Interventi

Diserzioni manganelliane ne “La letteratura come menzogna”

La letteratura come menzogna, pubblicata nel 1967 presso l’editore Feltrinelli, si configura come una raccolta di venticinque brevi articoli e saggi incentrati su alcuni dei principali autori della letteratura straniera da Nabokov a Dumas, con un particolare focus sugli scrittori inglesi, tra cui figurano Carroll, Stevenson, Firbank, Peacock, Rolfe ecc. Questo volume, suddiviso in tre parti secondo accorti criteri di affinità tematico-stilistica, si conclude con un’ultima sezione che può essere considerata il manifesto della poetica dell’autore e da cui deriva il titolo del volume. Il fil rouge che attraversa e unisce i vari testi su più livelli è la menzogna, uno dei motivi portanti nella ricerca letteraria dello scrittore milanese.
Prima di entrare nell’opera in questione va detto che in Manganelli un primo e importante segnale critico può essere dato dalle seconde e terze di copertina scritte da lui stesso in quasi tutti i suoi libri. Queste potrebbero considerarsi dei piccoli trattati in cui vengono accennate le linee guida per muoversi all’interno di una prosa labirintica, intessuta di fila sintattiche elaboratamente ingannevoli dove la ragion d’essere della letteratura è inevitabilmente la menzogna. Basti leggere il risvolto dell’edizione Rizzoli del 1979 di Centuria; qui Manganelli, nello spazio di una colonna scarsa, fa esplodere la maniera del Barocco e del Novecento, secoli per eccellenza del dubbio. Sembra quasi indossare le vesti di un Emanuele Tesauro che si rivolge al «Lettore Supremo» consigliandogli di corroborare un’accortezza indagatoria di stampo freudiano volta a leggere tra le righe di un contenuto manifesto, per poi abbandonarsi alla gravità di un mise en abyme senza fine. Questo perché il contenuto latente abita nell’assenza. «[..] Il lettore dovrà porre in opera le astuzie che già conosce, e forse altre apprenderne: giochi di luce che consentono di leggere tra le righe, sotto le righe, tra le due facce di un foglio[..] ad un segnale, il Lettore Supremo comincerà a precipitare dal sommo dell’edificio […]».
La maggior parte degli scritti che compongono La letteratura come menzogna risalgono agli anni in cui il panorama letterario italiano è segnato dal tentativo del Gruppo 63 di abbattere definitivamente gli steccati di una comunicazione convenzionale e naturalistica veicolata dalla narrativa di consumo. Ma qual è il rapporto tra Manganelli e la Neoavanguardia? Per ragioni di strategia letteraria, spesso è stato inglobato senza troppi problemi nel nucleo di quest’ultima tuttavia la sua collocazione implica un discorso sicuramente più sfaccettato e problematico, considerando inoltre che lo stesso gruppo era privo di un compatto e omogeneo programma ideologico. Questa difficoltà di inquadramento critico è un’ulteriore conferma della sua personalità bifronte: una convinta adesione ai propositi neoavanguardisti di uscire dalle maglie del neorealismo, dimostrata dalla vicinanza alla linea di Alfredo Giuliani per cui non era possibile una conciliabilità di piani tra rivoluzione e letteratura, e, allo stesso tempo, un preservarsi dal rischio di immedesimazione in virtù dell’altro volto, quello della “retroguardia”, dell’ironia. Il tentativo di Sanguineti di politicizzare la nuova avanguardia nella convinzione che la letteratura dovesse farsi ancella di obiettivi rivoluzionari e rispecchiarsi nella realtà non fu per nulla accolto da Manganelli che lo riteneva un modo per snaturarla delle sue inutilità.
L’autore porta agli estremi il pensiero di Albert Camus trasponendolo sul piano di una rivolta in cui la letteratura diserta gli impieghi nei quali lo stato, la chiesa, i partiti politici vorrebbero fissarla e imbrigliarla. Similmente alla visione di Henry Louis Mencken, menzionato in alcune pagine del saggio dedicato alla critica di Edmund Wilson, smantella le pretese pedagogiche e didascaliche dell’arte come «documento morale», come «esercitazione logica» finalizzata a dimostrare qualcosa.
La scrittura di Manganelli potrebbe dirsi un contrappunto di voci spettrali, di fantasmi retorici e psichici che lo ossessionano ma non appena questi vengono legati a una specifica verità, «perdono il privilegio che avevano di rappresentare fino in fondo l’esistenza umana: non sono più che i riflessi tediosi di un mondo frammentario», scrive Georges Bataille ne L’apprendista stregone.
Con fine e disarmante ironia, nell’ultima parte del volume, riguardo al rapporto tra la figura dello scrittore e il suo tempo, si legge: «Assai imperfetto è il colloquio con i suoi contemporanei. È un fulmineo tardivo, i suoi discorsi sono intelligibili a molti, a lui stesso. Allude ad eventi accaduti tra due secoli, che accadranno tre generazioni fa». Viene esaltata tutta l’inattualità e l’inutilità dello scrittore che per sua scelta diviene un «fool», un «buffone» privo di collocazione storica che porta con sé la beffa e l’indifferenza. In questo modo egli, come il Barone di Münchhausen, può prendere la propria verità per i capelli trascinandola dove il vero non ha privilegio sul falso, dove vi sono luoghi ribaltati e contrari, utopici e insieme possibili. Dunque il nodo centrale della poetica manganelliana non risiede in un confronto tra possibile e impossibile ma verte tutto sulla formulazione che può articolarsi solo al limite dell’estremo, del radicale, laddove la defezione dalla realtà diventa una «sfida blasfema». È esclusa del tutto l’idea di una letteratura volta a demistificare una falsa coscienza, al contrario, essa si configura come violazione deliberata di alcune proibizioni fondamentali, dell’assassinio in primo luogo. Nell’opera si legge che lo scrittore è «l’essere approssimativamente umano» che conduce il sacrilego, l’indifferenza «fin nei pressi del potere omicida».
Quella del «buffone» è una sovranità che non si appoggia su nessuna validità corporea, per questo egli diviene re di un regno che esclude la morte – valida solo per gli altri – stabilendo così la propria immortalità attraverso «l’astuzia che gli consente di operare i suoi riti, senza venirne consumato», come viene scritto nel testo dedicato a W.B.Yeats.
L’ironia del «fool» ovvero dello scrittore scaturisce da un dramma umano, dalla presa d’atto che la letteratura, non potendo più trovare vera serietà e identità in qualsiasi contenuto, può soltanto rappresentare la potenza negatrice che si comunica in uno sdoppiamento e una lacerazione costitutivi. È la condizione dell’ “Altra notte” di Maurice Blanchot, ossia una distanza interna che si dà sempre in una presenza differita dove ogni inclinazione umana a trovare un senso, un «qualcosa da dire» è destinata allo scacco. A questo io lacerato viene opposta la saggezza del riso che consiste nel veder sprofondare la natura tragica e saperne ridere, è un modo estremo e liberatorio di darsi coscienza di sé.
Manganelli, sulla base della psicanalisi di Ernst Bernhard che radicalizza il discorso junghiano, concepisce lo scrittore come il grande guaritore che è dalla parte del male e insegna a convivere con esso, a trattarlo, a spostarlo di significante. Non si tratta di bonificare la zona d’ombra, come indicava Freud nell’introduzione all’Interpretazione dei sogni, ma di sciogliere i nodi attraverso gli strumenti linguistici. Quindi la menzogna manganelliana diviene la traduzione della dimensione psichica del soggetto in cui emergono le angosce, tutti gli aspetti più reconditi del perverso, plasmati in una forma che non è deviazione dalla realtà ma traduzione di quest’ultima. È la “dialettica dell’alienazione” di cui parla Giuliani, intesa come l’alienazione del soggetto che può diventare oggetto artistico attraverso la simulazione del disagio, attraverso la riproduzione dell’invasamento nella propria officina linguistica.
Nell’analizzare il Signore di Ballantrae di R.L.Stevenson il Nostro tocca una questione estetico esistenziale inerente a un vero e proprio dramma monastico: la coesistenza dell’«Ombra» che attinge in profondità e dello «Stemma» che è il principio d’astrazione, lo strumento di difesa dall’inferno interiore che va fissato in una formalizzazione geometrica dove ogni tentativo di ricercare un riferimento intimo viene respinto. L’ «Ombra» è un territorio proibito, in termini tarkovskijani potremmo dire che è la “Zona”, presente nel quotidiano, in cui può accadere l’impossibile, dove giacciono i desideri più segreti di cui non si ha coscienza e che possono rivelarsi fatali. Per questo motivo è necessario un disegno, una mappa, uno «Stemma» per l’appunto, che consenta di tradurre in una dimensione puramente linguistica queste oscure e minacciose verità.
Quello di Manganelli è l’atteggiamento distaccato del saggio, il quale ha compreso che l’unica maniera per sopravvivere è quella di farsi vivere dal linguaggio, stando arroccato in una dimensione a sé stante in cui il mondo si può solamente citare in modo parziale e laterale secondo specifici meccanismi linguistici, in primis l’ossimoro obliquo. Quest’ultimo, figura retorica chiave nella narrativa dell’autore, potrebbe dirsi uno spazio astratto in cui due termini opposti e di grado differente vanno a formare un’identità a tutti gli effetti plausibile e semanticamente autonoma.
Come la scacchiera che emerge dall’intreccio de La vera vita di Sebastian Knight di Vladimir Nabokov, cui vengono dedicate diverse pagine all’interno del saggio, l’ossimoro obliquo è il diaframma necessario che si pone trasversalmente tra l’io e il mondo, è la superficie in cui si gioca la partita della letteratura, dove il linguaggio è un «gigantesco “come se”: una legislazione ipotetica che inventa i propri sudditi: i luoghi, gli eventi». Lo scrittore manganelliano quindi, impossibilitato in un rapporto frontale con il mondo e in un approccio engagé con quest’ultimo, assume un’ambigua posizione di lateralità da cui osservare la realtà che gli sfugge verso vie imprendibili, fuori dal suo controllo.
La condizione della letteratura per Manganelli è quella di uno scacco perpetuo in cui nello stesso momento si è vincitori e vinti, buffoni e santi, assassini e redentori, in cui affermazione e negazione coesistono e insieme si annullano. Jorge Luis Borges in una sua poesia intitolata Arte poética scrive: «[..] ed è specchio di uno stesso Eraclito incostante che è lo stesso / ed è un altro, come il fiume interminabile».

arianna.pannocchia@yahoo.it

 

 

 

 

L'autore

Arianna Pannocchia
Arianna Pannocchia
Laureata in Lettere moderne presso l’Università degli Studi di Roma Tre. Il campo di studio verte sul panorama della lirica italiana del secondo Novecento con un’attenzione particolare a una lettura comparatistica tra le esperienze poetiche e le discipline pittorico-scultoree di quest’epoca. Le sue attività di ricerca si svolgono tra Roma e Macerata.