Da sempre una tacita complicità, una naturale sinergia intercorre tra i letterati e gli artisti: basti pensare a Dante e Giotto, Petrarca e Simone Martini, o ancora a Raffaello e Baldassarre Castiglione.
Questo dialogo, nel corso dei secoli, ha indotto la critica dell’arte e quella letteraria a indagare su un terreno comune, talvolta applicando giudizi assolutizzanti come nel caso di Heidegger su Hölderin o avvalendosi di studi altrettanto importanti ma più rigidamente metodici (come quelli di Emilio Garroni esposti nel suo saggio Estetica e linguistica), talvolta e negli ultimi decenni sempre più spesso, individuando i parallelismi tra le due discipline attraverso lo studio delle interazioni strutturali. In quest’ultimo caso, ricorda il poeta e critico letterario Remo Pagnanelli in Scritti sull’Arte, «esiste un isomorfismo trasgressivo e erratico che consiste nel traversare i vari campi fecondandoli e stazionando ai bordi degli stessi». Dunque risulterebbe più prolifico un errare, un procedere con la precisione dei vari metodi ma anche con passo walseriano attraverso i particolari, attraverso i microcosmi intimi e allo stesso tempo universali, aperti agli incontri casuali ma anche a quelli segnati da un’affinità per così dire elettiva, votati a un risvolto epifanico.
È in quest’ottica che assume grande importanza l’incontro tra l’architetto e pittore Massimo Scolari e Italo Calvino, avvenuto a Londra proprio il 31 dicembre del 1974; una data che non solo inaugurerà il nuovo anno ma che si rivelerà fondamentale per lo sviluppo del lavoro dell’allora ventenne artista. A tal riguardo, Scolari nel testo della conferenza tenuta alla Yale School of Architecture, in occasione della mostra Massimo Scolari: The Representation of Architecture, 1967-2012, scrive che, mentre conversava con Calvino, comprese a fondo l’importanza di quell’inaspettato incontro e che proprio le architetture rarefatte, labirintiche de Le città invisibili sarebbero diventate il centro della sua poetica pittorica, al punto da indurlo a prendere coraggio chiedendo all’autore di poterle illustrarle con i suoi acquerelli.
Lo snodo critico su cui si articola il colloquio tra la facies pittorica e quella narrativa è contenuto tutto nella risposta di Italo Calvino, secondo il quale le descrizioni delle cinquantacinque città invisibili sarebbero state troppo incomplete per essere trasposte con precisione in pittura; amichevolmente, chiese al giovane Scolari in che modo avrebbe raffigurato, ad esempio, Zemrude dove «è l’umore di chi la guarda che dà alla città la sua forma».
Da questo momento l’architetto decide di partire proprio dalla parola scritta, dalle esili linee d’inchiostro di quelle lettere tipografiche per risalire all’immagine iniziale, alla figurazione mentale di quelle città invisibili, rimanendo sempre dentro quella sorta di abisso mistico che è il foglio. Marco Belpoliti in Storie del visibile: lettura di Italo Calvino scrive che «tutta l’opera di Calvino è una riflessione sul punto di vista» e che il suo metodo seguito in molti testi «è fondato principalmente sulla analogia, ma anche sulla metafora, che sono figure tipiche del pensiero visivo – e anche di quello visionario. In tutti questi casi prevale, nel momento stesso in cui l’autore passa alla scrittura, l’istanza d’ordine: all’inizio c’è la “fantasia figurale”, poi lentamente si forma un ordine, quello della scrittura». Questo excursus calviniano giunge a corroborare la possibilità di poter parlare di una scrittura visiva e soprattutto di un’effettiva plausibilità di schemi operativi validi nei due campi.
La storia del romanzo calviniano, come osserva Scolari, è attraversata da omissioni logiche e procede oscillando tra straordinarie possibilità, differenze, e un numero concreto di città visitate; ed è proprio quell’incompletezza logica, quell’indeterminatezza che conduce il lettore a volgere lo sguardo indietro verso un un’immagine archetipica, un significato perduto, mentre la narrazione di Marco Polo va avanti. Un esempio significativo in tal senso lo si ritrova nella città di Zoe in cui il viaggiatore veneziano sembra abbozzare il prototipo di città: «[…] ogni uomo porta nella mente una città fatta soltanto di differenze, una città senza figure e senza forma, e le città particolari la riempiono». Questa descrizione nella mente dell’artista piemontese assume i tratti di una sfera priva di una circonferenza che esiste in nessun luogo ma che allo stesso tempo ha percorso tutta la costellazione di archetipi disseminati sulla terra dall’uomo, archetipi che narrano di una primitiva antichità; tra questi vi sono l’Arca di Noè, le piramidi dell’Egitto, la Torre di Babele, elementi ricorrenti se non caratterizzanti le opere di Scolari.
In entrambi gli autori vige una dialettica di forme, di numerologie nascoste, di immaginari che alludono al cosmico, all’ultra terreno e al tempo stesso a un terreno profondamente umano, sempre in bilico tra una formalizzazione schematica, geometrica e l’informe, l’ombra lunare, talvolta saturnina, di un fantastico che sfugge a qualsiasi imbrigliamento definitorio. Non è un caso che l’istallazione esposta nel 1986 alla Triennale di Milano e intitolata Arca, simbolo del collezionismo, avesse al proprio centro una statua di Hypnos, il dio del sonno, che impedisce il completamento di ogni raccolta, lasciandola in una sospensione onirica che è anche conoscenza altra o di un oltre. Allo stesso modo la piramide s’innalza a emblema problematico; da una parte è una specie di montagna artificiale costruita dall’uomo ma è anche luogo della mediazione, si colloca tra il naturale e l’artificiale, tra l’enigma e la ricerca in uno slancio verso l’origine. L’arte di Scolari, così come la narrativa di Calvino, si muove tra due polarità, tra l’elemento ordinatore e l’imprevisto, l’elemento irrazionale e destabilizzante in un unicum conciliato che instilla un senso di evasione e d’infinito.
Disinteressato alla professione dell’edilizia, il testo delle iridescenti Città invisibili gli offriva lo spunto per un’interpretazione di una città misteriosa e sotterranea, di un universo autonomo come quello della “Biblioteca di Babele” di Jorge Luis Borges, lontano da qualsiasi ideologia imperante e dalle analisi urbane che prendevano sempre più piede tra i discepoli di Aldo Rossi, alla cui città storica Scolari aveva dedicato anni di ricerca. Dunque, come dichiarato dallo stesso, la lettura di questo libro aveva procurato un cambiamento radicale nel suo operato artistico.
Tornando all’idea inizialmente accennata di indefinitezza, di incompiutezza come principio logico e compositivo, quest’ultima è solo in apparente contraddizione con il concetto di “Esattezza” cui Calvino dedica un capitolo nelle Lezioni Americane; questa non può mai raggiungere la perfezione in quanto implica una ricerca costante, inesauribile, quasi una quête. Il processo conoscitivo, che solca il testo di questa sezione appartenente al ciclo di lezioni che l’autore avrebbe dovuto tenere ad Harvard nel 1985, trova il suo culmine proprio ne Le città invisibili dove i binomi esattezza-indeterminatezza, infinito-indefinito, ordine-entropia trovano una sintesi. Nelle Città calviniane ogni concetto rivela una duplice natura: non esclusa l’esattezza.
Kublai Khan a un certo momento impersona l’inclinazione razionalizzatrice dell’intelletto e riconduce la conoscenza del suo impero alla combinatoria dei pezzi che si muovono sulla superficie lignea d’una scacchiera: le città che Marco Polo gli descrive nei minimi dettagli, egli le traduce disponendo e avvicendando pedoni, torri, cavalli, alfieri, re, regine, sempre all’interno della dialettica dei quadrati bianchi e neri. Pertanto giunge alla conclusione estrema che l’oggetto delle sue conquiste altro non è che il tassello sul quale ciascun pezzo si posa: un simbolo del nulla. Ma in quel momento Calvino rovescia la partita con un colpo di scena: Marco Polo invita il Gran Khan a osservare meglio quello che gli sembra il nulla: «Il Gran Khan non s’era fin’allora reso conto che lo straniero sapesse esprimersi fluentemente nella sua lingua, ma non era questo a stupirlo. – Ecco un poro più grosso: forse è stato il nido d’una larva; non d’un tarlo, perché appena nato avrebbe continuato a scavare, ma d’un bruco che rosicchiò le foglie e fu la causa per cui l’albero fu scelto per essere abbattuto […] La quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai […]». L’essenzialità di un punto o uno schizzo, un arabesco tracciato sul nulla contiene un intero macrocosmo e il foglio è la superficie su cui si proietta lo sguardo che sempre riscrive, rinnova la nozione di realtà.
L’oscillare tra la riduzione degli eventi a schemi astratti e lo sforzo delle parole, più in generale potremmo dire del segno, per esprimere con la maggior precisione possibile la proteiforme molteplicità delle forme sensibili converge in entrambi i casi all’esattezza e proprio il loro essere preclusi a una conclusione è ciò che garantisce il proseguire del discorso.
Scolari nel testo della conferenza, traducendo dall’inglese, lingua in cui è scritto l’intervento, dice: «Da quell’incontro con Calvino ho imparato come ogni lavoro deve rimanere incompleto e basato sulle differenze – a mantenere vive le domande sulla sua essenza e il suo enigmatico scopo finale – perché le multiformi interpretazioni – che legano l’opera d’arte al mondo intelligibile possono solamente fluire attraverso le lacune dell’incompletezza». Più indefiniti sono i riferimenti al mondo reale, più accresce la necessità di salvaguardare attraverso il segno, che è di per sé una narrazione, la memoria della storia del mondo e dell’uomo con le loro bellezze inviolate e le loro indicibili lacerazioni.
L'autore
- Laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Il campo di studio verte sul panorama della lirica italiana del secondo Novecento con un’attenzione particolare a una lettura comparatistica tra le esperienze poetiche e le discipline pittorico-scultoree di quest’epoca. Le sue attività di ricerca si svolgono tra Roma e Macerata.
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