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Tra parole e musica. Anna Raimo intervista Fabio Frizzi

Fabio Frizzi (Bologna, 2 luglio 1951) compositore, musicista e direttore d’orchestra di fama mondiale, oggi si racconta con la sua autobiografia Backstage di un compositore. Durante la sua lunga carriera, ha lavorato con numerosi registi e attori, tra cui Paolo Villaggio e Gigi Proietti. Nel 2003 Quentin Tarantino ha voluto inserire in Kill Bill: Vol. 1 il suo tema di Sette note in nero. Dal 2013 Frizzi propone in giro per il mondo anche lo spettacolo Frizzi 2 Fulci, in onore del regista Lucio Fulci, con il quale ha lavorato spesso insieme. Lo scorso anno ha diretto l’orchestra del Festival di Sanremo.

 

Nella prefazione di Backstage di un compositore, Vincenzo Mollica ci presenta il suo libro con una lettera in cui sottolinea che la figura del compositore “quando suona ha una missione principale: regalare emozioni, fare battere il cuore in sintonia con un sentimento frutto autentico dell’avventura umana”. Un poeta e un musicista, che con il suo canto corale cerca di alleviare e consolare i dolori della vita quotidiana o che accompagna i piccoli momenti di gioia. Per cominciare, domanda di rito: perché mai ha scritto questo libro? Cosa l’ha spinta a parlare della vita che “abbraccia la musica” e diventa “una sola cosa, in cui le parole suonano come le note e le note parlano come le parole”?

I bilanci sono una buona abitudine. E normalmente si comincia a farli presto nella vita, tirando una linea e valutando quello che è successo (o non è successo) fino a quel momento. Assolvendosi con formula piena o preparando correzioni all’andamento rilevato. Era da un po’ che ci pensavo, un lavoro che coincide da sempre con la mia passione, la musica, pieno di incontri, di progetti, di immagini che hanno attraversato non solo la mia vita personale, ma per molti versi l’evolversi del nostro Paese. E non solo. Così il bilancio è diventato un racconto, una storia. I tanti aneddoti si sono mescolati alle notazioni di una tecnica, musicale e cinematografica, che si è evoluta in modo esponenziale in poche decine di anni. Ma che non ha cambiato il piacere di esprimersi e di comunicare. Insomma è la storia di un uomo fortunato, che continua a vivere della sua prima straordinaria passione.

Solo sfogliando il suo libro, colpisce la scelta di inserire spartiti musicali all’inizio di ogni capitolo, come evidente fin da subito con il Va Pensiero, legato ai suoi ricordi scolastici, quando ha scoperto che cantare era un “gioco bellissimo”. Può spiegare questa scelta: vuole forse offrire al lettore un fil rouge per leggere il libro in modo scorrevole? O ancora, gli spartiti, sono funzionali ad offrire una sintesi dei suoi vari periodi di vita?

È stato il consiglio di un amico, che ho seguito molto volentieri. La musica si scriveva esclusivamente su carta, prima che i computer ci dessero nuove possibilità grafiche. Ed era bello riportare un po’ di quel sapore in questo libro che parte da lontano. I brani autografi che precedono i singoli capitoli sono in un certo senso il paradigma musicale di quello che si leggerà nelle pagine seguenti. 22 momenti musicali che amo e mi raccontano, anche loro.

In che modo, l’insegnamento ricevuto in gioventù dai suoi maestri Vittorio Taborra e Sergio Notaro, continua ad influenzare la sua produzione artistica? Nel libro lei ci racconta di aver assistito, direttamente dal palco, ad uno spettacolo del grandissimo Segovia. Quanto l’ha ispirata lo stile barocco usato dal chitarrista? Quanto è ancora fondamentale nella sua musica?

I maestri rimangono con noi, sempre. Nonostante il tempo passi e giorno dopo giorno l’autore trova la propria identità artistica e affina il proprio stile, penso che una certa riconoscenza sia doverosa. Insegnare è una missione molto delicata, il docente sbagliato può creare nell’allievo cortocircuiti molto negativi, quella che è una bella passione si può trasformare in fastidio, in una incontrovertibile avversione per la materia. Vittorio Taborra, il mio riferimento fondamentale, non era solo un bravo musicista, ma una persona che la musica la sapeva insegnare, condendo crome e semicrome con un entusiasmo e un rispetto per il mondo artistico che proponeva a noi allievi. La passione per la musica del 700, che è uno dei fondamenti profondi della mia estetica, l’amore profondo per Johan Sebastian Bach, sono elementi che ho assorbito allora. Insieme a tante altre cose. Spesso quando salgo sul palco, che sia sinfonico o rock, penso a Taborra e lo ringrazio. Ancora.

Dopo l’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza, ha iniziato a frequentare l’ufficio di Carlo Bixio in via Lombardia n. 40. In quell’occasione ha potuto osservare da vicino l’operato di grandi personalità del cinema italiano come Sergio Leone, Dario Argento, o della musica per il cinema come Ennio Morricone. Che insegnamenti pensa di aver tratto da questa possibilità più unica che rara? Suo padre, noto distributore cinematografico, grazie al quale ha iniziato a frequentare l’ambiente cinematografico, quanto è stato importante?

Certamente non posso lamentarmi, di imprinting cinematografici ne ho avuti parecchi. Ma probabilmente la fortuna maggiore è stata quella di vivere in una casa dove si respirava il cinema e lo spettacolo 24 ore al giorno. Mio padre con il suo lavoro di distribuzione e produzione, che lo appassionava tanto e che era argomento di conversazione principale di pranzi e cene, non poteva che farci innamorare del cinema, innanzi tutto quello italiano. Tanti film belli e importanti nascevano sotto i nostri occhi, con le loro sceneggiature sparse qua e là nel salone di casa e le colonne sonore che suonavano forte nel vecchio giradischi Grundig.

“Finalmente quel giorno arrivò. […] Carlo mi parlò di un film che poteva essere quello giusto per cominciare. Aveva un titolo abbastanza emblematico: Amore libero – Free Love. […] Questo mio primo film come compositore, una storia di amore e intrighi, segnò anche il debutto di Laura Gemser”. In quel periodo le uscite discografiche andavano di pari passo con quelle dei film, e così Bixio le chiese un brano da mette sui titoli di testa, che sarebbe diventato il 45 giri; fu così che nacque Mombasa. Come la fa sentire che grazie a quel pezzo ancora oggi ad Helsinki le facciano richieste di autografi? Si aspettava un successo così grande e duraturo?

Non me lo sarei mai immaginato. Per me la grande (e vera) vittoria era stata firmare il mio primo film come compositore della colonna sonora. Quando Carlo Bixio mi spinse a scrivere un brano in più, oltre a quelli che avevo già preparato, mi sembrava uno sforzo inutile, la mia idea di giovane compositore mi sembrava più che completa. Ma aveva ragione lui e la lunga vita di quel brano, che in origine si intitolava Ibo Lelè, lo dimostra assolutamente. Quindi no, non mi aspettavo che quella melodia potesse continuare per tanto tempo ad accarezzare lo spirito di ascoltatori appassionati, ma soprattutto la mia carriera, in quel momento era solo una piccola scintilla di speranza.

Nel 1971 Paolo Villaggio pubblicò il libro Fantozzi, che divenne in breve tempo un vero caso letterario. “Carlo mi parlò di questa ipotesi di partecipare al film di Paolo Villaggio. […] Villaggio mi raccontò del film, di quali storie ne avrebbero fatto parte […] Cominciammo ad affrontare l’argomento musica. A questo punto mi raccontò della sua passione per un film di pochi anni prima, Harold e Maude“. Anche in quell’occasione, grazie alla mediazione di Bixio, ha collaborato con Vince Tempera, con il ruolo di direttore d’orchestra; che ricordi ha di quell’esperienza? Com’è stato comporre La ballala di Fantozzi, sintesi del suo personaggio?

Quella di “Fantozzi” è stata un’esperienza fondamentale, centrale. Per la prima volta, dopo il clamoroso successo del film, cominciai a pensare che fare musica per il cinema potesse diventare veramente la mia professione. Si, quando Villaggio mi parlò di quello splendido film e soprattutto della musica di Cat Stevens, tirai un sospiro di sollievo. Era un mondo musicale che conoscevo molto bene e non feci fatica ad allinearmi alle sue idee. Io ero un giovane musicista di belle speranze, ma con un’esperienza sul campo ancora fresca, Vince Tempera aveva già un bel pedigree, soprattutto come arrangiatore e pianista nella migliore musica pop italiana. L’anno successivo sarebbe nato il trio Bixio Frizzi Tempera che, oltre a diventare un gruppo creativo iperimpegnato in una certa fetta della produzione cinematografica di quegli anni, ha sicuramente rappresentato per me la migliore incubatrice artistica, che mi ha permesso di crescere musicalmente e tecnicamente nel modo migliore.

Dopo lo scioglimento del trio “Bixio-Frizzi-Tempera”, nel 1979, come scrive nel libro, tra le persone che avevano fiducia in lei, c’è stato Lucio Fulci, conosciuto in occasione del film I quattro dell’Apocalisse. Com’è stato collaborare con questo grande regista e che valore ha avuto?

Fulci non è stato solamente uno dei registi con cui ho collaborato di più, è stato un amico, un grande maestro riguardo al rapporto che ha la musica con un prodotto cinematografico. Anche se in Italia la sua popolarità è relegata a quella virtuosa nicchia di chi ama il cosiddetto cinema di genere, in quasi tutto il mondo, Europa e Americhe comprese, Lucio è considerato uno dei registi italiani più forti e personali. Aveva una visione così chiara e una conoscenza profonda del mezzo, che lavorare accanto a lui e a tutta la sua crew mi ha permesso di maturare molto e di esprimermi probabilmente ai massimi livelli. La sua eredità artistica è stata per me un regalo prezioso e negli ultimi 15 anni, grazie anche alla “consacrazione” di Tarantino, che considera Fulci uno dei suoi riferimenti, si sono aperti per me nuovi e imprevedibili scenari professionali.

Venendo ai giorni nostri, com’è stato per lei iniziare una nuova avventura negli Stati Uniti? Collaborare con Jonathan Dennison sui testi di H.P. Lovercraft e E. A. Poe le ha dato un’altra patria? Quali emozioni ha provato nel tornare all’horror dopo Fulci?

L’etichetta Cadabra Records e il suo “deus ex machina” Jonathan Dennison sono stati un incontro piacevole e fortunato. L’entusiasmo del pubblico americano per i film di Lucio Fulci e le mie musiche mi hanno messo in contatto con realtà che non conoscevo, ma con le quali il piacere di collaborare è apparso subito evidente. I tour americani, quattro fino ad ora, mi hanno fatto capire che la patria di un artista è un po’ ovunque, in qualsiasi posto ci sia chi si emoziona di fronte ad una sua opera.

Prima di concludere questa chiacchierata sulla sua appassionante biografia, che ha dedicato al suo carissimo e compianto fratello Fabrizio, credo sia giusto ricordare un grande attore italiano recentemente venuto a mancare all’affetto di tutti noi: Gigi Proietti. Lei ha conosciuto il Maestro ai suoi esordi, con Enrico Montesano in Febbre da Cavallo. Immagino quanto sia difficile per lei parlarne, ma mi sembra doveroso spendere poche parole per una persona che ha dato così tanto alla cultura italiana. Pensa di organizzare qualcosa in suo onore insieme agli altri grandi artisti che hanno avuto il privilegio di collaborare con lui e soprattutto di essergli amici?

Non so se ci saranno iniziative per ricordare Gigi Proietti, penso che la sua eredità artistica sia molto ricca e chiara per tutti. È stata una persona straordinaria, oltre che un uomo di spettacolo con una personalità assolutamente unica. Mancherà a tutti, a chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e condividere momenti belli con lui, come al suo pubblico affezionato.

Dopo tutte queste domande, a suo parere, quale potrebbe essere la colonna sonora di quest’intervista, così da lasciarci un ricordo e tenerci compagnia durante questo periodo difficile, che ci sta non solo lacerando e stressando, ma soprattutto facendo capire quanto siano importanti le piccole gioie quotidiane, che troppo diamo per scontate.

La colonna sonora giusta per concludere questa intervista? La prossima! Mi piace raccontare, ci sto prendendo gusto, ma dopo avere steso qualche pagina di parole devo sempre tornare all’amore di una vita. Devo rimettermi a scrivere un tema nuovo.

anna.raimo@live.it

 

L'autore

Anna Raimo
Anna Raimo è nata a Pisa il 25 dicembre 1995. Laureata magistrale con il massimo dei voti in Linguistica e didattica dell’italiano nel contesto internazionale presso l’Università degli Studi di Salerno e l’Universität des Saarlandes di Saarbrücken, ha in seguito conseguito un Master di II Livello in Didattica dell’Italiano L2 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla linguistica e didattica della lingua italiana alla storia, letteratura e poesia contemporanea. Si è infatti occupata dell’italiano dei semicolti nella sua tesi di Laurea Magistrale e ha recentemente pubblicato un articolo su una particolare varietà della lingua italiana: "L’e-taliano: uno scritto digitato semifuturista?", in (a cura di S. Lubello), Homo scribens 2.0: scritture ibride della modernità, Franco Cesati Editore, Firenze 2019, pp. 159-164. Tra i suoi autori preferiti vi sono Mario Vargas Llosa, Jung Chang, Philip Roth, Azar Nafisi, Orhan Pamuk, Anna Achmatova, Rainer Maria Rilke, Federico García Lorca, Alda Merini, Bertolt Brecht e Wisława Szymborska. Le sue passioni sono la lettura, la scrittura di poesie e i viaggi, soprattutto in Germania, paese di cui adora la storia, la cultura, l’arte e i magnifici castelli.