Renato Minore (Chieti, 1944) si occupa da sempre di poesia e letteratura, sia come scrittore che come critico. Autore di numerose raccolte poetiche, con la sua ultima O caro pensiero (Nino Aragno editore, 2019) ha ottenuto il Premio Viareggio Rèpaci per la poesia nel 2019. Narratore e saggista, vive ormai da molti anni a Roma, dove ha insegnato presso l’Università di Roma e la Luiss e, come critico letterario, scrive per «Il Messaggero», di cui è stato inviato culturale.
Raffaele Manica, nella presentazione di O caro pensiero, si sofferma sul titolo, chiedendosi se l’aggettivo caro non abbia una doppia valenza: «il pensiero è “caro” proprio nell’accezione leopardiana, caro come il colle, come la beltà […] ma in un tempo – il nostro, e non da poco tratto – in cui le cose si definiscono per il prezzo, “caro” vorrà dire anche che il pensiero è costoso, nel senso che grava nei moti dell’anima e nei ricettacoli della memoria, diventando perfino un inciampo per stare al mondo». In che senso il pensiero poetico è caro? Si tratta davvero di un inciampo o è qualcosa di più?
I compartimenti stagni tra letteratura e filosofia, tra intuizione sensibile e discorso, lasciano il tempo che trovano, anche se purtroppo permane la polarità tra una poesia che non osa innalzarsi al pensiero e un pensiero che non osa abbandonarsi alla poesia, che è un po’ la versione letteraria della schizofrenica scissione cartesiana tra mente e corpo, o quella estetico-crociana, tra concetto e intuizione.
Tra le tante definizioni, eccone una di Montale che mi ha sempre colpito per semplicità e precisione, tanto più che il poeta, come suo solito, l’ha lasciata cadere col il fare un po’ svogliato di chi davvero la sa lunga. Montale punta subito l’occhio su un elemento decisivo della creazione poetica: la sua imprevedibilità. «La poesia è un mostro: è musica fatta con parole e persino con idee: nasce come nasce, da un’intonazione iniziale che non si può prevedere prima che nasca il primo verso». Sembrerebbe un piccolo trattato sulla poesia, denso e concentrato come lo sono i suoi versi migliori. Gli fa eco Wisława Szymborska: «L’ispirazione, qualunque cosa sia, nasce da un incessante “non so”». «Per questo», prosegue, «apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Anche il poeta, se è un vero poeta, deve ripetere di continuo a sé stesso “non so”». Una poesia si spinge comunque oltre il territorio in cui pure ha attecchito, al di là delle proprie premesse: le conserva, se ne alimenta, ma attraverso uno spostamento, una trasformazione. In tal senso una poesia non è mai una semplice conseguenza. Vive della sensibilità, dei convincimenti, delle idee, anche dell’ideologia del poeta, ma non ne costituisce l’applicazione meccanica.
Quello che nel titolo si presenta come un semplice pensiero, nella lettura della raccolta spesso si delinea come ricordo: ricordo d’infanzia, ricordo dei parenti e del tempo trascorso in famiglia o con gli amici, ricordo di personaggi illustri che oggi non ci sono più. Il tema del tempo permea ogni componimento, in particolare il tempo passato («Il presente si vede solo di profilo / è il passato che abbiamo di fronte», Le mani al microscopio (4), p. 44). Qual è il rapporto che intercorre tra pensiero e ricordo e in che modo questo legame trova spazio nei versi?
Penso ai miei versi come qualcosa di continuo come un work in progress in cui ogni poesia si corregge con un’altra. Come un linguaggio ragionativo nella prova dell’esistenza, ritagliare una conoscenza decifrando i segnali della realtà. Cosa c’è in O caro pensiero? E che cosa lega il pensiero al ricordo? Il racconto, infanzia e altro. L’apparato dei sogni, dei “bisogni onirici”. La menzogna capovolta in verità di racconto, l’attrito della vita come maschera necessaria. La miracolosa coincidenza tra il poco che si sa e il molto che si presume di sapere, la bellezza dello smacco conoscitivo. L’io non si costituisce in un punto ma si sparpaglia, si sente un crocicchio, una stazione di transito, è attraversato dalla follia e dalle assurdità, dalle forme dell’esistenza
Uno degli esempi che faccio sempre è quello di T.S. Eliot, che una volta disse: «Mi è capitato di scrivere una poesia che inizialmente nemmeno io capivo». Una poesia è fatta di lingua, e io penso che la lingua per definizione stia sopra di noi. Sia secondo la psicanalisi, che secondo la linguistica, diciamo molto più di quello che sappiamo di dire.
Nei suoi studi si è spessissimo rapportato con grandi autori del passato, pensiamo alle biografie Leopardi. L’infanzia le città gli amori (Bompiani, 1987, finalista al Premio Strega) e Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento (Mondadori, 1991, vincitore del Premio Selezione Campiello). Qual è l’eredità che poeti di questo calibro lasciano a noi contemporanei e qual è la relazione che oggi possiamo costruire con loro? È la palinodia la forma di comunicazione più adatta, forse l’unica rimasta, per dialogarci?
Mi capita di dire spesso che scrivere di Leopardi e di Rimbaud è stato per me una specie di supermaster in poesia, di cui avevo bisogno per sentirmi io stesso più garantito come poeta. Ho cercato di raccontare la loro vita, le tante esperienze che li hanno fatti diventare il Leopardi e il Rimbaud che sappiamo. Con questo scavo nelle loro esistenze, costruito in modo che nulla fosse scontato o stereotipato, ma passasse attraverso il fluido incandescente dei loro versi, dei loro scritti, delle loro lettere, ho cercato il filo indistricabile che annodava i giorni e le opere, dava identità forma struttura alle parole misteriosamente guidate dalle profonde ferite dell’esistenza. Si, ho “studiato” e mi sono “perfezionato” in poesia così, da questo rapporto così forte e continuo nel tempo è nata la continua necessità della loro voce, in ciò che essa può significare, conoscenza tesaurizzata, modello irraggiungibile da inseguire, anche palinodia al momento giusto.
Nella sua lunga carriera di autore letterario si è dedicato tanto alla poesia quanto alla prosa, raggiungendo in entrambi gli ambiti risultati notevoli. In quale delle due forme si identifica maggiormente e in cosa ritiene risieda la differenza sostanziale tra prosa e versi?
Mi considero un po’ ambidestro, nel senso che la manualità che serve per scrivere versi è la stessa necessaria per l’altro mestiere, l’esercizio dell’una può rafforzarsi nel passaggio con l’altra. O in altri termini: qualcuno diceva che il poeta è un narratore pigro ed io, quando sentivo che quella pigrizia rischiava di diventare troppo diffusa e magari fin troppo facile e quasi narcotizzante, cambiavo registro. Ma potrei anche fermarmi dinnanzi a questa spiegazione fin troppo di cautela, ragionevole, razionale in fondo. E, cambiando ancora registro, potrei anche aggiungere che l’ispirazione non ci proviene dai cieli più elevati ma verosimilmente da un intrigo di esperienze di vita e parola, risvolti psichici, sogni e mediazioni, un intrigo profondamente umano. E bisogna accettarsela, il nutrimento dell’attesa è il compito più difficile. E nello stesso tempo, esigendo il massimo della concentrazione e dell’indifferenza, nel momento in cui scrivi devi lasciar fare i neuroni, le sinapsi o che diavolo folleggia in te. Quando si realizza questo cocktail, questa condizione allora ti trovi ad un bivio e l’umore dell’ora o la disposizione delle stelle ti fa imboccare il sentiero che ritieni più giusto. O quello della poesia o l’altro.
Come già accennato, tra gli studi cui si è dedicato meritano una menzione d’onore le biografie, a sottolineare il nesso che intercorre tra il vissuto di una persona e la sua produzione letteraria. Quanto crede che le sue esperienze di vita abbiano inciso sulla sua opera, in particolare su O caro pensiero?
Ricordo sempre ciò che mi disse Caproni a proposito. Con la poesia, da fatti autobiografici, si scava in sé stessi: ma si va proprio in giù, come un minatore, e si può trovare una zona dell’io che è di tutti, che era in tutti, soltanto che negli altri dormiva. Partendo dai laterizi delle proprie esperienze, e costruendo con tali laterizi le proprie metafore, il poeta riesce a chiudersi e a inabissarsi talmente in sé da scoprirvi, ripeto, quei nodi di luce che sono di tutta intera la tribù. Insomma, il massimo di narcisismo possibile porta al paradosso di ritrovare gli altri…
La sua opera d’esordio, la raccolta poetica I nuovi giorni, ha visto la luce nel 1965, vale a dire cinquantacinque anni fa. In che modo si sente cambiato – evoluto?, disilluso?, semplicemente cresciuto? – come autore rispetto ad allora?
Evoluto? Ma sono un po’ giansenista in questo: si diventa quello che si è. Il ragazzo dei versi un po’ lirici e un po’ disincantati dei Nuovi giorni pensava un po’ confusamente ciò che il poeta un po’ poligrafo di questi anni vorrebbe confermare, in cui crede. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola anche oggi, come ieri, è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
Per concludere la nostra intervista, saprebbe dirmi in quale autore o in quale corrente letteraria ha trovato un modello cui rifarsi e in chi individuerebbe oggi un punto di riferimento per giovani poeti emergenti?
Potrei fare molti nomi, una vera costellazione di punti di riferimento. Ma mi viene in mente Andrea Zanzotto nel giorno in cui festeggiava il suo ultimo compleanno. Disse a chi glielo chiedeva: «Non mi importa del compleanno. È di gran lunga più interessante il fatto che i neutrini viaggino a una velocità superiore a quella della luce». Al novantenne poeta, che nella sua tana di Pieve di Soligo dove era sempre vissuto, continuava ad annotare su foglietti sparsi i suoi versi, ciò che ancora era oggetto di passione era proprio il futuro. Ciò che affiorava dietro i segni convulsi del vivere contemporaneo, nei nuclei centrali e ricorrenti, la natura, le utopie, la storia, l’etica, la scienza. Tra l’altro, pochi giorni dopo la sua morte, si seppe che non c’era stata nessuna scoperta, si era trattato di un errore nella strumentazione. Non importa, l’importante era stato per Zanzotto tutto ciò che questa scoperta poteva svelare, l’apertura e la tensione verso il futuro. Ecco questa apertura, questa tensione, questa nostalgia del futuro sono il “modello”, quel modello…
L'autore
- Ilaria Dinale si è laureata in Lettere Moderne presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” con una tesi dal titolo “Scritture poetiche e narrative nei social network. Panorami italiani”. Presso il medesimo ateneo attualmente frequenta il corso di laurea magistrale in Linguistica.
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