Ne1 1923, Giovanni Gentile, ministro dell’Istruzione pubblica nel primo governo Mussolini, attuò la riforma scolastica che porta il suo nome e il pedagogista Giuseppe Lombardo-Radice, nominato direttore generale dell’istruzione primaria e popolare, redasse i nuovi programmi per la scuola elementare, la cui entrata in vigore era prevista a partire dall’anno scolastico 1924-1925. Lombardo-Radice, allievo di Gentile, pur non condividendo l’ideologia fascista, aveva accettato l’incarico vedendovi l’opportunità di concretizzare le proprie idee pedagogiche. Si dimise il 30 giugno 1924, dopo il delitto Matteotti (10 giugno), per motivi morali, volendo dissociarsi dalle responsabilità del governo.
La riforma Gentile, con l’istituzione di un sistema scolastico tendente a perpetuare attraverso un’istruzione differenziata il rigido ordine sociale esistente, non era certo un modello di educazione democratica. Ma, come osserva Giuseppe Ricuperati, «l’autoritarismo dell’intervento e quello di fondo, che stava dietro la riforma, apparivano in un primo tempo controbilanciati da un’accentuata efficienza e da una maggiore libertà didattica». Certo è che nei programmi per le scuole elementari le prescrizioni riguardanti la formazione culturale, e in particolare linguistica, degli alunni e dei maestri, erano estremamente innovative.
Lombardo-Radice con i nuovi programmi dava applicazione a quanto veniva da anni sostenendo nei suoi saggi, tra i quali le fortunate Lezioni di didattica, la cui prima edizione risaliva al 1913, e negli interventi sulla rivista «L’Educazione nazionale», da lui fondata e diretta: il pedagogista affermava che nella scuola non si potevano ignorare la lingua e la cultura proprie dei bambini, che allora arrivavano all’età scolare in maggioranza quasi integralmente dialettofoni e immersi in una cultura tradizionale locale con i suoi usi e le sue credenze, ma che proprio dalla lingua e dalla cultura della regione si doveva partire per consentire agli alunni di avvicinarsi alla lingua e alla cultura nazionali.
«Il maestro insegna in un dato ambiente e deve adattare la sua opera alle esperienze locali» scriveva Lombardo-Radice, e affermava: «II popolo analfabeta ha una cultura; il popolo anzi è maestro prima di andare a scuola; ha una cultura che è fede, che è sapienza tramandata; sapienza che vogliamo far rifiorire, per farla risentire al popolo fanciullo», e ancora: «La scuola deve allargare e approfondire la cultura del popolo. Il sapere che si dà nella scuola elementare non dev’essere un’elemosina a chi la chiede, ma un incontro di due saperi, uno di sfera superiore, l’altro di una sfera inferiore, ma ugualmente apprezzabili. […] L’esser radicata profondamente nell’anima del popolo, fa della letteratura popolare e regionale un elemento che dev’essere utilizzato nella scuola, per salire dalle umili sorgenti della coltura locale alle più alte manifestazioni della cultura nazionale ed universale».
Relativamente al problema linguistico, il nuovo direttore generale riteneva che il dialetto, in quanto lingua del bambino, fosse 1’unico punto di partenza possibile per l’insegnamento di un italiano non schematico e non scolorito, ma dotato di vivezza e spontaneità. Inoltre l’introduzione della lingua materna nella scuola si proponeva di vincere il mutismo scolastico caratteristico dei bambini di campagna, dialettofoni integrali, che invece «fuori di scuola» erano «vivaci e chiacchierini».
Le proposte di Lombardo-Radice non costituivano una novità isolata, ma si inserivano in un dibattito in corso ormai da tempo, che tuttavia non aveva ancora portato a soluzioni concrete.
I nuovi programmi, con i quali la scuola elementare si apriva alla cultura locale e al dialetto per consentire ai bambini del popolo di partire da questi per impossessarsi di una lingua e di una cultura nazionali non aridamente scolastiche, prescrivevano di riservare, per le classi 3a, 4a e 5a, particolare attenzione agli aspetti geografici e storici del comune e della regione di appartenenza e al problema dell’educazione linguistica. Si contemplava inoltre la redazione di appositi libri scolastici: dei volumetti di traduzione dal dialetto all’italiano e un sussidiario per la cultura regionale e le nozioni varie.
Tali libri furono naturalmente pubblicati anche per la Romagna. Già nel 1924 erano pronti due sussidiari «di cultura regionale e nozioni varie»: «Romagna solatìa, dolce paese…» di Giuseppe Nanni (Verucchio 1893 – Milano 1960), direttore delle Scuole elementari di Rimini (e infatti il libro è rivolto prevalentemente all’area riminese, Palermo, Industrie Riunite Editoriali Siciliane) e Romagna del maestro Icilio Missiroli (San Zaccaria di Ravenna 1898 – Forlì 1979), nella collana «Almanacchi regionali Bemporad per i ragazzi», diretta da Olinto Marinelli e Averardo de’ Negri.
La struttura dei sussidiari era stabilita dall’ordinanza ministeriale relativa ai programmi e da successivi chiarimenti in risposta alle richieste degli editori. L’ordinanza prescriveva: «Libro sussidiario per la cultura regionale e le nozioni varie. – Sarà un almanacco illustrato, contenente, oltre al calendario storico nazionale, un cenno delle feste, delle fiere, dei mercati della regione, con intercalati cenni di geografia economica regionale, descrizioni di piccoli viaggi, racconti varii tolti dalla tradizione locale, poesie dialettali riferentisi alla regione, proverbi e consigli concernenti in special modo l’agricoltura, pagine di propaganda sanitaria, pagine di notizie utili, tariffe postali e telegrafiche, ecc., ecc. Uguale per tutte le classi, dalla terza alla quinta».
L’Associazione Editoriale Libraria Italiana richiese alcuni chiarimenti in proposito, ai quali rispose lo stesso Lombardo-Radice nel febbraio 1924 con indicazioni piuttosto generiche, senza affrontare dettagliatamente i problemi della scelta e dell’organizzazione dei materiali e lasciando ampio margine di libertà ad autori e editori: «Il libro deve essere così facile e popolare, ed insieme così vario ed interessante, da riuscire gradito ugualmente agli alunni delle varie classi. La materia non è da dividere in tre parti per le tre classi. I programmi chiedono un vero e proprio almanacco, diviso per stagioni e per mesi».
Alla struttura prescritta dall’ordinanza ministeriale si attengono anche i due sussidiari romagnoli. Il volume di Missiroli, dopo una parte generale contenente nozioni astronomiche, meteorologiche e calendaristiche, e informazioni sulle regioni d’Italia (in particolare sulla «Regione Emiliana»), si apre con un capitolo intitolato Romagna, che propone un breve profilo storico, ma soprattutto promuove un’idea di regione: «Questo libro, bimbo mio, ti vuol parlare della tua regione, del luogo al quale sei più strettamente unito per vincoli d’affetti e per il ricordo dei momenti più belli della tua vita. Conoscerai, sfogliando le sue pagine, quanto di buono e di bello si fa in questa laboriosa Terra che ti ha dato i natali e le vorrai più bene, poichè comprenderai che pochi luoghi son più degni del tuo affetto di questa santa Romagna, forte e gagliarda, che ha sempre saputo tendere le sue energie a lavorare tenacemente per rendersi migliore, che ha dato con incomparabile generosità i suoi figli a tutte le cause di giustizia e di libertà. Volgi il tuo sguardo attorno, e mira: Dai tre pinnacoli arditi di S. Marino, alle cime del Montefeltro; dai colli di Cesena, a Polenta, a Bertinoro, a Rocca S. Casciano; da Modigliana, a Brisighella, alle colline dell’imolese, i colli opimi di vigne tendono le braccia 1’uno all’altro, stringendosi in dolce catena che accompagna la linea ferroviaria che allaccia le città di Romagna a Bologna, cervello dell’Emilia. Sono essi le sentinelle che la natura ha posto a guardia della vasta pianura che dal riminese, dal cesenate, dal forlivese, dal faentino, degrada ricca di messi, di orti e di frutteti fino alla campagna lughese e alle valli di Comacchio. Questa è la Romagna, bambino mio. Tu la troverai un po’ diversa nelle divisioni provinciali, ma in tutte queste terre si parla il nostro aspro dialetto, e gli abitanti di esse son fieri di dire con te: “a so Rumagnôl”».
Il «popolo romagnolo» è ritratto impegnato in fervide e «molteplici attività»: «agricoltori abbronzati dal sole dissodano e coltivano la terra generosa; artieri infaticabili battono il ferro che si trasforma nel vomere rilucente o che si modella artisticamente, traggono dal legno le parti robuste del plaustro e del baroccio o i forti mobili che adornano la nostra casa; studiosi infaticabili attendono a carpire i segreti alla natura; artisti rendono le cose che ci attorniano più belle, riflettendo in esse le bellezze della nostra terra».
Il libro è poi suddiviso per mesi, da settembre ad agosto, e in ogni mese si trovano diverse rubriche, ad esempio Uomini e date da ricordare, Romagnoli illustri, Lavori agricoli del mese, Santi di Romagna, Note di vita pratica, La pagina allegra (giochi, scioglilingua, indovinelli, di origine popolare e colta, ecc. ); due rubriche in particolare rivelano l’interesse di Missiroli per il folklore della sua terra: Pei sentieri della tradizione, in cui sono descritte usanze e credenze del mese e sono riportati e spiegati i proverbi relativi, e Caratteristiche romagnole, che propone pagine su La pie, «Canterini», «Segavecchia», Mezzi di trasporto (il carro e il baroccio), «E’ gall cantaren» (il galletto segnavento posto sull’albero maestro delle barche), «La cavêja», La pesca con la «trata». Nella parte finale del volume, nel capitolo Terra romagnola e in quelli relativi alle città, Missiroli delinea il profilo della regione dal punto di vista geografico (i confini sono quelli definiti dal geografo Emilio Rosetti in La Romagna. Geografia e storia, Milano, U. Hoepli, 1894), economico e storico-culturale, concludendo: «Abbiamo così circuito, col nostro sentiero, la terra di Romagna, quella cioè che, nonostante le avverse divisioni provinciali, ha diritto di chiamarsi tale, poiché i costumi, i dialetti, gli interessi fanno degli abitanti di essa dei Romagnoli».
Vi sono inoltre brani di letteratura dialettale di diverse aree, per lo più poesie, di Italo (Nino) Lombardi, Domenico Francolini, Aldo Spallicci, Aurelio Soprani, Gino Vendemini e dello stesso Missiroli. Il libro si chiude con un Commiato, che accenna alla passione politica dei romagnoli e costituisce un’essenziale ed esemplare lezione di democrazia.
Anche il libro di Nanni è suddiviso per mesi, però da gennaio a dicembre, con rubriche fisse e pagine di vario argomento: è meno schematico del volume di Missiroli e concede più spazio alla cultura contadina. Vi sono inoltre cantilene, filastrocche, ninne nanne, orazioni di tradizione popolare, quasi sempre tradotte integralmente in italiano e due soli sonetti dialettali d’autore. Vengono inoltre illustrate le città romagnole ed emiliane.
Dunque la cultura regionale, edulcorata, filtrata, ingentilita – come aveva suggerito Lombardo-Radice –, viene presentata come una cultura di cui si deve andar fieri; si invitano i ragazzi a conoscere la «piccola Patria, che sa farci amare, colle dolcezze che emanano dal suo seno, la Patria maggiore: l’Italia» (come scrive Missiroli); si offre loro l’immagine positiva di una terra di gente laboriosa, nelle campagne e nelle città, in cui si coltivano le arti e gli studi, una terra in cui è forte la tradizione risorgimentale e garibaldina, che ha sacrificato i suoi uomini per la patria nella Grande Guerra, un’immagine che si vuole evidentemente contrapporre allo stereotipo ottocentesco negativo di una regione abitata da facinorosi, settari, sanguinari, stereotipo in quegli anni non del tutto soppiantato.
In questi due volumi, soprattutto in quello di Missiroli, è dato un certo spazio ai testi dialettali a esemplificazione antologica del folklore verbale e della letteratura dialettale della regione, ai quali viene così riconosciuto un valore culturale autonomo, non subordinato all’apprendimento dell’italiano: Ma alla presenza di testi dialettali non corrisponde una esplicita presa di posizione sul problema del dialetto: non c’è una pagina sola dedicata al dialetto come lingua parlata nella regione e ai suoi rapporti con l’italiano.
Gli esercizi di traduzione dal dialetto all’italiano apparvero solo ne1 1926, in tre opuscoli (uno per ogni classe dalla terza alla quinta) intitolati La teggia, preparati dal poeta dialettale Aldo Spallicci (Palermo-Roma, Sandron). In essi l’autore univa alla funzione principale di insegnamento dell’italiano anche 1’intento di proporre alla lettura un’antologia di prose e poesie con valore autonomo e di diffondere attraverso la scuola la consapevolezza di quella dignità letteraria del dialetto che egli aveva contribuito a formare con la sua costante attività poetica.
Qui Spallicci si trova a mettere a confronto dialetto e italiano. E nella premessa al primo volume tratta brevemente del problema del tradurre, facendo chiaramente intendere che egli non ritiene il testo dialettale come un mezzo subordinato all’apprendimento dell’italiano, ma considera il dialetto e l’italiano lingue di pari dignità, e giunge fino a consigliare l’influsso del dialetto sul lessico e sulla sintassi dell’italiano, in modo che «quando si intenda volgere in lingua l’espressione vernacola non vada perduta la freschezza della frase d’origine». Così Spallicci va oltre le prescrizioni dei programmi scolastici, che non intendevano introdurre il dialetto nella scuola come materia di studio autonoma. Lo stesso Lombardo-Radice, in una sua relazione del 1924, aveva ribadito che il dialetto doveva servire solo come riferimento per «elevare il fanciullo alla lingua nazionale» e non doveva essere «trattato con sussiego come lingua letteraria»; aveva inoltre disapprovato le traduzioni fatte «con letteralità eccessiva, per la quale talvolta l’italiano diventa vernacolare e finisce col far brutta figura accanto al dialetto».
I tre libretti romagnoli contengono poesie e prose di autori dialettali di tutta la regione o tratte dalla tradizione popolare. Fra i testi che appaiono in questa «antologia romagnola», i più singolari sono senza dubbio quelli dello stesso Spallicci, in parte tratti da sue precedenti raccolte, in parte composti appositamente per La teggia, che costituiscono un raro se non unico esempio di letteratura dialettale romagnola per ragazzi.
I problemi didattici che i nuovi programmi suscitavano indussero nel 1926 l’ispettore scolastico santarcangiolese Alfredo Sancisi a redigere una «Guida per i maestri di Romagna» (Il dialetto nella scuola, Cesena, Stabilimento Tipografico Moderno), nella quale anzitutto affermava che per l’introduzione del dialetto e della cultura regionale nella scuola i maestri romagnoli, come i loro colleghi delle altre regioni, avevano mostrato in maggioranza scarso interesse, dovuto in parte all’avversione per le innovazioni didattiche, in parte a pregiudizi antidialettali, quali «il credere che il linguaggio usato in piazza, all’osteria e per istrada, portato nella scuola, potesse in certo modo ledere la dignità e il decoro della scuola stessa e dell’insegnante».
Anche Missiroli, nel 1927, commentando i risultati di una Mostra didattica romagnola tenutasi a Cesena, in cui largo posto era stato dato «allo studio del folklore e alla introduzione di elementi regionali nella scuola di Romagna», scriveva: «Le nostre scuole si avvicinano al folklore con diffidenza, con pregiudizio, qualche volta con incomprensione: naturale risultato dello spirito formatosi durante gli anni in cui “regione” era sinonimo di “campanile”; “leggenda” e “tradizione popolare” si confondevano con “ignoranza”»; tuttavia riconosceva «lo sforzo fatto per entrare nello spirito dell’insegnamento regionale» e osservava: «i singoli sforzi, anche se spesso sono isolati e senza una ben sicura direttiva, mostrano sempre genialità e fervore, rivelano la passione che noi maestri di Romagna […] siamo soliti porre nella quotidiana pratica scolastica». Egli incitava i maestri a ricercare, «per mezzo dei bimbi, […] tutte le fonti della tradizione locale, frugare nei più riposti angoli di Romagna, scovare quelli che detengono nell’anima eternamente giovine la poesia del nostro popolo, la ragione stessa della nostra individualità».
Tra i non molti maestri che accolsero con entusiasmo le riforme del 1923 ci furono quelli di Cotignola che fondarono il periodico scolastico «E Val» («Il Vaglio», 1924-1932), i promotori del giornalino lughese «La Ghirlandetta» (1925-1926) e di quello riminese «Lucignolo» (1925-1930). «E Val» ebbe più lunga vita (fino a1 1932) e maggiore diffusione: in poco più di un anno la tiratura passò da mille a oltre diecimila copie, distribuite in tutta la Romagna. Dello stesso clima culturale creato dalla riforma Gentile è frutto il volume Romagna solatia, redatto dal folklorista Paolo Toschi (Lugo 1893 – Roma 1974) e pubblicato nel 1925 da Trevisini (Milano) nella collana «Canti, novelle e tradizioni delle regioni d’Italia», diretta da Luigi Sorrento, un libro più di seria divulgazione che di natura scolastica (il frontespizio reca la dicitura: «Per le Scuole medie e le persone colte»).
La riforma Gentile e l’introduzione del dialetto e della cultura locale nella scuola si collegavano a un’esigenza di valorizzazione delle particolarità regionali che ormai da diversi anni si veniva manifestando in tutta Italia e che in Romagna era sostenuta soprattutto da Aldo Spallicci, che già dal 1911 al 1914 aveva pubblicato il quindicinale «d’illustrazione romagnola» «Il Plaustro». Nel dopoguerra, lo stesso Spallicci, con Antonio Beltramelli e Francesco Balilla Pratella, aveva fondato il mensile «La Piê» (1920-1933, 1946-2018), contribuendo alla conoscenza dei diversi aspetti culturali e naturali della nostra regione e in particolare alla documentazione delle tradizioni popolari, al dibattito relativo al dialetto, alla diffusione della letteratura dialettale e in particolare della poesia.
L’esperienza del «Val» si chiuse nel 1932, quando ormai, in fatto di politica linguistica, il regime fascista, al cui interno si erano confrontate in proposito opinioni contrastanti, scelse definitivamente una posizione antidialettale e antiregionalistica (non mancando tuttavia di utilizzare elementi di origine folklorica a fini propagandistici). Nell’ambito della scuola le posizioni centraliste del regime (espresse formalmente col cambiamento di nome del Ministero dell’Istruzione pubblica, divenuto nel 1929 «dell’Educazione nazionale») portarono all’esclusione del dialetto e, in parte, della cultura regionale dall’insegnamento elementare. Nel 1929 furono abrogati i precedenti regolamenti sui libri di testo e fu introdotto il testo unico di Stato, da adottare a partire dal 1930-1931. Nel settembre 1934 furono approvati i nuovi programmi per le scuole elementari, nei quali non era più prescritto l’impiego del dialetto come sussidio per l’insegnamento della lingua nazionale. Ricordiamo anche che l’anno precedente il regime aveva soppresso la rivista di Lombardo-Radice, «L’Educazione nazionale», e, in Romagna, il periodico di Aldo Spallicci «La Piê».
(L’articolo riassume il saggio La teggia di Aldo Spallicci e altri libri scolastici di cultura regionale romagnola (1924-1926), in Aldo Spallicci. Studi e testimonianze, Cesena, Società di Studi romagnoli, 1992, cui si rimanda per i riferimenti bibliografici).
L'autore
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Giuseppe Bellosi (Maiano di Fusignano 1954) è uno studioso di dialetti, letteratura dialettale e cultura del mondo popolare, alla cui conoscenza ha contribuito sia con ricerche sul campo sia attraverso articoli e libri, tra i quali Cento anni di poesia dialettale romagnola (con G. Quondamatteo, Galeati, 1976), Vi do la buonasera. Studi sul canto popolare in Romagna (con T. Magrini, Clueb, 1982), Verificato per censura. Lettere e cartoline di soldati romagnoli nella prima guerra mondiale (con M.Savini, Il Ponte Vecchio, 2002), Halloween. Nei giorni che i morti ritornano (con E. Baldini, Einaudi, 2006), Tenebroso Natale. Il lato oscuro della Grande Festa (con E. Baldini, Laterza 2012), Dante in Romagna (con E. Baldini, Il Ponte Vecchio, 2020). Ha pubblicato inoltre alcune raccolte di versi in dialetto romagnolo, tra le quali Requiem (La Mandragora, 2014). Ha fatto parte del Consiglio Direttivo dell’Istituto per i beni culturali della Regione Emilia-Romagna (1992-1995, 2015-2018).