Marco Santagata, che è morto a Pisa lunedì scorso, è stato un talento molto precoce. Entrato come studente del corso ordinario alla Scuola Normale, nel 1969, poco più che ventenne, pubblica sul «Giornale storico» un lungo articolo sulla memoria di Dante in Petrarca.
È un saggio che si legge ancora adesso con profitto, ma soprattutto è un saggio che anticipa suoi lavori futuri più maturi (confluiti in un libro di vent’anni dopo, Per moderne carte, sulla biblioteca volgare di Petrarca) e che precorre la voga degli studi intertestuali negli anni Settanta e Ottanta: chi vi si è dedicato, soprattutto tra i medievisti, coscientemente o no ha seguito le sue orme. Anche i saggi petrarcheschi dei primi anni Settanta, confluiti in Dal sonetto al canzoniere (1979) anticipano un approccio e un metodo di studio che avrà anche troppa fortuna nei decenni successivi, cioè la riflessione sulla dialettica testo-macrotesto e sulla forma del libro di poesia. Santagata non ha ancora trent’anni, ma ha già avviato una trasformazione decisiva negli studi petrarcheschi, trasformazione che si compirà soprattutto con il saggio I frammenti dell’anima (1992), libro esemplare per il modo in cui vi si integrano filologia e interpretazione, e con quel modello di equilibrio e di stile che è il commento al Canzoniere per i Meridiani (1996), un commento che ha cambiato sensibilmente il modo in cui oggi leggiamo e interpretiamo i classici (e si era prima di internet: chi è del mestiere sa la differenza).
Petrarca è stato il suo autore, nell’arco di una vita. Ma Santagata era, come mi ha detto qualche sera fa un suo e mio amico, Pietro Beltrami, «una forza della natura», e possedeva quel tipo di intelligenza, non troppo diffuso tra gli studiosi, che non sa riposarsi sulle cose note, replicando sé stessa. E seguendo le sollecitazioni di questa intelligenza ha pubblicato, negli anni, un numero impressionante di studi sui grandi autori della nostra letteratura, da Boiardo a Foscolo, da Leopardi a Pascoli; fino ai due autori sommi ai quali si è soprattutto dedicato nell’ultimo ventennio della sua attività scientifica, Dante e Boccaccio (è dell’anno scorso una monumentale biografia boccacciana).
Ma insomma, le cose che ha scritto sono così tante e così varie che ogni studioso di letteratura italiana avrà le sue particolari ragioni di ammirazione e di gratitudine. Quanto a me, credo che il suo meglio lo desse non tanto nella lettura dei testi quanto nella descrizione delle epoche, cioè che sia stato soprattutto uno dei migliori storici della letteratura che l’Italia ha avuto negli ultimi decenni, perché aveva tutte le qualità: conosceva come pochi i testi, coglieva i rapporti, era sensibile alla storia delle istituzioni e della società. Io ho sempre avuto un debole (il che vuol dire anche: ho provato a imitarli) per i suoi studi sul petrarchismo napoletano e centro-settentrionale, un campo nel quale – come in altri cui ho accennato – i suoi contributi sono stati pionieristici. Basta aprire a caso l’Atlante dei canzonieri in volgare del Quattrocento curato da Tiziano Zanato e Andrea Comboni per accorgersene: Santagata è ovunque.
Ma naturalmente tutta questa teoria di titoli non dice niente, non serve in nessun modo a dare la misura di ciò che abbiamo perso perdendo Marco Santagata. Ci sono studiosi, anche grandi, che per dire delle cose originali hanno bisogno di cambiare metodo; e ci sono studiosi a cui basta cambiare punto di vista. Santagata apparteneva a questa seconda famiglia. Non che non fosse al corrente di ciò che produceva la migliore teoria letteraria: alla fine degli anni Sessanta è stato tra l’altro uno dei primi allievi e interlocutori di Francesco Orlando. Ma la sua formazione di medievista era troppo solida perché potesse essere sedotto dall’infinita chiacchiera metodologica che imperversava negli anni in cui si è formato e ha cominciato a scrivere. I testi erano lì, bastava studiarli con pazienza e attenzione, restituendoli al loro tempo, senza bisogno d’inventarsi vocabolari nuovi. D’altra parte, non era un medievista come gli altri. Non pensava che il compito di uno studioso della letteratura dei primi secoli consistesse nel pubblicare edizioni critiche e tacere. Soprattutto nello studio della lirica antica, di Petrarca e di Dante ha portato uno spirito che si potrebbe chiamare militante, se l’etichetta non fosse carica di implicazioni ideologiche nel suo caso, per fortuna, inoperanti. Agli scrittori del passato remoto poneva domande analoghe a quelle che si pongono agli scrittori nostri contemporanei: esercizio difficile, perché ci si espone al rischio dell’anacronismo, persino del ridicolo, ma che a lui riusciva quasi sempre splendidamente.
E poi era un vero professore, in un mondo che sembra popolarsi sempre di più di conferenzieri neanche tanto brillanti; e aveva un’autentica coscienza civile, se averla significa partecipare alla sfera pubblica col proprio sapere andando nelle scuole, divulgando in maniera rigorosa, scrivendo e facendo cose a difesa della letteratura, nell’università e fuori; e nei ritagli di tempo – uno si chiedeva dove li trovasse, i ritagli – scriveva romanzi. Resteranno i libri? Certo. Ma chi lo ha conosciuto, chi ha conversato con lui, e io ho avuto la fortuna di poterlo fare per più di un quarto di secolo, rimpiange soprattutto lo spettacolo della sua intelligenza e della sua ironia. Spentesi quelle, i libri, come dice un verso di Larkin che piaceva a entrambi, «are a load of crap».
(l’articolo è stato pubblicato in precedenza nel supplemento domenicale de “Il Sole 24 ore” del 15/11/2020)
L'autore
- Claudio Giunta insegna Letteratura italiana all’Università di Trento. I suoi ultimi libri sono un saggio sulla scrittura (Come non scrivere, Utet 2018), un libro su Tommaso Labranca (Le alternative non esistono, Il Mulino 2020) e un reportage sulla città di Togliatti (Togliatti. La fabbrica della Fiat, Humboldt Books 2020).
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