Già nel 1965, in occasione dei 700 anni dalla nascita di Dante Alighieri, Paolo VI aveva emanato l’8 dicembre, in chiusura del Concilio Vaticano II, una lettera apostolica, Altissimi Cantus, per celebrare il centenario dantesco, ma anche, direi soprattutto, per ribadire in modo solenne, nel solco della tradizione del Magistero cattolico, l’appartenenza alla cattolicità di Dante Alighieri e della Divina Commedia:
Dante Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano Pontefice il Vicario di Cristo in terra [Paolo VI, Altissimi cantus, dal prg. 9]
Era stato, infatti, papa Benedetto XV, nel 1921 (altro anniversario tondo: 600 anni dalla morte del poeta), nell’enciclica In praeclara summorum, ad auspicare che Dante venisse assunto dalla scuola, e dalla gioventù, come maestro di dottrina cristiana, nella vita e nella letteratura. Dante «poeta cristiano», recita esplicitamente un passaggio dell’enciclica di papa Benedetto XV, capace cioè di cantare le «istituzioni cristiane» nella loro «bellezza«», e nel loro «splendore». Spingendosi a definire la Commedia dantesca come un «quinto evangelo».
Fin troppo facile sarebbe, come esercizio citazionistico, riportare, qui, quei versi della Commedia che sconfessano quest’affermazione del pontefice, intorno alla bellezza e allo splendore delle istituzioni cattoliche, cantate da Dante. Mi limito solo a ricordare il verso 51 di Paradiso XVII, nel quale il beato Cacciaguida, con riferimento a Roma, alla Curia papale, dunque, con riferimento alla massima istituzione cattolica, pronuncia la seguente (severa) sentenza:
«là dove Cristo tutto dì si merca».
Paolo VI, dal canto suo, nel 1965, aveva sostenuto la tesi di un Dante poeta dei teologi, e teologo dei poeti, riaprendo, di fatto, con questo affermazione, un lungo dibattito a distanza, direi, meglio, una lunga disputa a distanza, con alcuni settori della critica dantesca laica, intorno alla collocazione, tutta all’interno del recinto cattolico, di Dante Alighieri e della sua Commedia. Il «Dante nostro», com’egli aveva sintetizzato.
Si pensi, solo per fare un nome, tra gli obiettivi polemici, a Benedetto Croce, che, nel 1921, aveva pubblicato un saggio fondamentale per gli studi danteschi, La poesia di Dante. Nel saggio, infatti, Croce aveva bollati come nient’affatto poetici, e quindi da non leggere, tutti quei canti dottrinali della Commedia, nei quali prevalgono ragionamenti e spiegazioni di carattere etico e teologico, con l’invenzione della fortunatissima formula critica «poesia – non poesia». Nel 1965, Benedetto Croce è morto da tempo (1952), ma la sua influenza sul mondo accademico (e su quello scolastico), e, di conseguenza, anche su quello della editoria scolastica, in un’età in cui, nei primi anni Sessanta del XX secolo, la scuola italiana, sotto la spinta del progresso, del benessere, e di precise riforme parlamentari, diventava di massa, era ancora una presenza massiccia e attiva, nella formazione dei docenti e nel loro successivo magistero.
Sostanzialmente, Paolo VI, con la sua lettera apostolica, ridava slancio e vigore intellettuale alla disputa che era già partita nell’Ottocento, tra la cultura liberal-massonica, che faceva di Dante il campione del Risorgimento (basti pensare al «ghibellin fuggiasco», di Foscolo; o al Dante padre della patria, di Mazzini), e la cultura cattolica. Tra fine Ottocento e primo Novecento, si registrò una significativa effervescenza degli studi e delle acquisizioni storiche, filologiche e linguistiche intorno alla vita e all’opera di Dante, determinate da diversi fattori, tra cui le attività promosse dalla Società Dantesca Italiana, e, in maniera particolare, da Michele Barbi. Fervore che accompagnava il così detto «mito di Dante», e la sua monumentalizzazione (con la intitolazione di piazze, di scuole e di strade, in tutti i borghi e in tutte le città della giovane Italia).
È stato notato, qualche anno fa, da Sebastiano Valerio (Dante, l’unità d’Italia e la nuova filologia, 2015), raffinato dantista della scuola barese di Franco Tateo (maestro di tanti di noi), come la presenza di Dante nei programmi della scuola italiana preceda la nascita stessa dello Stato italiano, giacché i programmi generali delle scuole secondarie furono promulgati nell’autunno del 1860, e, cioè, prima della proclamazione formale del regno d’Italia (avvenuta, com’è noto, il successivo 17 marzo del 1861, legge n. 1 del Regno d’Italia, del 21 aprile 1861). Lo studio della vita di Dante, e quello della Divina Commedia, con una scansione ternaria delle cantiche, una per ciascun anno scolastico, da prevedere negli ultimi tre anni delle superiori, che sarebbe diventata scansione canonica (e che dura tuttora), con commento “filologico ed esegetico”, sanciva, di fatto, la definizione di un (aurorale) canone scolastico dantesco.
Il Regio Decreto 689, dell’11.09.1892 (ministro Ferdinando Martini), in una acclusa tabella (Limite e ripartizione delle materie insegnate nei Ginnasi e nei Licei), per i programmi di lingua e letteratura italiane della scuola secondaria classica, fissava, per il triennio liceale, lo studio della “esposizione”, rispettivamente, dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, conferendo, così, al poema dantesco funzione pedagogica e intellettuale. Per le scuole normali (cioè, le scuole magistrali), preparatorie per gli aspiranti maestri, e per le future maestre, la complessa cantica del Paradiso veniva limitata alla lettura “di qualche episodio, scelto fra i più facili”, con l’aggiunta di notizie su tutta la cantica.
Nei primi programmi d’esame per le scuole tecniche (promulgati nel novembre del 1860), una sezione conclusiva era riservata al commento “filologico ed estetico sopra alcuni luoghi scelti di Dante, Petrarca, Ariosto …”. Qui, dunque, in quest’ordine di scuola, la presenza dantesca non era considerata come esclusiva (o privilegiata). Inoltre, veniva prescritto un approccio, per tutti gli autori indicati, di tipo antologico (per passi scelti), e non di lettura integrale. Negli anni immediatamente successivi, la preoccupazione dei governi in carica si concentrò principalmente sulla formazione linguistica (per il contrasto all’analfabetismo). Nel 1913, per i così detti licei moderni, con programmi sperimentali, caratterizzati, per esempio, dalla sostituzione del greco con due lingue straniere moderne, e dall’inserimento, per l’Italiano, dello studio di alcuni autori stranieri, a Dante veniva riservato un posto notevolissimo, proprio con l’intenzione di rendere familiari i più bei luoghi delle tre cantiche, invogliandone la lettura autonoma e personale del poema. Finalità, quella della lettura autonoma (non solo per Dante), così moderna, quanto, ancora oggi, disattesa, nei percorsi della scuola secondaria di secondo grado: sfugge, infatti, a tutt’oggi, ai più, tra i docenti, che la finalità dell’insegnamento della letteratura italiana, in tale ambito, non è la formazione di specialisti dell’analisi del testo, quanto, piuttosto, quello dei lettori. Oggi, con lessico pedagogicamente più raffinato, diremmo:
«sviluppare nello studente la competenza (e il gusto, cioè, il piacere) per la lettura autonoma, affinché la eserciti lungo l’intero arco della sua vita»
Nel 1883, nella sua relazione finale dei lavori della Commissione ministeriale per i libri di testo, Anton Giulio Barrili, patriota, scrittore e docente di letteratura italiana presso l’ateneo genovese, auspicava che negli istituti e nelle scuole tecniche si registrasse un più diffuso studio del poema dantesco, indicandolo come il «codice letterario e politico delle genti italiche», e facendo voti che il poema dantesco divenisse «familiare anche a coloro che volgono gli studi della vita a materie puramente scientifiche». Nel gennaio del 1920, il ministro Alfredo Baccelli, nel governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, intervenendo sui programmi dei licei, lasciava, sostanzialmente, inalterata la presenza di Dante (nel triennio liceale), con la sola precisazione che, per la prima liceo, si indicava la lettura (integrale) dell’Inferno; mentre, per la seconda e la terza liceale, letture (non meglio indicate) dal Purgatorio e dal Paradiso. Sensibile riduzione della presenza dantesca si registrava per il liceo moderno (confinandolo al solo primo anno di liceo). Giovanni Gentile, con il Regio Decreto n. 2345, del 14 ottobre 1923, com’è noto, intervenne radicalmente sugli orari e sui programmi di insegnamento, tracciando, nella sua riforma, una nuova scuola (e anche una nuova idea di società), all’interno di un complesso sistema di esami di passaggio, da un ordine all’altro degli studi. Nell’esame di licenza della scuola complementare (con durata triennale, e collocata dopo l’istruzione elementare, priva di sbocchi ulteriori, e pensata così apposta da Gentile, per sbarrare cioè l’accesso di massa ad altri gradi diversi dell’istruzione secondaria), era richiesta la conoscenza di figure ed episodi, tra i più famosi e canonici, della Divina Commedia. Stessa conoscenza era richiesta all’esame di accesso alla prima liceo (in chiusura, dunque, del ginnasio superiore). Per gli esami della maturità classica, le indicazioni ministeriali gentiliane suonavano in modo molto vincolante (per i docenti-commissari), prevedendo l’accertamento della conoscenza integrale di almeno una delle tre cantiche dantesche. Grosso modo analoghe erano le richieste per i candidati agli esami della maturità scientifica. Dante figurava, nel disegno gentiliano, anche come autore da conoscere e da discutere per le prove orali degli esami finali di abilitazione degli istituti tecnici. Per gli esami finali del liceo femminile, veniva, invece, richiesta la conoscenza antologica di passi della Divina Commedia.
Con la sistemazione (parziale) degli ordinamenti, intervenuta nel 1930 (R.D. n. 1467), Dante veniva reso obbligatorio nell’esame di abilitazione all’insegnamento elementare. Ancora, nel 1933, con due rispettivi decreti, riguardanti, l’uno, l’istruzione classica, scientifica e magistrale (n. 892), l’altro, quella tecnica (n. 491), Dante veniva richiesto come uno dei due autori da portare alla prova di maturità (il secondo doveva sceglierlo la Commissione d’esame, all’interno di un elenco presentato dal candidato). Per quanto riguarda Dante, bisognava dimostrare di conoscere una cantica per intero, e, delle restanti due, almeno 25 canti complessivamente; inoltre, bisognava dimostrare di conoscere il disegno generale del poema, e alcuni assaggi dalla Vita Nuova e dalle Rime.
Per quanto riguarda la situazione dei libri di testo, nei primi decenni del Novecento, si registra, tanto nei licei quanto nelle scuole tecniche, l’assoluto predominio di una edizione della Commedia con il commento di Tommaso Casini, che vantava, per l’anno scolastico 1914-15, ben 65 adozioni nei licei, e 24 negli istituti tecnici. Questa edizione, uscita, per la prima volta nel 1887, per Sansoni, nella Biblioteca scolastica di classici italiani, fondata e diretta da Carducci, giunse, nel giro di pochi anni, a registrare ben cinque edizioni. Erano anche piuttosto diffusi strumenti e sussidi, destinati in specie agli istituti tecnici, quali le Tavole dantesche ad uso delle scuole secondarie (1889) di Adolfo Bartoli e Tommaso Casini; il Manualetto elementare per l’intelligenza della Divina Commedia (1910) di Giovanni Federzoni; l’Avviamento allo studio della Divina Commedia (1906) di Francesco Flamini; le Tavole riassuntive della Divina Commedia (1920) di L. M. Cappelli.
Dunque, l’odierna lettera apostolica, Candor lucis aeternae, di papa Francesco I, uscita in occasione dei 700 anni dalla morte del poeta, assume più l’aspetto di un appuntamento con il Magistero cattolico, che quello di uno spontaneo tributo a Dante Alighieri, e alla sua opera. Papa Francesco I, nella sua lettera apostolica, insiste sul concetto di Dante «profeta di speranza».
Dietro la disputa sull’appartenenza (o meno) di Dante alla cattolicità, si nasconde, evidentemente, ben altra disputa, e cioè quella intorno al controllo della formazione dei giovani, che la Chiesa cattolica, in Italia, aveva perso, in concomitanza con la nascita dello Stato italiano. I termini di questo scontro sono ben chiari in papa Benedetto XV, e persistono tutt’ora, sia pure con stile sfumato (dissimulato), nella lettera apostolica di papa Francesco I.
All’esplicito richiamo, rivolto ai giovani, a studiare la Commedia e Dante, sotto la guida del Magistero ecclesiastico, che si legge nell’enciclica di Benedetto XV, infatti, corrisponde, nella lettera apostolica di papa Francesco I, per un verso, il ringraziamento per il diuturno impegno educativo dei docenti; per l’altro, l’auspicio di portare il messaggio cristiano di Dante oltre le mura delle aule scolastiche. Ma, nella sostanza, il nodo resta identico: il controllo della formazione dell’intera società.
In un passaggio, papa Francesco I presenta Dante come precursore della «nostra cultura multimediale», dal momento che, nella Commedia, «parole e immagini» danno vita a un «unico messaggio». In effetti, potrei citare moltissimi luoghi danteschi per dimostrare quest’affermazione del papa, nei quali, cioè, con grandissima forza espressiva, nel testo della Commedia, parole e immagini si fondono. Mi limito però a citare solo l’espressione dantesca «visibile parlare», contenuta nel verso 95, del canto X del Purgatorio. Si tratta della prima cornice del Purgatorio, quella dei superbi, con le anime penitenti che procedono con massi sulla schiena e sulla nuca, a capo chino, battendosi il petto, in segno di pentimento. Sulla parete rocciosa si vedono scene in bassorilievo di umiltà premiata; sul pavimento, invece, scene di superbia punita. È, appunto, il «visibile parlare», attraverso il codice espressivo dantesco multimediale.
Un ulteriore passaggio della sua lettera apostolica, che sento di condividere, e di segnalare, papa Francesco I invita a guardare a Dante come a un Autore che «[…] ci chiede piuttosto di essere ascoltato». Ecco, sì, ascoltato e letto, mi permetto di aggiungere, innanzitutto, nella sua dimensione poetica. La Divina Commedia, è bene ribadirlo, a tutti i livelli, è, e resta un’opera di poesia. E come opera di poesia essa va letta (e ascoltata). Questo è lo sforzo che ciascuno di noi, lettore qualunque, critico, docente, è chiamato a fare. Leggere e comprendere la Commedia, all’interno di un paradigma interpretativo che è, e che resta, innanzitutto, metrico-retorico, tenendo ben fermo il testo d’autore al centro della lettura. E questo è il monito, con valore metodologico e scientifico, che, ricordo, a distanza (oramai) di decenni (e decenni), che rivolgeva a lezione quel Franco Tateo, che ho ricordato prima, tra i massimi interpreti dell’opera di Dante, a noi studenti universitari (e futuri docenti). Tutto il resto, aggiungeva il Maestro Franco Tateo, e cioè le interpretazioni, il paratesto, il sovrasenso, vengono dopo.
Infine, l’augurio di papa Francesco I, affinché la Commedia non resti sterilmente chiusa, confinata nelle aule scolastiche, e universitarie, ma che, al contrario, venga diffusa ovunque, ebbene, questo auspicio posso affermare che, nel piccolo del mio impegno di ricercatore e di divulgatore «pop» della Divina Commedia, lo svolgo. Ricordo con commozione i giorni in cui ho letto Dante nell’auditorium di un carcere pugliese, o in un lido, o in un bar, o per strada, ovunque sia stato invitato a farlo, convinto che Dante sia, ancora oggi, e nonostante la distanza che ci separi da lui (non solo distanza cronologica, ma anche culturale, ideologica, religiosa, filosofica, scientifica, ecc.), un Classico attivo. Un Classico cioè capace di incendiare i cuori e le menti. La Commedia non è massa, non è quantità, non è farina; essa è lievito, essa è scintilla che incendia; essa è quella poca «favilla che gran fiamma seconda» (Pd., I, 34), e che cambia la vita di ciascuno di noi.
Se, infatti, leggessimo i sette versi conclusivi del canto quinto del Purgatorio (vv. 130-36), con le dolenti, drammatiche, flebili, ma ferme parole che pronuncia Pia senese, se leggessimo quei versi tutti i giorni e in tutti i luoghi della terra, forse, oggi, il tristissimo fenomeno che definiamo femminicidio si ridimensionerebbe:
Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ’l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fè, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma.
L'autore
- Trifone Gargano è professore presso l’Università degli Studi di Bari, con l’insegnamento «Lo Sport nella Letteratura». Ha insegnato «Linguistica italiana» al Corso di Laurea Magistrale in «Scienze della Mediazione Linguistica», e «Didattica della lingua italiana» per l’Università degli Studi di Foggia, e «Storia della lingua italiana» in Polonia (Università di Stettino). È autore di numerose pubblicazioni e collabora con la Enciclopedia Treccani, con il quotidiano «Corriere del Mezzogiorno» («Corriere della sera»), e con diversi blog letterari. Realizza lezioni-spettacolo sui Classici della Letteratura italiana, ed è commentatore televisivo e radiofonico.
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