dialogare con loro, descrivere la loro condizione ultraterrena, in modo che il lettore le possa vedere e riconoscere), ma consente pure di comprendere l’idea dantesca di perfetta unione tra materia e spirito, tra copro e anima. Per Dante, infatti, l’anima irraggia intorno a sé un altro corpo («così l’aere vicin … / l’alma che ristette», 94-6). Nell’idea di Dante, dunque, il corpo (morto) si spiritualizza, si raffina, divenendo molto simile all’anima, prendendo cioè forma e consistenza intorno a lei. Le immagini che Dante utilizza, per questa sua geniale soluzione, ripeto, soluzione dalla doppia valenza, artistica e teologica, sono due. La prima, è quella dell’arcobaleno, impresso dal sole nell’aria, che è umida di pioggia:
E come l’aere, quand’è ben pïorno,
per l’altrui raggio che ‘n sé riflette,
di diversi color diventa addorno;
così l’aere vicin quivi si mette
in quella forma che in lui suggella
virtüalmente l’alma che ristette; (Pg, XXV, 91-6)
[E come l’aria umida, se riflette un raggio di sole, / si abbellisce dei diversi colori dell’arcobaleno; / così, là, l’aria si dispone in quella forma, e modella, / con la sua virtù formativa, l’anima che si è fermata]
La seconda immagine, è quella della fiamma, che è proiettata nell’aria dal fuoco:
e simigliante poi a la fiammella
che segue il foco là ‘vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella. (97-9)
[e simile, poi, alla fiammella che segue il fuoco, / ovunque esso si sposti, il nuovo corpo aereo / segue l’anima]
Secondo la scienza medievale, la fiamma, infatti, è la forma impressa nell’aria dal fuoco, che è materia senza forma. La fiamma come forma del fuoco. Esattamente come accade, nell’idea avanzata da Dante, tra il corpo aereo e l’anima separata. In Paradiso, il problema della fisicità delle anime muterà leggermente, rispetto all’Inferno e al Purgatorio, visto che lì le anime non soffriranno più pene corporali. I beati, infatti, avvolti nelle fiamme, mostreranno a Dante la loro contentezza, il loro ridere, attraverso il balenio della luce.
Il canto XXV del Purgatorio è, dunque, uno dei canti più dottrinali di tutta la seconda cantica. Esso è collocato tra due canti, il XXIV e il XXVI, caratterizzati da riflessioni sulla poesia. Nel canto XXIV, com’è noto, comparirà Bonagiunta da Lucca; nel XXVI, Guido Guinizelli. Rappresentanti, rispettivamente della vecchia e della nuova poesia. Nel XXV, collocato al centro di questo trittico, Dante affronta, in modo sublime, il problema dell’anima, della fisicità della così detta anima separata. La collocazione di questo canto, sbrigativamente definito non poetico perché dottrinale, da molta critica dantesca, non è, però, una collocazione casuale, o, peggio, indifferente, rispetto agli altri due, dal momento che in esso Dante, con uno sforzo retorico e stilistico notevolissimo, fornisce al lettore un esempio di poesia del sublime. La materia del canto è decisamente dottrinale, ma il suo registro stilistico è incantevole. Il ritmo è fluido, direi fulminante, in tutte le sue terzine. Segnalo il verso centrale del canto:
«guarda il calor del sol che si fa vino» (v. 77)
come esempio di dottrina e di poesia del sublime. In questi versi centrali, il poeta è impegnato a dimostrare come l’unione di un elemento terrestre (l’umore della vite), con un elemento immateriale e non terrestre (il calore del sole) dia vita a una nuova sostanza, cioè, al vino. Proprio come accadrà tra corpo e anima. Nel canto XXV, compare pure la così detta poesia dell’indicibile, tipica del Paradiso, nel momento in cui Stazio, descrivendo la generazione dell’uomo, afferma:
«ov’è più bello / tacer che dire» (vv. 43-4)
Per aggiungere, poco dopo, a conclusione dell’intero suo ragionamento sulla fisicità delle anime, e sul mistero per il quale è permesso a Dante (e a ciascun lettore) di vedere quei corpi aerei, fino a sentirne i sospiri, le lacrime, e tutti «li altri affetti», due terzine fulminati, degne di odierni twitt, ma caratterizzate da un registro altissimo (e poeticissimo):
Quindi parliamo e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ‘ sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci affliggono i disiri
e li altri affetti, l’ombra si figura;
e quest’è la cagion di che tu miri (103-08)
[Così, noi possiamo parlare, e ridere; / da ciò, ricaviamo le lacrime, e i sospiri / che devi aver sentito lungo il monte. / A seconda di come ci stimolano i desideri / e gli altri sentimenti, il corpo aereo si atteggia; / e questa è la causa di quel fenomeno che ha destato la tua meraviglia]
Esigenza artistica e riflessione teologica, dunque, hanno consentito a Dante di inventare il «corpo aereo», grazie al quale l’anima sente le pene e i tormenti, ma grazie al quale, pure, il lettore vede quelle anime, in forma di selfie.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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