Mario Biondi nella voce di Wikipedia su di lei si legge: “scrittore, poeta, critico letterario, reporter di viaggio, traduttore e fotografo”, e un po’ più avanti tra le “curiosità” si spiega anche che lei ha “vestito la maglia delle nazionali junior e universitarie di atletica leggera”, sfiorando la partecipazione alle Olimpiadi di Roma del 1960. Una vita molto articolata la sua, tante esperienze diverse, tanti viaggi, sembra il perfetto percorso di avvicinamento a Ulisse, il Libro dei Libri, l’opera che tutte le vite tiene insieme, che racconta l’esperienza umana e la sua complessità da molteplici punti di vista, indicando percorsi che sembrano infiniti.
Joyce non era poi un gran viaggiatore, sia pure considerando i mezzi limitati di allora. I suoi percorsi erano infiniti a livello mentale. Il luogo più lontano dov’è arrivato, e con immenso trambusto, è Roma: 2.500 chilometri da Dublino. Per fare il giro del mondo ne mancherebbero 37.500. Bloom — in questo un perfetto doppio adulto di Stephen-James — già all’idea di andare a trovare la figlia a Mullingar (un’ottantina di chilometri) suda freddo. Joyce non sperimentava un granché nemmeno nell’abbondantissimo bere: esclusivamente vino bianco, guai al rosso, anatema. Anche lui però mi pare amasse, se non proprio correre, almeno camminare. E anche il suo diabolico padre, mai fermo.
Lo sport ha occupato-plasmato la parte formativa della mia vita, dal 1957 al 1961, con un esito poco fortunato, purtroppo, e forse a scapito di altre attività. Ma mi ha insegnato che una volta si vince e una si perde, e l’avversario si rispetta sempre. Ma soprattutto mi ha aiutato a uscire dalle oneste secche di una città molto provinciale, la Como di allora (adesso non so). Io poi abitavo in campagna. Pochi chilometri, che però a quei tempi rappresentavano un vero universo spazio temporale, anche in termini di classe sociale.
E mi ha portato a Padova, in mezzo a vitalissimi fermenti universitari e culturali, e poi a stretto contatto con il disincanto cosmopolita di Venezia. È infatti a Padova che, tra 1959 e 1960, tramite il Ritratto dell’artista da cucciolo di Dylan Thomas, sono venuto a contatto con il Joyce del Ritratto dell’artista da giovane e poi con l’Ulisse. E lì, nel 1960, ho scritto di getto a penna su fogli protocollo il mio primo romanzino, che secondo me si intitolava Il merdone ed è uscito soltanto nel 1975 per la turbolenta genialità del veneziano Cesare De Michelis dopo essere stato respinto da non so quanti editori. Il titolo definitivo (mio) è disceso direttamente dal duo Joyce-Thomas con i loro “giovane uomo” e “giovane cane”: Il (ritratto dell’artista da) lupo bambino. Soltanto il titolo, però, e anche il concitato spirito di ribellione, parecchio a vanvera. Ma tutto il resto è venuto da altre letture, Kerouac eccetera.
E se oggi dovesse dipingere con le parole il ritratto dell’artista che è stato e che è, quanto somiglierebbe al lupo bambino?
Il lupo bambino è un romanzo di esordio, quindi quasi obbligatoriamente di formazione. E lo pseudo artista ventenne che ulula in cerca dei suoi simili assomiglia un po’ all’autore ventenne, ma non più di tanto. No, a parte certi aspetti di rabbia giovanile, io ero molto diverso. Voler leggere nei personaggi di un narratore troppi suoi tratti autobiografici può risultare molto fuorviante.
Negli Occhi di una donna, per esempio, ho messo in scena l’incontro tutto lombardo fra una famiglia nobilissima ma dissestata e una dell’industria rampante, ricchissima. I commentatori si sono divisi nel fare di me il discendente di una o dell’altra. Bah. Eravamo piccolissima borghesia, altro che nobiltà e industria, il mio papà aveva una piccola, sempre traballante agenzia di viaggi, la mamma, prima che nascessi, faceva l’impiegata. Per pagarmi l’università mi sono messo a fare l’atleta semi professionista e poi il venditore di dispense e l’insegnante di matematica.
Oppure a un certo momento sono anche stato un paggio veneziano alla corte di Maometto II? O un maquisard in Francia? O facevo già lo scrittore antifascista ancor prima di nascere? Mah…
Qual è il romanzo da lei scritto a cui è più affezionato e perché?
Sono tutti figli miei, sceglierne uno significherebbe fare un torto agli altri. Comunque, quello che ricordo con maggiore affetto è Il cielo della mezzaluna. Non tuttavia perché io lo consideri migliore degli altri, ma perché per la prima volta ho sentito di star scrivendo un “romanzo” e ho capito che i due precedenti erano soltanto prove di un aspirante autore.
Quanto il suo essere scrittore ma soprattutto poeta, fabbricatore di parole, come direbbe William Blake, ha influenzato la sua scelta di tradurre Ulisse? Dico scelta perché lei stesso afferma che Ulisse è il romanzo che ha sognato di tradurre da sempre. Ha iniziato a tradurlo a più riprese, lo ha frequentato come si fa con un amico, immagino con alti e bassi, fino a quando non è giunto il momento di “chiudere” (ma è davvero possibile?) questa lunga conversazione.
Quando lavoro io concedo abbastanza poco al sogno, sono un pedante che conta sulla concretezza (di base un economista mancato, badi bene). E lo sono anche nel “fabbricare parole”, espressione che condivido appieno: ho dichiarato non so quante volte che per me scrivere un romanzo è come progettare e fabbricare una casa. Diciamo dunque che ho sempre coltivato l’idea concreta di provare un giorno a tradurre l’Ulisse. Non forse a cominciare da quando ne ho preso conoscenza nei primi Sessanta, ma di sicuro dai Settanta.
Avevo capito che per cercar di imparare a scrivere narrativa è essenziale leggerla (ho sempre dubitato che lo si possa insegnare), leggerla compulsivamente, in maniera onnivora, e su un arco molto più vasto di quello offerto dall’ambito nazionale. Essendo di padre italo-londinese ho imparato l’inglese ascoltando lui e i suoi amici e poi cercando timidamente di parlare con loro. Così mi sono trovato molto giovane a leggere la narrativa di lingua inglese in originale: la piccola biblioteca di casa era in larga misura costituita dai libri che il papà ragazzo aveva portato con sé da Londra, mescolati ad altri lasciati lì da una combriccola di aspiranti cantanti liriche americane che frequentavano la nostra anglofona casa, vicinissima a quella dove villeggiava un rinomato maestro di canto milanese.
Poi ho cominciato a tradurla, per campare, e ho capito che traducendo entravo nell’intimo dell’originale e ne capivo molto più a fondo il significato stesso oltre a struttura e “ricette di fabbricazione” (Gianfranco Contini). Insomma, traducendo imparavo. La lunga conversazione con Joyce si è però potuta avviare a concretizzazione soltanto dopo il 2014, quando sono stato messo “a riposo forzato” senza trattamento di fine rapporto.
Di norma il traduttore professionale non gode di molti rami di libertà: deve tradurre ciò che gli viene commissionato dagli editori, nei tempi da loro richiesti, e poi sottostare ai tic linguistici e stilistici (non sempre esaltanti) delle redazioni. L’Ulisse io l’ho tradotto per mio gusto personale quando mi sono trovato ad avere il tempo di farlo, in totale indipendenza, e soltanto una volta finito l’ho proposto all’amico Mario Andreose della Nave di Teseo. La mia idea iniziale era di offrirlo gratuitamente in rete, ma poi mi sono reso conto che l’imponente apparato di note accumulatosi aveva bisogno di essere uniformato con un lavoro redazionale che non ero in grado di fare e poteva essere offerto soltanto da un buon editore.
Ma per il testo ho preteso la mia libertà, senza il castrante obbligo di dover accettare i diktat di persone sicuramente benintenzionate ma che rischiano di comportarsi da maestrine dalla penna rossa. Ed essendoci di mezzo l’Ulisse, te le raccomando. Così il libro è uscito in un’ottima edizione cartacea e digitale. E la “conversazione” con Joyce si è conclusa, anche se rimangono vive tante curiosità.
Ce ne dica una.
Se è vero (e lo è) che Bloom è un doppio adulto del giovane Stephen-James, di chi sono i suoi contorcimenti erotici? Di Bloom o di Stephen-James? Molto acutamente il fratello Stanislaus ha scritto: «Si pensa che Jim sia molto franco su se stesso, ma il suo stile è tale che si potrebbe sostenere si stia confessando in lingua straniera: confessione assai più facile che in lingua volgare».
Comunque non sento un impulso irrefrenabile a cercare di soddisfare queste curiosità. Fatti i debiti conti, ho anche una vita da vivere e un’infinità di altre risposte da cercare.
Ho particolarmente apprezzato la sua traduzione dell’episodio di Itaca, dove s’intravvedono giochi linguistici che preannunciano il percorso verso Finnegans Wake, come si è preparato per tradurre questo episodio? Mi sembra che il suo essere anche un poeta qui sia stato particolarmente utile.
Io non ho tradotto l’Ulisse per farne un’edizione critica, ma anzitutto per cercare di capirlo finalmente io stesso al meglio, se non proprio fino in fondo, impresa che temo sia impossibile. Quindi per trascriverlo in italiano come l’avrei scritto io se avessi avuto il talento di Joyce. Vi ho, insomma, lavorato da traduttore, e al me traduttore ho cercato di prestare le (supposte) capacità del me scrittore, come del resto faccio sempre.
Il traduttore non può destinare tanto tempo alla preparazione: affronta i problemi a mano a mano che gli si presentano. “Trasforma” un testo, lo trasferisce da una lingua all’altra, non lo “crea”, come fa lo scrittore. Non è un accademico che prepara una lezione, è un cottimista che deve realizzare un lavoro contemperando le esigenze dell’editore con quella di guadagnarsi da vivere. È pagato un tanto a cartella, deve saper calcolare quante cartelle al giorno può tradurre di un certo libro (non sono tutti di uguale difficoltà) e quanti giorni ci vorranno, quindi capire se l’importo complessivamente guadagnato (e pagatogli diversi mesi dopo la consegna…) sarà sufficiente per il suo budget di vita. Non è che se ci mette dieci anni invece di uno viene pagato dieci volte tanto; la remunerazione rimane quella pattuita in contratto. La poesia è una cosa meravigliosa, come l’amore, il pane un’altra.
Ma, ripeto, io l’Ulisse l’ho tradotto per conto mio, in totale indipendenza, non avrei mai accettato una commissione così gravosa da un editore: una data di consegna, per quanto elastica, si sarebbe comunque profilata, e sarei precipitato nel panico. Volevo agire in totale libertà e verificare se le nozioni di scrittura che ritenevo di aver accumulato con le centinaia di testi letti per il mio piacere o nella veste di recensore o consulente editoriale, più 20 libri miei e 71 traduzioni (allora) mi avevano conferito la capacità di tradurre un simile “mostro”.
Le cui vere difficoltà peraltro consistono non tanto nella lingua quanto nell’universo culturale e spirituale (con il corollario di tutto il substrato erotico-onirico e il ribollire di sensi di peccato) in cui esso si avviluppa. Ho tradotto autori più difficili dal punto di vista puramente linguistico (al netto della qualità): diversi australiani, lo scozzese Irvine Welsh, il canadese Robertson Davies, il cornish William Golding (anche questi ultimi due con un enorme carico di “ammassi culturali”, peraltro).
Cercar di risolvere i “rovelli” linguistici di Joyce mi ha a tratti letteralmente estenuato ma anche molto divertito e spesso entusiasmato.
Nella sua introduzione menziona più volte la famosa citazione joyciana sugli errori del genio che non sarebbero altro che portali della scoperta. Traducendo Ulisse quali portali è riuscito ad aprire e cosa ha trovato oltrepassandoli?
Non saprei proprio. Nutro da parecchio tempo il sospetto di non essere un genio. Basta vedere il mestiere che ho scelto.
Insegno in un corso di laurea in cui s’iscrivono studenti interessati tra le altre cose a diventare traduttori. Come lei ricorda, quello del traduttore è un mestiere difficile che meriterebbe ben altra considerazione sia sul piano del trattamento economico che su quello professionale. Che consiglio si sente di dare a un giovane che volesse intraprendere questo mestiere?
Immagino che il suo corso si rivolga a traduttori di diverso tipo. Io non so niente di eventuali figure tipo quelli di materie accademiche o scientifiche o tecniche, eccetera. E ancora meno so di eventuali traduttori inseriti a tempo pieno in strutture aziendali o internazionali: posso parlare soltanto di quelli che traducono narrativa “a cottimo”. Traduttori, diciamo così, “creativi”.
Gli studenti interessati a una simile carriera è allora necessario sappiano che affrontano una vita di totale precariato, senza mai la certezza del domani e con scarsi mezzi anche per l’oggi. Sappiano inoltre che si condannano a esercitare una ferrea autodisciplina e che dovranno dimenticare il concetto di “libertà”: bisogna sempre battere il ferro quando è caldo e cogliere le occasioni al volo, qualche minuto dopo potrebbe essere troppo tardi. E poi a esercitare una pazienza da Giobbe con redattori e recensori: più saranno brillanti ed eleganti, più saranno massacrati.
Il mio lavoro di traduttore si è sempre accompagnato a un’altra attività. Per sedici anni sono stato dipendente di case editrici (tre di seguito): in editoria gli stipendi erano (sono tuttora?) miseri, traducevo di sera o nei week end per arrotondare (intanto, però, come ho detto, scoprivo che stavo imparando tanto sullo scrivere).
Poi per fortuna ho potuto “accompagnare” ai miei introiti di traduttore quelli derivanti da diritti d’autore, che in un certo periodo sono stati notevoli e mi hanno consentito di risparmiare per i momenti brutti e in genere per il futuro.
Infine, a un certo punto la mia lunga esperienza editoriale mi ha procurato una consulenza fissa, adeguatamente retribuita, e sono in pratica ridiventato un dipendente. Altrimenti, con le sole traduzioni, non ce l’avrei fatta.
Quindi questi studenti ci pensino bene (ma bene!) e facciano tale scelta soltanto se hanno una vera passione per la scrittura, se ambiscono a diventare narratori e vogliono imparare tutte le regole e i trucchi del narrare.
La sua traduzione consta di 1067 pagine, Ulisse è un romanzo imponente anche nella sua dimensione materiale: nel tempo degli ebook, dei testi fluidi, delle letture veloci e distratte, questo è un testo che richiede lentezza, rigore e attenzione profonda. Ulisse ha bisogno di un lettore che sappia interagire con la complessità, che voglia rischiare di perdersi o di rimanere incagliato tra gli Scilla e Cariddi della sua conoscenza, aggiungiamoci che Joyce vorrebbe che fosse pure insonne. Lei pensa che esiste ancora un lettore così, uno che non sia uno studioso di letteratura, un traduttore, insomma un addetto ai lavori, e che per puro piacere personale decida di leggere Ulisse?
Mah, sembra che l’Ulisse, a un secolo quasi dall’uscita, continui a vendere, nella mia traduzione come nelle eccellenti altre. Quasi a voler contraddire qualcuno che di recente lo ha dichiarato un’opera “senza futuro”. Senza futuro? Un’opera ancora viva novantanove anni dopo essere nata? Mah. Forse quel commentatore intendeva dire che l’Ulisse non ha ispirato autori successivi, ma anche questo non è vero. Basta ricordare Brendan Behan e, appunto, Dylan Thomas. Giù giù, credo, fino persino a parecchie battute dei Monty Python, come ho spiegato nelle note.
Sia come sia, vuol dire che i lettori per leggerlo ci sono ancora, e più di prima. Mentre scrivo queste considerazioni, nella più importante libreria online italiana la mia traduzione è inserita in 111 “liste dei desideri” di lettura. Quindi…
Dopo Ulisse che cosa l’aspetta come scrittore e traduttore?
Un onorevole riposo costruttivo, spero, anche se sempre in totale assenza di trattamento di fine rapporto, come in Italia pertiene a scrittori e traduttori (e ovviamente alle prostitute). L’unica cosa che auspico davvero è che il dannato Covid mi permetta di andare un’ultima volta a salutare l’Himalaya da vicino.
L'autore
- Annalisa Volpone è professore associato in letteratura inglese presso l’Università degli Studi di Perugia e condirettore del CEMS (Centre for European Modernism Studies). Ha pubblicato diffusamente sul modernismo e sul postmodernismo, sulla poesia e la narrativa inglese del diciottesimo e del diciannovesimo secolo. I suoi ambiti di ricerca includono i rapporti tra letteratura e scienza (in particolare le neuroscienze) e il postumano.