Desidero anzitutto ringraziare, insieme con la Società Dante Alighieri, gli autori dei saggi pubblicati in questo numero di Semicerchio: Eleonora Rimolo, Zeno Verlato, Alice Cencetti e Roberta Alviti; il curatore di questo numero e moderatore di questo incontro Niccolò Scaffai; il moderatore del convegno dedicato a Pietro Tripodo, poeta e traduttore: Vampe del tempo, tenutosi a Firenze poco meno di un anno fa dal quale questi quattro saggi hanno preso le mosse, Carlo Pulsoni.
E ringrazio per l’invito a manifestare oggi prima della presentazione di questi saggi le mie testimonianze su Pietro Tripodo. Un mio ricordo di Pietro fu da me portato a quel convegno, riprodotto nella rivista on line curata da Carlo Pulsoni “Insula Europea” e stampato in “Nuova Antologia”. Non ripeterò quindi quanto scrissi e dissi allora, salvo ricordare che la ragione per il mio essere qui oggi è nell’essere stato prima compagno di classe e di banco di Pietro Tripodo nel liceo classico Torquato Tasso di Roma e poi uno degli amici a lui più vicini dalla prima metà degli anni sessanta fino alla sua così prematura scomparsa.
L’esistenza di Pietro non è certo stata facile. Sicuramente cognizione del dolore, ansia e male di vivere caratterizzarono profondamente gli anni della sua giovinezza. Ma nello stesso tempo “viveva”, faceva sport, aveva amicizie, non era una persona fuori dal mondo, né era o appariva essere uno “studioso” quale quello che poi sarebbe, insieme al poeta e al traduttore, diventato, anche per svolgere al meglio queste due attività. La sua uscita da ossessioni e nevrosi lucidamente comprese ed esposte non fu, come ho ricordato a Firenze, quella montaliana del riconoscimento della “divina indifferenza” ma della forza della poesia sul dolore, forza che è anche la sua “colpa”, assecondando la ricerca del rasserenamento.
In questi pochi minuti vorrei solo intrattenermi su due questioni. La prima riguarda proprio Pietro poeta e traduttore. Si ricorda spesso che la sua attività pubblica iniziò negli anni ottanta con la pubblicazione in riviste quali “Prato Pagano”, “Dismisura”, “Nuovi Argomenti”, di suoi versi e sue traduzioni poetiche, in realtà traduzioni molto particolari, versioni (non, seguendo il vocabolario della Treccani, nel significato di esercitazioni scolastiche ma in quello molto profondo di un particolare modo di narrare e interpretare) o rifacimenti, composizioni con una loro autonoma proprietà e specifica forza. Bene, il Tripodo poeta e traduttore comincia molto prima, dalla seconda metà degli anni sessanta.
Ho avuto modo di ricordare che io stesso ancora ho i dattiloscritti che mi diede da conservare, quelli sui quali maggiori dubbi gli vennero in seguito ma anche quelli prodotti al termine di laboriose revisioni, integrazioni e straordinarie ricerche delle “giuste” parole, e in alcuni casi comprensivi di istruzioni sul come, eventualmente, pubblicarli, anche se dubitava che mai sarebbero stati pubblicati. (In una lettera dell’agosto del 1972 scrittami appena partito per i miei studi americani osservava: “Non ci sarà mai nessun ‘potente’ – né critico, né editore – che abbia voglia di pubblicare le mie cose…”, confrontandosi “si parva licet” con Lorenzo Calogero).
Alcuni “rifacimenti inediti” dai classici latini (Orazio, Ausonio, Catullo, ma anche da un classico moderno come Pascoli) sono oggetto dei saggi oggi presentati. Di Machado ricordo molte discussioni sui volumi pubblicati da Lerici nella traduzione di Oreste Macrì, ma solo di recente ho appreso che nel tempo si era rivolto anche ad altre raccolte. Della versione del Cimitero marino di Paul Valery, dal francese al latino specifica in una lunga, densissima, nota mai pubblicata, la scelta della lingua, un latino particolare nei ritmi e nella metrica, e dà conto del suo modo di intendere la traduzione: richiama George Mounin, ricorda Goethe, Borges e molti altri e conclude “che quasi nulla si può tradurre”; richiamando lo stesso Valery, infatti: “In poesia la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento”.
Ma ben prima dei rifacimenti pubblicati, inclusi quelli in Altre visioni, e oltre a quelli inediti contenuti in una raccolta pressoché completa, intitolata Flora, partendo da altre di titoli che si ripetono, Visioni, Sovvisioni, Altre visioni, già esisteva, come ho ricordato, il Tripodo poeta in fieri e in atto e il Tripodo traduttore-rifacitore. In una lunga raccolta dei primi anni settanta (Il Copernico) ho ritrovato un’intera sezione intitolata “Dei lirici greci”, con epigrafe ancora da Paul Valery, nella quale sono comprese liriche di Teocrito e Anite, Mnasalca, Leonida di Taranto e Apollonio Rodio, Dioscoride, Meleagro e Marco Argentario, Alcmane, Teognide e Ibico, Esiodo e Archiloco, oltre ai primi 19 versi dell’XI libro dell’Odissea (Nékyia, da lui fin dagli anni del liceo particolarmente amato). E in mezzo a questi lirici greci, con grande sorpresa ho rinvenuto anche il rifacimento del “Passero di Lesbia” di Catullo e dello stesso Catullo la versione tripodiana di Ille mi par esse deo videtur.
Altri rifacimenti da Frénaud a Lee Masters sono anche rinvenibili in queste produzioni degli anni settanta, ma qui mi fermo per passare al mio secondo e ultimo punto.
I miei studi universitari e post universitari hanno soprattutto riguardato temi di economia e statistica. Altri nostri compagni, ed amici, intrapresero studi di giurisprudenza, storia, filosofia, ingegneria, fisica, medicina. A un nostro compagno, anche, allora, sui campi di calcio, Pietro dedicò nello scorcio degli anni sessanta alcuni versi, forse non ispirati ma molto sentiti: ne ho fatto cenno nel mio ricordo di Firenze: “Massimo dice: la fisica stellare è la più gran bella cosa./ Pietro dice: la poesia, la poesia oltre i cieli della terra,/ nei vertici della spiritica piramide, è la migliore./ Chi dei due ha ragione”?
Come ho detto Pietro era solo in apparenza, e forse di più quando stava meno male, fuori dal mondo. Non era amico dei progressi tecnologici (forse non li avrebbe neppure definiti progressi) ma non era ad essi indifferente. Negli anni io sono sempre più andato insistendo sull’esiguità nel nostro paese dell’“investimento in conoscenza”. Ritengo che questa sia una delle principali ragioni del nostro progressivo scivolamento, sul piano non solo del benessere materiale. Alcuni anni fa ricordavo la necessità “di superare una volta per tutte la barriera che ha a lungo separato la cosiddetta cultura ‘umanistica’, da conservare, da quella ‘tecnico-scientifica’ su cui investire” (qui e qui).
Oggi ritengo che questo sia essenziale. Richiamando le parole di Edmund Phelps, premio Nobel per l’economia nel 2006, mi sembrava di poter condividere la sua tesi che negli ultimi decenni, non solo in Italia, si sia andato affievolendo il dinamismo di fondo, diffuso e crescente, che negli ultimi due secoli era derivato dal “fiorire” di valori quali il bisogno di creare, la propensione a esplorare, il desiderio di affrontare nuove sfide. Phelps evocava la necessità di ristabilire l’apertura all’innovazione e coltivare risorse quali “creatività, curiosità e vitalità”, attraverso un programma di forte recupero di riferimenti classici e osservava con rincrescimento, il regresso del rilievo riservato nelle università americane agli studi umanistici.
Forse negli ultimi anni qualcosa sta mutando. Ma bisogna fare molto di più. Mi confortano alcune parole quali quelle che possiamo leggere nel risvolto di copertina di un classico della scienza contemporanea, Fisica quantistica per poeti di Lederman e Hill: “la fisica quantistica è innanzi tutto bella, almeno quanto la poesia; e sebbene sia in effetti controintuitiva in maniera sconcertante (come la poesia) e a suo modo complicata, per capirne i segreti non è affatto necessario conoscere la matematica…”.
E ancor più mi piace richiamare le parole di un intellettuale italiano di fama mondiale, il fisico teorico Carlo Rovelli, che in Ci sono luoghi al mondo dove più che le regole è importante la gentilezza scrive: “Poesia e scienza sono entrambe creazioni dello spirito che creano nuovi modi di pensare il mondo, per farcelo meglio capire. La grande scienza e la grande poesia sono entrambe visionarie, e talvolta possono arrivare alle stesse intuizioni. La cultura odierna che tiene scienza e poesia così separate è sciocca, secondo me, perché si rende miope alla complessità e alla bellezza del mondo, rivelate da entrambe”.
Mi sarebbe piaciuto discuterne nell’età più matura, e in questi nostri così difficili giorni, con Pietro. E credo che noi tutti, tecnici e scienziati, statistici ed economisti potremmo solo beneficiare dalla riscoperta dei, se non dal ritorno ai, classici di cui qui oggi parliamo.
(Intervento letto alla Presentazione online della rivista “Semicerchio” su Pietro Tripodo e la traduzione dei classici, Società Dante Alighieri, 20 novembre 2020)
L'autore
- Ignazio Visco è stato dal novembre 2011 all'ottobre 2023 Governatore della Banca d'Italia, istituzione nella quale è entrato nel 1972. Dal 1997 al 2002 è stato Capo economista e Direttore del Dipartimento economico dell’OCSE a Parigi. Laureatosi all’Università degli Studi di Roma ‘La Sapienza’, ha proseguito gli studi presso la University of Pennsylvania, conseguendo un Master of Arts e un Ph.D. in Economics. E' stato docente di Econometria e di Politica economica all’Università ‘La Sapienza’ di Roma. E' autore di numerose pubblicazioni, da ultimo Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l'economia, Il Mulino, 2018; Inflazione e politica monetaria, Laterza 2023.
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