Marco Cursi è docente di Paleografia latina e Codicologia presso l’Università degli studi di Napoli Federico II. Tra le sue ultime pubblicazioni si ricordano Le forme del libro (Bologna, Il Mulino, 2016) e Bembo ritrovato. Il postillato autografo delle Prose con Fabio Massimo Bertolo e Carlo Pulsoni (Roma, Viella, 2018).
Per iniziare, caro professor Cursi la ringrazio per essersi fatto intervistare per l’uscita del suo nuovo libro Lo specchio di Leonardo. Scritture e libri del genio universale, edito da Il Mulino. Quali motivazioni l’hanno spinta a scrivere questo saggio? Come si è appassionato alla scrittura di Leonardo Da Vinci?
L’interesse per la scrittura e i manoscritti di Leonardo è nato una decina di anni fa; mi capitò di parlare con Armando Petrucci di un manoscritto che recava nella carta di guardia finale una strana notazione, di difficilissima lettura: tra le varie ipotesi fatte per sciogliere quell’enigma paleografico prendemmo in considerazione anche quella che la nota fosse scritta non da sinistra a destra, ma da destra a sinistra e potesse essere attribuita a Leonardo. Cominciai allora a compiere tutta una serie di verifiche e di confronti che, dopo varie discussioni portarono ad un esito negativo. Nonostante ciò, ormai la strada era stata intrapresa e non riuscii più a staccarmi dalle carte vinciane.
Addentrandoci nel primo capitolo lei ripercorre la storia delle edizioni delle opere leonardesche; vorrei soffermarmi in particolare sullo storico dell’arte Jean Paul Richter che per primo nel 1883 fornì un prospetto dell’alfabeto vinciano, mettendo a disposizione dei lettori una tabella con le riproduzioni delle forme di lettere e delle cifre arabiche. Da profana della paleografia, immagino che in quel periodo vi siano stati altri studi ottocenteschi sulla scrittura di Leonardo, potrebbe citarmi i più rilevanti?
Gli ultimi trent’anni dell’Ottocento sono il momento in cui le carte leonardesche cominciarono ad essere oggetto di una serie di studi che hanno tentato di confrontarsi con esse per risolvere alcuni difficili questioni di lettura, datazione e localizzazione. Quella stagione di rinnovamento va messa in relazione con l’affermazione di un nuovo mezzo di riproduzione della realtà: la fotografia. Gli studi storico-artistici e librari si avvalsero sempre più spesso di questo nuovo strumento di ricerca, anche grazie ad alcuni importanti miglioramenti tecnici nelle apparecchiature, negli obiettivi e nei materiali sensibili. Quegli erano anche gli anni del più impetuoso sviluppo del movimento positivista, che vedeva in Leonardo il precursore della scienza moderna e l’iniziatore del metodo sperimentale. Così furono intrapresi diversi esperimenti di edizione dei suoi manoscritti, accompagnati da commentari in cui si proponevano le prime considerazioni sulla sua scrittura. Se dovessi citare i nomi di alcuni studiosi che seppero affrontare la questione con metodo e rigore scientifico in un periodo esteso fino agli anni ’20 del Novecento, menzionerei, oltre al Richter, Charles Ravaisson-Mollien, che curò l’edizione dei manoscritti leonardeschi appartenenti alla collezione dell’Institut de France, a Parigi; Girolamo Calvi, autore di uno contributo dedicato al codice Leicester e poi di un importante studio monografico sulla scrittura di Leonardo; Luca Beltrami, che per primo pose in campo la difficile questione delle scritture vinciane destrorse (ovvero vergate con andamento da sinistra a destra). Non si può dimenticare, infine, l’apporto decisivo fornito da uno storico dell’arte, Adolfo Venturi, nel programma di riproduzione integrale delle carte di Leonardo voluto dalla Reale Commissione Vinciana, fondata nel 1905, ma pienamente operativa negli anni ’10 del secolo.
Nel primo capitolo ci presenta un breve ma significativo excursus sull’evoluzione degli studi vinciani e non ho potuto fare a meno di pensare ad un libro che ho letto recentemente. Ne Le parole valgono di Giuseppe Patota e Valeria Della Valle vi è infatti un chiaro riferimento a una rilettura nata durante il periodo fascista, secondo la quale Leonardo diviene anche l’inventore del vocabolario. Secondo lei oltre a questa errata appropriazione cos’altro è stato attribuito al genio?
Leonardo da più di un secolo è divenuto una vera e propria icona dell’estro creativo e basterebbe scorrere alcuni dei numerosi siti a lui dedicati presenti nella rete per trovare notizie del tutto improbabili su presunte invenzioni che avrebbero anticipato di mezzo millennio gli sviluppi tecnologici attuali. Da parte mia credo invece che per capire Leonardo sia importante considerarlo per quello che era, ovvero un uomo dei suoi tempi, che pensava, argomentava e scriveva come i suoi contemporanei.
La scrittura di Leonardo presenta due livelli esecutivi: una scrittura d’uso e una maggiormente formale; nel terzo capitolo lei ci presenta due interessantissimi esempi di questi ductus. Potrebbe mostrarci altri due casi significativi, da lei trovati, per evidenziare la differenza di scrittura praticata da Leonardo?
Scorrendo le carte degli autografi di Leonardo si ha la precisa percezione di un doppio livello esecutivo: una scrittura d’uso, utilizzata prevalentemente per appunti rapidi, frutto di un’osservazione estemporanea o di un pensiero improvviso, quasi sempre impaginati in modo disordinato, e una scrittura formale, molto più curata nella disposizione della pagina e nell’allineamento, adoperata per le didascalie dei disegni di più alto profilo artistico, negli zibaldoni che si avvicinano alla forma del trattato e anche in alcune sezioni dei libri di bottega. Il mare magnum delle carte di Leonardo ci consegna un gran numero di esempi dell’una e dell’altra modalità esecutiva. Se dovessi sceglierne due particolarmente significativi, per quanto riguarda la scrittura usuale penserei ad una delle carte del piccolo taccuino L dell’Institut de France, compilato durante le perlustrazioni nel Montefeltro e nelle Romagne nel corso del 1502; in essa vediamo un caotico affastellarsi di notazioni, di andamento orizzontale e verticale, accompagnati da un serie di cifre arabiche (vergate con andamento da sinistra a destra).
Passando alla scrittura formale, guarderei al ms. Madrid I, riemerso improvvisamente dai magazzini della Biblioteca Nazionale di Spagna nel 1966, che in una sezione dedicata alla meccanica, presenta bellissimi disegni affiancati da testi di supporto per i quali si fa uso di una scrittura di alto livello esecutivo.
A pagina 96 lei riferisce che Leonardo, decise di vergare alcuni dei suoi appunti utilizzando la pietra rossa e la pietra nera, a suo parere come mai il grande artista toscano optò per questa scelta così poco convenzionale?
La pietra rossa e la pietra nera appartengono all’insieme dei cosiddetti medium grafici secchi e producono un tracciato molto diverso da quello che si ottiene con lo strumento di scrittura più adoperato in quei tempi, ovvero la penna d’oca; il segno lasciato dalla matita rossa è pressoché impossibile da cancellare totalmente, a causa della notevole intensità cromatica dell’ematite, un materiale capace di penetrare e fissarsi in modo indelebile tra le fibre della carta. La matita nera, al contrario, rilascia un tracciato molto più leggero e instabile, che può essere facilmente rimosso con la mollica di pane. Non è semplice comprendere perché Leonardo decise di adattare all’uso scrittorio questi strumenti che di norma erano adoperati soltanto per il disegno; un’ipotesi credibile è che egli li utilizzasse quando si trovava a compiere delle annotazioni estemporanee, quasi sempre compiute in strada, che richiedevano una grande velocità di esecuzione che poteva essere garantita soltanto da quegli strumenti, che non richiedevano l’uso di inchiostro e calamaio, come avveniva per la penna d’oca.
Nel capitolo quarto si tratta della “seconda scrittura” di Leonardo, ovvero delle testimonianze che presentano una direzione normale, con andamento da sinistra a destra, di cui vengono rintracciati un buon numero di esempi. Per lei, che differenza sostanziale c’è tra la “prima” e la “seconda” scrittura leonardesca?
Come universalmente noto, il tratto più caratterizzante dell’esperienza grafica vinciana, era l’abitudine di scrivere non da sinistra a destra, ma da destra a sinistra. Per lungo tempo è stato sostenuto che Leonardo scriveva alla rovescia per la precisa volontà di creare un sistema scrittorio crittografico, ma questa ipotesi è da escludere e si tende a pensare che la vera ragione di questa scelta dipendesse dal suo mancinismo; sappiamo con certezza, infatti, che egli dipingeva e scriveva con la sinistra. Sorprendentemente, però, egli talvolta faceva ricorso ad una scrittura con andamento destrorso, ovvero con orientamento da sinistra a destra. Questa particolare attitudine leonardesca non è mai stata oggetto di uno studio approfondito, che viene tentato per la prima volta nel mio libro; percorrendo il corpus degli autografi vinciani, ho potuto identificare 72 notazioni caratterizzate da un andamento destrorso, distribuite in un arco cronologico ampio, disteso per circa trent’anni, dalla fine degli anni ’70 del Quattrocento fino al 1510 circa. Leonardo scriveva nell’una e nell’altra direzione con pari abilità; ciò è efficacemente dimostrato da alcuni esempi in cui le scritture sinistrorse e quelle destrorse sono disposte intorno ad un asse di simmetria, come per ottenere una sorta di effetto «a specchio» (si veda al riguardo un disegno anatomico ora al Windsor Castle, risalente alla seconda metà degli anni ’80 in cui sono raffigurati gli organi vitali di un giovane visto di profilo).
Quanto, infine, alle funzioni che Leonardo assegnava alle scritture destrorse, la spiegazione più ovvia è quella che egli volesse favorirne la leggibilità: la maggior parte delle testimonianze vinciane che seguono un orientamento da sinistra a destra sono rivolte a persone esterne al suo scrittoio. Vi sono, tuttavia, altre testimonianze in cui questa norma non viene rispettata, come ad esempio la nota di ricordo della morte del padre; è molto difficile capire perché Leonardo abbia voluto seguire un andamento normale di scrittura per un testo così personale, privato e di indubbio impatto emotivo.
Nel quinto capitolo del suo saggio lei scrive che molti degli scritti leonardeschi non erano destinati a un pubblico di lettori, ma “molte delle sue pagine sono il risultato di un dialogo tutto interiore ed il loro contenuto pare destinato innanzitutto a sé stesso”. Sono a suo parere rintracciabili in questo caso “similitudini” con opere analoghe, quali lo Zibaldone di Leopardi? Leonardo potrebbe aver tratto ispirazione anche da Francesco Petrarca, e in particolare dal suo Secretum?
Qualche attinenza tra gli autografi vinciani e l’esperienza grafica compiuta da Leopardi nello Zibaldone si può forse cogliere, seppure con notevoli diversità: nelle sue riflessioni Leonardo procede per gradi, manifestando varie fasi di riflessione e di apprendimento; piuttosto che giungere subito ad una definizione stabile, egli crede sia necessario riprendere quanto già scritto (che per questa ragione deve essere puntualmente registrato), passando per le stesse locuzioni per conseguire nuovi risultati, non eliminando quanto elaborato in precedenza. Questa modalità di «scrittura totale», che non prevede alcuna rimozione di quanto è stato elaborato, presuppone una fortissima «volontà d’archivio» che si ripresenta negli scritti di Giacomo Leopardi; se però Leonardo conservava tutto, senza distinzione, il poeta sceglieva con spirito selettivo, custodendo solo ciò che desiderava fosse ricordato, per tratteggiare un’immagine parallela a quella trasmessa dai Canti. Come messo in evidenza di recente da Paola Italia, Leopardi già nel corso della vita aveva intuito il successo che le Canzoni e i Versi avevano cominciato a riscuotere e il conseguente interesse per i suoi autografi; egli, dunque, decise di conservare un numero di carte selezionate, cui assegnava il compito di costruire una sua immagine speculare e parallela a quella fornita dai Canti. Quanto, infine, al rapporto con Petrarca, credo che si possa ragionevolmente escludere che Leonardo ebbe accesso al Secretum se non altro per l’ostacolo linguistico (non dimentichiamo che aveva una modesta conoscenza del latino); è vero che in una delle liste dei suoi libri che ci sono giunte è registrato un «Petrarca», ma con ogni probabilità si trattava di una copia del Canzoniere.
Ritornando all’inizio del suo libro, come una chiusura ad anello, viene spontaneo chiederle, se, come riferito da Pedretti, lo studio vada continuato o se, al contrario, si ritiene abbastanza soddisfatto? È coinvolto in altri progetti di studio su Leonardo e quali sono o saranno le sue nuove prospettive di ricerca?
Le indagini sulla scrittura di Leonardo non sono assolutamente terminate, anzi potremmo dire che il lavoro fin qui svolto rappresenta soltanto la premessa di studi ben più sistematici che potranno essere condotto sui materiali autografi leonardeschi. Per quel che riguarda i miei progetti di ricerca, in questo momento sto coordinando un gruppo di lavoro che ha come obiettivo di censire e descrivere i codici della tradizione dei Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca e ho in programma di riprendere e approfondire alcune indagini sugli autografi di Giovanni Boccaccio iniziate qualche anno fa. In relazione agli studi leonardeschi, vorrei sviluppare alcuni temi che nel mio volume sono stati solo accennati, come ad esempio quello riguardanti le scritture dei più stretti congiunti di Leonardo o gli autografi vinciani eseguiti con la pietra rossa e la pietra nera; credo, poi, che, compiendo una revisione attenta e sistematica del corpus leonardesco, potremmo trovare anche altri esempi di scritture destrorse e (chi può mai dirlo?) magari anche qualche nuovo autografo. L’importante è insistere con pazienza e determinazione nella ricerca, senza mai stancarsi. Del resto è Leonardo stesso a dircelo, in una carta del ms. H dell’Institut de France in cui disegna una mano che impugna una lancia, aggiungendo subito sotto: «Costanza: non chi comincia, ma quel che persevera!».
L'autore
- Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.
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