Stasera Napoli è silenziosa. Non parlo del silenzio per le strade, ma di quello nelle case. Ognuno è evidentemente intento a fare i conti con i propri ricordi e con la propria apponcundria. È la terza volta, per questa città, dopo Massimo Troisi e Pino Daniele, che ci troviamo a ragionare su quello che significa per noi e per la città la morte di un simbolo. E Maradona più di tutti lo è stato, un simbolo. Mi è stato chiesto di raccontare, a caldo, quello che ha rappresentato Maradona per me, come napoletana, come bambina che si è formata ed è cresciuta in una Napoli che lo aveva già eletto sovrano, ed è probabile che quello che ricorderò si andrà a sovrapporre con i ricordi e il vissuto di tanti miei concittadini. Inizio tuttavia con un ricordo tanto recente quanto assolutamente personale.
Era una bellissima serata di luglio di qualche anno fa, e mi trovavo a passeggiare, dopo la cena sociale di un convegno a Brixen sulla preterizione e sul non detto, con i miei colleghi del Nord. Uno di questi – che miracolosamente sarebbe diventato in seguito un mio carissimo amico – mi disse, con un tono troppo perentorio per illudermi che dissimulasse una provocazione, che Maradona rientrava forse tra i primi cinque calciatori più forti del mondo, e sottolineò con un’inflessione nella voce quel “forse”, come a dire che stava facendo una concessione, una gentilezza nei miei confronti. Lì, dopo un iniziale sconcerto e tentativi impossibili di argomentazione (come si fa a spiegare l’ovvio?) mi fu evidente che non poteva capire. Al di là dell’abbaglio calcistico (solo un mio coetaneo milanista poteva nutrire tanto livore per Maradona), non poteva avere idea di che cosa avesse significato per me, bambina e figlia di calciatore, andare al San Paolo la prima volta perché c’era Maradona.
Non poteva sapere che mio padre mi spiegava il calcio sui suoi movimenti, sui suoi passaggi, sulle sue punizioni. Neanche poteva immaginare che da piccola cantavo con una gioia che neanche i bis ai concerti dei miei idoli musicali mi fanno provare canzoni come “Oh mamma, mamma, mamma, sai perché mi batte il corazón? Ho visto Maradona!” oppure “Maradona è megli’e Pelé!”, e che credevo ciecamente che Maradona fosse meglio di Pelé e che il solo vederlo facesse innamorare all’istante maschi e femmine, quasi fosse una specie di Gorgone buona (e i folti capelli un po’ da Medusa avrebbero potuto confermarlo). Quello stesso amico oggi, per primo, mi ha dato notizia della morte di Maradona, con un messaggio talmente bello e sentito che sapeva di parziale risarcimento per quanto mi disse quella prima sera.
Marlene Dietrich ne L’infernale Quinlan recita una battuta divenuta famosa: “A suo modo era un grand’uomo. Ma che importa quello che si dice di un morto?”. E intanto a me oggi serve sentir parlare di Maradona, serve condividere i miei ricordi personali, di bambina, che ha iniziato a tifare Napoli in un momento in cui il Napoli era forte e Maradona riscattava un’intera città a suon di gol: ma io questo non avevo gli strumenti per capirlo. Percepivo solo che io ero di Napoli, che a Napoli c’era Maradona, che la domenica era scandita dalle campane della chiesa e dalle trombette spaccatimpani che venivano suonate a ogni gol, a ogni fischio finale, ma pure a ogni prodezza, a ogni scatto, a ogni passaggio di Diego. Il ragù di mia nonna, tirato da due giorni e rubacchiato col cozzetto di pane prima di pranzo, il pacco di paste, la radio al volume massimo ché altrimenti il nonno non sentiva, le imprecazioni degli adulti quando il telecronista passava la linea a un altro campo da gioco, il programma “90° minuto” in religioso silenzio per vedere i gol di Maradona.
E in questo momento, che leggo compulsivamente post di amici che raccontano il loro Maradona, ci trovo sempre un po’ anche il mio.
Un mio ex-studente, G., che vive da anni a Parigi, racconta di come sia difficile essere lontani da Napoli in questo giorno, al pari di quando muore un parente e non puoi condividere il dolore con la tua famiglia (e tutta Napoli, oggi, è famiglia); H. scrive che sente di aver perso l’immaginazione; R. ricorda la sua mamma che non seguiva il calcio e non ci capiva nulla però tifava Maradona, che aveva l’effetto di trasformare gli adulti in bambini; e L. riassume la differenza tra primo amore e amore della vita, che non può essere altri che Maradona. E sempre a L., e al suo papà, devo il sorriso – l’unico in una serata di immensa commozione – per il ricordo di una scritta apparsa sul muro davanti a un cimitero a Napoli il 10 maggio del 1987: “Non sapete cosa vi siete persi”. Io lo so, e tutta Napoli con me.
L'autore
- Oriana Scarpati insegna Filologia e linguistica romanza all'Università di Napoli Federico II. Si occupa di lirica trobadorica e di retorica medievale. Ha tradotto per la prima volta in italiano alcune poetesse e poeti catalani moderni e contemporanei, tra cui Màrius Torres. Ama scrivere di musica e di calcio.
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- avvenimenti26 Novembre 2020Stasera Napoli è silenziosa