Giovanni de Matociis, mansionario della cattedrale di Verona dal 1311 fino al 1337, anno della sua morte, lasciò in eredità i suoi libri alla biblioteca del capitolo, che custodiva fin dalla soglia del Medioevo preziosi e rari tesori, ai quali lui stesso in vita aveva attinto largamente per la composizione delle sue opere di carattere storico ed erudito. La più importante fra queste sono le Ystorie imperiales, la cui stesura ebbe inizio probabilmente nel 1313, a ridosso della discesa di Enrico VII in Italia, e venne portata avanti almeno fino al 1320. Essa doveva narrare la storia degli imperatori da Augusto fino a Enrico VII, ma venne interrotta dopo il sesto libro, che comincia con Carlo Magno e arriva fino a Carlo il grosso. Giovanni scrisse anche una Brevis adnotatio de duobus Pliniis, che rappresenta un primo tentativo, filologicamente agguerrito, di distinguere Plinio il Vecchio dal Giovane.
Le Ystorie sono giunte a noi conservate da appena tre manoscritti: Chigi I.VII.259 della Biblioteca Apostolica Vaticana, CCIV (189) della Biblioteca Capitolare di Verona e D.13 della Biblioteca Vallicelliana di Roma, che è anche l’unico testimone dei Gesta romanorum pontificum del Mansionario, altra sua fatica enciclopedica. Il Chigiano, lacunoso e mutilo delle prime e ultime carte (va da Pertinace a Ludovico il Pio), è stato scritto su pergamena dallo stesso Mansionario, che è pure l’esecutore dei celebri profili in forma di moneta raffiguranti gli imperatori e vergati di fianco al testo con la probabile funzione di ausilio per il lettore. Il riconoscimento dell’autografia si deve ad Augusto Campana. A fronte del grande interesse di cui ha goduto il corredo figurativo da parte degli storici della miniatura, l’opera del Mansionario attende ancora un’edizione critica e uno studio approfondito delle fonti da lui utilizzate, che sono tanto numerose quanto fra loro diverse. Giovanni cita esplicitamente autori classici (Livio, Svetonio), tardoantichi (Historia Augusta, Giustino, Orosio, Cassiodoro), patristici (Giovanni Crisostomo in versione latina, Ambrogio, Agostino), medievali (Isidoro, Beda, Paolo Diacono, Iacopo da Varazze), vite di santi, atti conciliari e perfino epigrafi. Pur dando prova di una notevole capacità di selezione e combinazione della ricca e variegata messe di notizie desumibili dalle sue fonti, davanti a un disaccordo fra queste il Mansionario si limita ad affastellarle senza esprimere un giudizio a favore di una o dell’altra. Una pratica storiografica, la sua, che rispecchia, del resto, un habitus condiviso dai compilatori medievali, come, per esempio, Benzo d’Alessandria o Giovanni Colonna o Guglielmo da Pastrengo, e dalla quale Francesco Petrarca prenderà le distanze rifondando in senso umanistico tale genere letterario attraverso un nuovo approccio critico agli auctores.
A testimoniare lo scarto di Petrarca rispetto alla generazione di storici a lui precedente o coeva abbiamo le sue opere e le annotazioni sui margini dei libri da lui posseduti o consultati, in primis Livio, Svetonio, Curzio Rufo, l’Historia Augusta. Di quest’ultimo testo si conservano due manoscritti riconducibili alla sua biblioteca. Mentre era a Milano, intorno alla metà degli anni ’50, avendo deciso di proseguire il suo De viris illustribus, Francesco si rese presto conto di aver bisogno dell’Historia Augusta. Non avendo ottenuto il vetusto Vat. Pal. 899 (sec. IX), l’esemplare carolingio copiato in Italia settentrionale e custodito nella biblioteca della cattedrale di Verona, ne ordinò una copia. La trascrizione fu fatta per lui, a distanza, da Giovanni da Campagnola (è l’attuale Par. lat. 5816), il quale si mostrò molto diligente nel riversare nella copia il corredo degli emendamenti al testo lasciati nel modello dagli annotatori e revisori del Palatino, soprattutto da Giovanni Mansionario, la cui scrittura gotica corsiveggiante è stata identificata sempre da Campana nei margini il codice. In seguito, Guglielmo Bottari ha riconosciuto la mano di Mansionario anche in quelli di alcuni antichissimi manoscritti della Capitolare contenenti scritti patristici e conciliari. Il Palatino, che è il testimone più autorevole che ci abbia trasmesso l’Historia Augusta, venne consultato da Petrarca a più riprese, come provano le postille e i segni di richiamo, cronologicamente datati al 1350-1356 da Armando Petrucci, ai primi anni ’60 da Albinia de la Mare, oltre gli anni ’60 da Marco Petoletti; il che non esclude che già prima, verosimilmente fra il 1345 e il 1351 in occasione dei suoi soggiorni a Verona, grazie e per il tramite dell’amico Guglielmo da Pastrengo, Petrarca vi abbia avuto accesso, sia pure in modo cursorio, riuscendo forse a trarne qualche rapido appunto. E nel 1345 – come è noto – nella stessa biblioteca veronese, la cui fama doveva averlo raggiunto già da tempo, egli fece pure la sua scoperta più importante, le Epistolae ad Atticum, ad Brutum, ad Quintum fratrem di Cicerone. Quando Francesco finalmente vi approdò il Mansionario era morto da poco meno di un decennio, ma lì poté imbattersi nei suoi libri e nei suoi testi. Finora, tuttavia, gli studiosi non si sono sbilanciati su una diretta conoscenza dell’opera di Giovanni da parte di Petrarca non escludendo la possibilità che questa potesse essere piuttosto stata mediata dal De viris illustribus di Guglielmo da Pastrengo, testo sicuramente debitore delle Ystorie. Ora però è emersa una prova che fuga qualsiasi dubbio.
Per verificare le caratteristiche della scrittura del Mansionario ho di recente sfogliato il suo autografo Chigiano e subito la mia attenzione è stata catturata da una manciata di graffe marginali, costituite da tre punti disposti a triangolo accompagnati da un elemento discendente chiuso da un tratto sinuoso, che per forma, esecuzione e disposizione nella pagina coincidono con i “fiorellini” tipici della postillatura di Petrarca (sono, per esempio, del tutto sovrapponibili a quelli da lui inseriti nel già ricordato Pal. lat. 899). Che la presenza della mano di Francesco sul manoscritto chigiano sia sfuggita a quanti fino a oggi se ne sono occupati si spiega, credo, con l’esiguità dei suoi interventi, che quasi spariscono accanto a quelli autografi dell’autore, e forse anche con una inconscia resistenza a riconoscerla in un testo così squisitamente medievale. E invece Petrarca ne fu certamente un lettore, sobrio sì ma comunque un lettore, e la scarsità dei suoi marginalia potrebbe anche dipendere dal fatto che il Chigiano non fu mai da lui posseduto ma soltanto consultato durante una o più d’una delle sue incursioni nella biblioteca capitolare, dove con ogni probabilità il codice approdò alla morte del Mansionario con il resto della sua biblioteca. Del manoscritto non conosciamo la storia essendo andati perduti, come si è detto, i suoi fogli iniziali, che avrebbero forse permesso di ricostruirla, e magari anche di recuperare altre tracce della lettura di Petrarca, verosimilmente più interessato ai primi che non agli ultimi imperatori protagonisti delle Ystorie.
Conto a breve di pubblicare tutti questi suoi marginalia autografi e di analizzare il rapporto fra le sue opere e quelle di Giovanni de Matociis alla luce di questo che mi sembra un recupero importante, sia perché ci insegna che pure i manoscritti più noti e studiati possono riservarci sorprese sia perché ci illumina su un ambito ancora troppo poco esplorato della biblioteca e delle letture dell’araldo dell’umanesimo. Se infatti il ruolo di Petrarca nella riscoperta e nella promozione della tradizione classica è indiscusso e indiscutibile, non è ancora stato messo pienamente a fuoco quello da lui ricoperto nella tradizione dei testi patristici e medievali, che invece meriterebbe indagini mirate e approfondite. E, nello specifico, diventa ora un fatto documentato che nello stesso luogo, se non addirittura nello stesso momento, in cui egli era intento a sfogliare, copiare e annotare l’imponente raccolta delle epistole ciceroniane, si ritagliò anche del tempo per leggere e postillare un autore come il Mansionario, più vecchio di lui di una sola generazione.
Oltre al Vat. lat. 3199 con la Commedia, ora conosciamo un altro codice con un’opera contemporanea a quella dell’Alighieri toccato dalla mano di Petrarca, che andrà ad arricchire la già folta schiera dei suoi autografi che con l’amico Marco Petoletti stiamo schedando sia per il progetto Autografi della letteratura italiana sia per il portale Petrarca on-line e confidiamo che il loro numero possa ancora aumentare.
L'autore
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Monica Berté è professore di Filologia e letteratura medievale e umanistica presso l’Università di Chieti-Pescara; è stata Visiting Scholar presso il Pembroke College di Cambridge; è membro della “Commissione per l’Edizione Nazionale delle Opere di Francesco Petrarca” e del Comitato scientifico dell’“Ente Nazionale Giovanni Boccaccio”; è segretaria dell’Accademia dell’Arcadia; dirige la «Rivista di Studi Danteschi» e gli «Atti e memorie dell’Arcadia»; è responsabile di unità del PRIN 2017 Petrarca on line: biography, works, library. I suoi interessi di ricerca riguardano le tre corone della letteratura italiana (Dante, Petrarca e Boccaccio), con particolare interesse per la loro produzione latina, nonché la tradizione medievale e umanistica di autori classici. Su questi argomenti ha pubblicato diversi contributi scientifici ed edizioni critiche; è autrice, insieme a Marco Petoletti, del manuale di “Filologia medievale e umanistica” per la casa editrice “Il Mulino”.
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