Ho solo quello che mi son concesso,
ho solo quello che nessun mi ha dato
oltre la fantasia
(Cesare Brandi)
Cosa ha spinto Vittorio Rubiu a progettare un libro che raccogliesse i saggi, le prefazioni, gli articoli, spesso occasionali, scritti su Brandi dal 1946 al 2017 se non la necessità di ampliare il dibattito a una più larga cerchia di lettori e far risaltare, una volta per tutte, quanto ha argomentato Geno Pampaloni che nel 1990, nella prefazione a Città del deserto, pubblicato dagli Editori Riuniti, è tornato ad affermare perentoriamente che le pagine dello scrittore senese conservano una vitale freschezza più forte della datazione?
Pampaloni, per ribadire il plusvalore letterario dei testi brandiani, ha fatto di più: ha liberato subito il campo da ogni dubbio: Brandi non appartiene alla schiera canonica dei prosatori d’arte, anche se i testi di un lavoro pluridecennale intorno al restauro, all’estetica, alla pittura, alla scultura e all’architettura, ai tanti viaggi, che tutti abbiamo letto, valicano non solo le norme del secolo appena trascorso che pongono la poesia in primo piano.
Scorrendo i titoli, si apre ai nostri occhi quel polittico immaginato da Rubiu nel quale si nutrono a vicenda temi, autori e circostanze, frammenti lirici e prose fantastiche ed evocative che collocano il suo maestro, senza tentennamenti, nei vasti territori della storia e nella cultura del nostro tempo, presentandocelo ancora vivo, e proprio per aver costeggiato, nel periodo della sua formazione, esperienze come “La Ronda” che lo guidavano verso l’amato Leopardi al quale, sul ritmo de La sera del dì di festa, allinea anche una poesia che è un autoritratto: “La sera del dì di festa / la mia finestra fino ad ora tarda / non tace: / schermo sonoro per voi / rumori della vita / per voi che ascolto / suoni del mio tempo / e pur concomitanze / vane e per sempre ignote / come di epoche lontane”.
Non ci sono atteggiamenti antitradizionali in questa poesia che evidenzia i valori di riferimento ma anche, da subito, la ricerca della perfezione stilistica, che lo impegnerà per l’intera esistenza, e della lingua elegante nella sua scioltezza, rilevante in chi è sorretto dall’ispirazione nel modulare teorie, nell’evocare luoghi e persone, nell’interpretare opere della contemporaneità, nel dare forza alle immagini tradotte in parole, mai liberandosi dalle ampie volute del verso teso a una certa fissità atemporale, affilata e appassionata, sostenuta da una sottile capacità penetrativa e da una cultura fertile e ricercata che si dimostra rapidamente interessata non solo alla letteratura e all’arte ma anche alla musica, al teatro, alla filosofia, alla storia, alle scienze e a tutto ciò che completa una intelligenza riflessiva, fuori dagli schemi, disposta ad una osmosi tra le varie discipline.
L’impresa di Brandi, “incantevole compagno di strada”, viene ripercorsa nelle pagine di questo libro che attraverso lo scrittore, il filosofo dell’arte, la forma del saggio, il teorico del restauro, il critico e lo storico dell’arte, in un arco temporale che copre ben settantuno anni, riunisce contributi capaci di sviluppare una sorta di colloquio postumo, di esplorare linee egemoni e canoni novecenteschi, fatti esistenziali e dissertazioni di estetica, non escluse forme innovative tali da delineare un profilo del Maestro i cui esiti straordinari hanno tracciato un solco indelebile nella stessa storia della letteratura. Infatti, l’influenza reciproca che, l’una sull’altra, esercitano l’arte e la letteratura, la prosa e la poesia, sorge dall’approfondimento condotto nel corso di tutta la sua poliedrica attività, nei confronti di Rutilio Manetti, dei Quattrocentisti senesi come di Filippo de Pisis, della fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi come dei viaggi nella Grecia antica, in Egitto, in Persia, in Cina o in Umbria, Puglia e Sicilia, e di Morandi, Picasso, Braque, Manzù, Burri, Scialoja, Afro, della teoria della critica e del restauro. Ogni volta la voce sola si fa dialogo fertile, ricco di “boutades” accattivanti (Gio Ponti), il pellegrino si appronta a cercare, con una pluralità di modelli metodologici e procedimenti operativi frutto di studi profondi e di amicizie come quella con Giulio Carlo Argan, Luigi Magnani, Emilio Cecchi, Giuseppe Raimondi, Giovanni Macchia, Roman Vlad, Gianfranco Contini, Alberto Arbasino, le due vie della scultura, della pittura, dell’architettura e la loro transizione nella poesia.
Genesi e processi di formazione del ricco patrimonio di esperienze individuali, di un autentico sistema di cultura, attento, ad esempio, ai Petits poèmes en prose di Baudelaire come alle Operette morali di Leopardi e alle poesie di Montale, a Duccio come a Giotto, a Mafai come a Burri, a Leoncillo come a Pascali, ovvero a quanti hanno aperto nuove strade nella cultura di ogni tempo, portano ad un lavoro di storicizzazione dei fenomeni, artistici e letterari, non condizionato da schemi ideologici precostituiti, come ben evidenziato nell’incipit della rivista “L’immagine” che col proposito di “indicare i valori sostanziali della spiritualità moderna” pone le basi di un pensiero critico: è nell’immagine la fonte interna di tutte le arti.
Infatti, la rivista collima con il tempo della massima elaborazione teorica di Brandi, dall’ultimazione del Carmine, pietra angolare dei suoi studi, all’inizio e allo sviluppo di Arcadio o della Scultura, Eliante o dell’Architettura, Celso o della Poesia, oltre che strumento di comunicazione immediata di un sistema analitico che si va collocando non diversamente di un grande mosaico.
Dove lo sguardo prospettico del critico, la sua avversione verso ogni pregiudizio e tutte le facilonerie e le retoriche sempre imperanti si fa subito rivolta ideale, paziente scavo di un singolare linguaggio affrancato dai riferimenti stilistici, dibattito di ragioni e di illuminazioni, di vocazioni e di passioni, di ammirazioni e di simpatie che impongono una emulazione dialettica con quanti, in questo libro, dimostrano di essere stati sensibili a una lettura ravvicinata dei testi, quale che sia la stagione dell’incontro e il modo di inquadrare la genesi e l’evoluzione di una teoria, di una intuizione, di un contraddittorio persuasivo tra i generi dell’arte e della letteratura, della stessa filosofia, antica e moderna, e relative transizioni, cariche di interni contrasti, verso territori inediti che alla complessità dell’espressione riservano naturali mutamenti di confini.
Il rifiuto del gioco formale, degli ibridismi, dei proclami, delle ricerche sperimentali, delle spinte eversive (si pensi solo alle tante riviste del suo tempo: “Frontespizio”, “Campo di Marte”, “Solaria”, “Primato”, “Letteratura”, “Commentari”, “Botteghe Oscure”, “Mercurio”, “Paragone”, ecc.) è costante in Brandi che, riconducendo ogni arte alla sua originale ragione, rinvigorendo la tensione speculativa, scovando accuratamente sul piano ritmico e sintattico, morfologico, le componenti della sua scrittura in poesia e in prosa, si ritaglia la sua autonomia critico-storiografica e ne fa uno dei fattori più evidenti del persistente interesse per i suoi libri che, di edizione in edizione, continuano a smuovere l’immaginazione e a moltiplicare l’effetto di lunga durata su critici, poeti e scrittori come Dino Buzzati e Raffaele La Capria, Giorgio Manganelli e Leone Piccioni, Lidia Storoni Mazzolani e Cesare Segre, Marco Valsecchi e Gillo Dorfles, ma anche Valerio Magrelli e Emanuele Trevi, Giuseppe Marcenaro e Franco Marcoaldi, Marisa Volpi e Paolo Mauri, Massimo Carboni e Paolo D’Angelo, Vittorio Sgarbi e Alfonso Berardinelli, Giuseppe Basile e Claudio Strinati.
Ogni testo è l’esempio di chi è intento, con costanza, a leggere per dissodare il terreno intorno, per sé e per gli altri, moltiplicando l’efficacia e la sopravvivenza delle pagine di Brandi in anni di post-realtà, della onnipervasiva presenza dei mass media, di un mondo digitale sempre più efficiente nell’occupazione del nostro immaginario. Una lettura, dunque, che reca il suo contributo all’esigenza di rischiarare e sciogliere i nodi più intricati della cultura non solo letteraria del Novecento, nella quale l’epistolografia, la comunicazione dialogica, hanno un peso determinante. Tanto da indurre Rubiu, nel 2017, a farne un apposito libro che, ridando voce ai tanti amici scomparsi del suo maestro, ne mette in luce la vocazione al dialogo, l’occhio infallibile, le scelte etiche, la rapidità delle associazioni, la coerenza interna e la continuità del suo lavoro che di ogni espressione fa una rivelazione, le emozioni nascoste, l’attitudine all’analisi totale, la scelta storica e l’abiura, la dichiarazione di fede e il recupero di determinate quanto inaspettate regole, il punto di consonanza verbale e le mediazioni, le curiosità mai spente e l’attenzione alle avanguardie, la passionalità e il bisogno di pace, l’equilibrio e il pudore estremo, le tenerezze, l’empatia con le cose (cibi compresi), la freschezza quasi infantile tipica di chi non insegue le mode e gli scoop, il rifiuto costante di ogni orpello e di ogni artificio, la sempre viva giovanile baldanza e la scioltezza nel muoversi tra il “vicino” Longhi e l’“amico” Argan, tra Heidegger e Arnheim, tra artisti di diverse generazioni e ispirazione, in luoghi molteplici e dissimili che intimamente si ricompattano nelle cime dei cipressi delle colline senesi, nella casa paterna di Vignano.
Elementi, tutti, che compaiono, di frequente con genuino fervore e attente ricostruzioni filologiche e storiche, negli articoli, nei saggi o nelle introduzioni dei tanti autori che compongono questo libro, condensando giudizi che rendono conto di un’esperienza, sapendo, al tempo stesso, in più occasioni, di essere letti e giudicati da chi questi libri ha scritto con una dedizione assoluta alle cose che ha amato, un’attenzione senza limiti ai temi per i quali ha lottato una intera esistenza.
Nomi e testi dispongono una sorta di caleidoscopio della stima ricevuta e delle influenze elargite, delle predilezioni di chi scrive avendo trovato un punto di riferimento nel patrimonio di cultura che ha pochi riscontri nel corso del Novecento.
Ogni testo sottolinea l’interesse suscitato, ricostruisce una biografia, rigenera curiosità e passioni, insegue un itinerario inconsueto: lo scrittore si fa storico dell’arte, lo storico dell’arte poeta, il poeta viaggiatore accanito, ognuno disposto a un confronto, a scendere nell’officina-laboratorio dello storico dell’arte per circoscriverne le prospettive in un corpo a corpo con il narratore, a citare frasi e detti particolari, a verificare luci e ombre dei mondi nei quali si perde e si ritrova, a sottolineare il modo stesso di costruire la frase al di fuori di ogni regola, la partecipazione totale al ragionatore limpidissimo (Bo), il prodotto nuovo e raro nella vicenda della moderna letteratura italiana (Raimondi), dalla creatività inesauribile (Cecchi), largamente fornito di “humor” (Buzzati), una spregiudicatezza di visione (Gabrielli), un incrocio di storia, della sostanza critica di un paesaggio e di un monumento (Valsecchi), in un italiano leggero e croccante (Manganelli), dallo spiccato piacere per l’analogia tra evento artistico ed evento linguistico (Magrelli) che, con coraggiosa inattualità (Eco) e piena espressione di scrittore (Debenedetti), con le cadenze di un viaggio interiore (Barzanti), senza mai perdere lo stupore, porta principale della conoscenza (Rasy), ti mette a contatto degli oggetti della sua descrizione, e ti tiene insieme a sé nell’osservazione delle cose (Piccioni), nella confessione inconscia (Volpi), da maestro officiante di bipolarità e antinomie, gli intrighi affascinanti tra struttura e linguaggio, nel discorso critico ‘alto’, di teoria generale, e sugli esempi (Arbasino), così che impadronirsi del suo linguaggio è vedere con i suoi occhi, chiamare in causa l’olfatto a supportare l’occhio (Sargentini), leggere l’opera d’arte senza decrittarvi per forza un messaggio (D’Angelo), partecipare al suo stupore di fronte alla realtà (La Capria) e all’elaborazione del suo pensiero (Segre) affidato a un’opera imponente e multiforme, retta da una solida architettura interna che, avendo stabili fondamenta nel corpo reale della storia, continua, di generazione in generazione, a farci discutere, a stimolare domande, perché nulla ha perso della sua forza vitale.
Una forza, che è riflessione capillarmente articolata sulle modalità – linguistiche, acustiche, visive, performative – di inscrizione del senso (Carboni), affidata alla lettura dell’opera (dipinto, scultura, disegno, paesaggio reale) e a ciò che ci rivela tramite la nervatura sottilissima che la compone, lo spazio che la contiene, i messaggi formali che ci restituisce nell’azione di approccio, magari un frammento dopo l’altro per arrivare all’essenziale, dove tutto trova il proprio posto e le parole quella pienezza concessa solo ai grandi scrittori.
Mutuando le conclusioni di Giuliano Briganti in occasione del convegno fiorentino del 1980, dedicato a Roberto Longhi, questo libro, trentatré anni dopo la scomparsa del maestro senese, alimenta le ragioni del perché non possiamo non dirci brandiani.
Scritti su Cesare Brandi 1946-2017
L'autore
- Giuseppe Appella è uno storico e critico d'arte.
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