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Un biennio di cultura sull’«Avanti!». Erica Bouvier intervista Walter Pedullà

Nello scritto autobiografico Giro di vita (2011) racconta che iniziò a scrivere per l’«Avanti!» nel 1961, dopo un’esperienza presso «Mondo Nuovo». Può raccontare come avvenne questo passaggio, come iniziò a collaborare con l’«Avanti!» e come giunse a curarne l’inserto letterario?

«Mondo Nuovo» era il giornale della corrente di sinistra del partito socialista. Il partito a cui io sono stato iscritto fin dal 1945 e in questo senso mi ritengo un fedelissimo del socialismo. «Mondo Nuovo» aveva tra i massimi collaboratori Vittorio Foà, un personaggio storico della sinistra. Io avevo un’esperienza minima come critico militante: avevo pubblicato un solo articolo nel settimanale del mio paese, Siderno, in provincia di Reggio Calabria, sul rapporto tra Pirandello e Debenedetti. Due personaggi che funzionano come catalizzatori per la mia storia: da un lato, per quanto riguarda lo sperimentalismo artistico, dall’altro per la ricerca critica, in particolare Debenedetti, con cui mi sono laureato con una tesi sulla critica letteraria di Antonio Gramsci. Ho collaborato con «Mondo Nuovo» tra la fine del 1959 e fino alla prima metà del 1961, quando si liberò il posto all’«Avanti!». Il redattore che allora era responsabile delle pagine culturali, Pietro Buttitta, mi invitò ad assumere l’incarico di critico letterario dell’«Avanti!», un risultato straordinario e commovente per me. Quando ero responsabile della sezione socialista di Siderno, distribuivo in bicicletta le copie dell’«Avanti!» e ora ne diventavo il critico letterario ufficiale. Sono dunque passato all’«Avanti!», allora un giornale molto letto: non aveva certo più il numero di lettori dell’immediato dopoguerra, ma arrivava anche a 100.000 lettori e si trattava di un pubblico particolare, dove era cospicua la presenza degli intellettuali. Si dialogava con intellettualità di sinistra, non solo socialista, ma anche comunista, in una fase precedente alla spaccatura del centro-sinistra. Giunsi a curare la rubrica letteraria perché Buttitta divenne inviato internazionale del quotidiano (andò nelle zone dell’Est e in Portogallo). Ero già redattore culturale dell’«Avanti!», prima di diventare direttore della pagina libri, e non venivo pagato. Molti dei lavori che svolgevo, all’epoca, erano pagati poco o nulla, per questo facevo anche il professore in un istituto tecnico ed ero assistente straordinario, dal 1958, di Giacomo Debenedetti, che era stato chiamato a sostituire Giuseppe Ungaretti alla cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea della Sapienza. Da redattore culturale ho preso alcune iniziative, negli anni precedenti: curavo la rubrica Il Tagliacarte, che occupava o mezza pagina o una pagina intera, in cui davo notizia di tutto quello che usciva di rilevante nell’editoria italiana, dando conto anche di discipline diverse della letteratura, come la storia, l’arte, l’antropologia, la psicologia. All’epoca c’era un’illimitata curiosità verso le altre discipline, eravamo letterati interessati ad altre discipline, come volevano i tempi, con risultati che potevano essere talvolta confusi, ma senz’altro apportavano ricchezza. Oltre a questa rubrica, per due anni ho inventato una rubrica Dieci pagine di… scelte da…, che era accompagnata sempre da un mio breve trafiletto di presentazione. In quel periodo, in sostanza, ero l’informatore librario del giornale e mi occupavo anche di portare al giornale nuovi critici, che a volte erano anche rilevantissimi, come Sereni e Ripellino, tra i molti altri.

La sua attività come critico del giornale durò dal 1961 al 1993. In trent’anni di lavoro, deve aver visto molti mutamenti nel modo di fare critica militante. Che cos’è stata per lei la critica militante e come ha cercato metterla in pratica attraverso le pagine dell’«Avanti!»?

Per rispondere alla domanda “che cos’è per lei la critica militante?” ci vorrebbe molto più tempo di quanto ne abbiamo per questa conversazione. Posso dirle come ho applicato io la critica militante. Per quanto riguarda i mutamenti nel panorama critico, dal 1961 al 1993 la critica letteraria è, effettivamente, cambiata continuamente: sono stato ancora cultore di Lukács, nella fase neorealista, di Spitzer come rappresentante della critica stilistica, di Sartre e di Debenedetti come critica psicanalitica e di Savinio per il saggio Maupassant e “l’Altro”, un saggio straordinario di grande bellezza e intelligenza. Poi c’è stato il connubio tra marxismo e fenomenologia con la scuola di Enzo Paci, Sartre e Debenedetti che, dopo essere passato attraverso crocianesimo e il marxismo rigido, aveva aderito alla fenomenologia negli anni Sessanta e cercò di mettere d’accordo Husserl con Marx. Dopodiché, negli anni Sessanta-Settanta arriva lo strutturalismo e le indagini sulla scuola di Praga. Eravamo attentissimi a quello che era successo nel Novecento e stava succedendo, in tutte le culture, anche le più remote e incompatibili le une con le altre. L’«Avanti!» era un giornale in cui l’obiettivo era il massimo pluralismo e concessione verso gli avversari, tant’è che si potevano leggere recensioni positive di noti autori aderenti al fascismo come Céline, Marinetti, Pirandello o uomini della cultura di destra come Ionesco. Quindi per me la critica militante significava quest’apertura massima alla letteratura, portata avanti cercando di mettere d’accordo due punti: la politica della letteratura e la qualità della letteratura. Il problema del critico militante è che deve combattere su due piani: stabilire quali autori potranno avere una durata e capire qual è la critica letteraria che funziona in un determinato momento storico, i cui strumenti sono i più adeguati all’analisi di un preciso periodo della storia. Non è facile riassumere una vita di attività militante, soprattutto se considera che non posso dire di aver definitivamente smesso, perché ancora oggi curo «L’Illuminista», giornale dell’Università La Sapienza, e soltanto nel 2014 sono terminate le pubblicazioni de «Il Caffè Illustrato». Una cosa, però, posso dirla: la volontà di un critico militante deve essere prima di tutto quella di informare, di aiutare a interpretare meglio il fenomeno letterario e nello stesso tempo ricavare un giudizio che consenta di dire “leggete questo libro e non un altro, per queste ragioni”, con il massimo rispetto anche verso i libri scartati. Bisogna fare una selezione e selezionando bisogna individuare i libri utili al lettore del proprio giornale e alla modernizzazione della cultura. La funzione etico-politica della letteratura era prioritaria, per me.

In Giro di vita scrive che la redazione dell’«Avanti!» «pullulava di giovani critici» (p. 175). Quanto è stato importante per lei dare la possibilità a giovani studiosi di iniziare la loro esperienza sulle pagine del giornale? E come li sceglieva?

In quanto professore avevo il dovere di individuare gli studenti che avevano la possibilità di continuare oltre la laurea, non soltanto per diventare a loro volta critici, professori e scrittori. Li seguivo con un interesse oggettivo, che era il dovere del professore, e poi per piacer mio, perché con i giovani imparavo a leggere i libri in modo diverso, perché maturavo insieme a loro. Ricevevo delle proposte di lettura da questi giovani di eccellente formazione che mi costringevano a interrogarmi su questioni che sembravano ormai delle certezze e invece potevano anche essere diventate delle imposture. Il critico militante deve smantellare una cultura che diventa un’impostura. L’attività del critico è, in un certo senso, un’attività suicida: egli sacrifica le sue certezze di fronte alla vitalità della letteratura. Come selezionavo gli studenti per la collaborazione con l’«Avanti!»? Prima di tutto, li sceglievo se amavano la letteratura. Dovevano sapere, secondo la loro personale idea, a che cosa serviva e a che cosa era importante. Dovevano conoscere la tradizione letteraria, perché non c’è modo migliore di conoscere la letteratura contemporanea se non conoscere quella passata. E quindi bisognava, secondo il consiglio di Sklovskij, rivolgersi ai nonni e agli zii. Quando i padri collassano bisogna guardare ai nonni, richiamarli in servizio.

Sulla base della tabella dei collaboratori dell’«Avanti!» nel biennio 1977-1978, riuscirebbe a dire chi di loro è stato suo allievo e chi invece all’epoca era già un critico affermato?

Circa 25 dei collaboratori elencati sono stati miei allievi. Alcuni sono diventati professori universitari, alcuni hanno insegnato storia del cinema e del teatro, altri storia dell’arte e altri ancora di poesia. Era un folto gruppo di collaboratori che dava coerenza e varietà alla pagina libri, non monotonia. E a tutti loro, io ricordavo che dovevano trovarsi uno stile proprio. Non doveva esserci nessuna forma di clonazione del mio discorso: era già troppo quello che dicevo io! E poi è orrendo vedersi fare la parodia dagli allievi. Consigliavo, come a me aveva consigliato Debenedetti, di andare oltre di me, perché è inutile scrivere come avevo già scritto io. Oggi è più facile dire quali fossero dei critici affermanti, perché molti lo sono diventati dopo, alcuni sono tuttora attivi, altri sono morti recentemente. Una cosa interessante, però, è che molti di loro erano comunisti. Ho fatto collaborare più comunisti di quanti non ne facesse collaborare l’«Unità». Sceglievo fautori dello sperimentalismo, non graditi dal Pci in quel periodo, quindi i comunisti sperimentalisti venivano all’«Avanti!», seppur le loro posizioni politiche rimanevano immutate. A me interessava la qualità delle idee, la validità dell’argomentazione, la densità di conoscenze dietro allo scrivere. Il messaggio politico lo trasmetteva già il giornale, non la rubrica letteraria; io dovevo individuare gli elementi fondamentali alla crescita di una cultura e la crescita di una cultura era possibile con la creazione di esigenze, come diceva Walter Benjamin. All’«Avanti!» creavamo esigenze.

Come funzionava la selezione dei libri da recensire? Venivano distribuiti ai collaboratori secondo dei criteri, come per esempio i rispettivi ambiti di ricerca?

Senz’altro, sì. Gli storici parlavano di storia, gli studiosi di cinema scrivevano di cinema, i letterati di letteratura, gli anglisti di libri anglo-americani e via dicendo. Questo per evitare dei dilettantismi che rendono la critica militante generica. Quello che chiedevamo ai critici letterari italiani era di conoscere la tradizione, la memoria della lingua e lo stesso criterio veniva applicato a tutti gli altri critici che si occupavano di altri ambiti. Non cercavamo generici appassionati, evitavamo in tutti i modi l’impressionismo critico. I libri, poi, erano selezionati da me. A volte mi venivano proposti e io accettavo, tenendo conto del confezionamento concreto della pagina, che non poteva proporre soltanto narrativa o soltanto poesia. C’era bisogno di varietà e ogni settimana il lettore doveva avere l’impressione di diversità e freschezza. La mia funzione era quella di promotore e organizzatore, una funzione gradevole, perché accettavo proposte di libri su cui non avevo le idee chiare e poi il recensore argomentava così bene che mi convinceva, nonostante magari le mie resistenze ideologiche e politiche.

In più luoghi del suo lavoro critico, inoltre, lei ha descritto gli anni Settanta come un decennio di “ritorno al realismo” (penso, in particolare, a L’estrema funzione). In un articolo dell’«Avanti!» del 9 gennaio 1977, intitolato Il romanzo politico. Dominatore del ’70 e del ‘76, lei scrive: «Negli anni Settanta non c’è chi creda se non tocca con mano e se non mostri i documenti che i personaggi sono effettivamente nella società quel che dichiarano d’essere nel libro». Nella proposta letteraria della rubrica dell’«Avanti!», però, si nota una spiccata predilezione per gli scrittori sperimentali (di cui lei si è ampiamente occupato nella sua attività critica). Può dire in quale posizione si poneva la rubrica nei confronti del magmatico panorama letterario di questi anni?

La mia idea di ritorno al realismo parte dal presupposto che nel Novecento ci sono forme di avanguardia che generano significati per una letteratura, successiva, che sembra un nuovo realismo. Il realismo in effetti, come diceva Borges, è una forma del fantastico letterario, più che un’adesione al reale. Appartiene a una strategia astuta: negli anni Settanta, le persone vogliono leggere i libri con l’impressione di vita reale, vissuta. C’è una specie di avversione per la letteratura-letteratura. Si cerca il personaggio reale, non l’homo fictus. Balestrini, per esempio, si traveste da operaio e diventa protagonista di Vogliamo tutto. Ma anche questa è sperimentazione: è una forma di linguaggio che è diventata realtà tangibile, come spesso capita con le operazioni di linguaggio. Secondo Debenedetti il linguaggio va alla ricerca della vicenda di cui è depositario inconscio: ebbene, la letteratura degli anni Sessanta deposita i significati che diventano valori politici negli anni Settanta. La scelta della rubrica era in favore della letteratura figlia degli sperimentalismi. Gli anni Sessanta hanno sopravvalutato il linguaggio rispetto alla realtà ed erano portatori dei significati che sono diventati valori negli anni subito successivi.

Certamente, però, essendo quella da lei diretta una rubrica di recensioni, doveva tener conto della pluralità dei movimenti letterari contemporanei e quindi era necessario scrivere anche sui libri che non si apprezzavano particolarmente. Ne è un esempio una recensione da lei firmata a Gli dei torneranno di Carlo Sgorlon, del 3 aprile 1977, in cui stronca il libro. Le accadeva spesso di dover pubblicare “stroncature”?

Scrissi così tante stroncature che un giorno pensai di scrivere un libro intitolato Obiezione, vostro onore! in cui erano riunite stroncature di libri e autori celebri: D’Annunzio, Marinetti, Montale, Moravia, il Landolfi dei Racconti impossibili. Sono tutti autori che stimo moltissimo, ma che ho colto nel momento in cui hanno pubblicato dei libri brutti. Ho stroncato libri di notissimi socialisti come Ottieri, Cassola e Bassani. E anche la Storia della Morante e Poveri e semplici della Ortese. Ho apprezzato, però, altre loro opere. Nella logica del critico militante, militare significa insistere in favore di una causa, cioè la letteratura che si considera significativa e giusta per un certo momento storico. Chi milita ha un elemento moralistico e politico inevitabile.

Un’altra caratteristica della rubrica letteraria dell’«Avanti!» è l’attenzione per gli scrittori esordienti, a cui mi sembra che si cerchi di dare spazio. Si trattava effettivamente di un aspetto a cui dava peso nella selezione dei libri da recensire?

È naturale, certo. La letteratura italiana è fatta più di esordienti che di autori ‘del secondo libro’. “Il primo verso lo regala Iddio, il problema è creare il secondo”, diceva Paul Valéry. Gli scrittori esordienti venivano seguiti con attenzione perché stava nascendo un nuovo autore e talvolta si giocava un po’ a fare il profeta: “scriverà un secondo libro?”, ci si chiedeva. Il critico scommetteva su un autore, sul suo futuro: “questo autore ha un grande avvenire e scriverà libri che saranno utili per capire il mondo in cui viviamo”.

A me è successo di conoscere molti esordienti che sono diventati grandi scrittori, per esempio D’Arrigo, autore di Horcynus Orca: ho letto il libro pagina per pagina, perché eravamo molto amici e sottoponeva alla mia lettura ciò che scriveva durante la sua giornata. C’era particolare attenzione per gli esordienti anche in ragione dell’originalità dei giovani scrittori. Spesso, nella mia esperienza, ho notato che i ‘vecchi’ scrittori scrivono libri belli, ma i giovani sono più originali.

Riferendosi all’«Avanti!» lo definisce, con un possessivo che sembra indicare l’affetto che la lega al quotidiano, «il mio giornale». Si ha la sensazione che questa esperienza sia stata importante per la sua attività di critico: è così?

Per gli scritti e l’attività sull’«Avanti!» non ero quasi pagato. L’«Avanti!» mi prometteva 8 mila lire ad articolo e me ne pagava 4 perché lo stipendio arrivava alla fine dell’anno, quando la somma diventava incompatibile con le finanze del partito. Questo è il segno dell’affezione al giornale, alla militanza e alla cultura. È il segno di un’ossessione, una mania, un vizio quasi. Ho lavorato come critico militante con lo stesso piacere con cui di solito ci si attacca al proprio vizio.

 

L'autore

Erica Bouvier
Si è laureata in Letteratura, filologia e linguistica italiana presso l’Università degli Studi di Torino. È interessata alla letteratura italiana contemporanea, dagli anni ’70 ai più recenti sviluppi. Durante il periodo universitario ha organizzato eventi culturali, seminari studenteschi ed è stata membro dei comitati Per correr miglior acque, che dal 2013 organizza cicli di Letture dantesche nell’ateneo torinese, e Parole in corso, gruppo laboratoriale dedicato alla poesia italiana contemporanea (dagli anni ’70 ai giorni nostri). Ha collaborato con diverse riviste culturali, quali per esempio «La Balena Bianca» e «L’Indice dei Libri del Mese».