Capita spesso parlando di Manzoni, soprattutto in ambito scolastico, di sentir affermare con convinzione che l’autore inviti il lettore alla rassegnazione. Gli umili – i Renzo e le Lucia di ogni tempo e luogo – non possono che rassegnarsi al male del mondo, sperando (unicamente!) in un premio ultraterreno dopo la morte. Così accade, non di rado, anche quando si va ad analizzare a livello superficiale non tanto la scrittura di Primo Levi, quanto la sua vicenda personale e umana: ovvero, la questione del suicidio in tarda età; con l’unica, grande, differenza che nello scrittore torinese l’ateismo sempre palesemente dichiarato annienterebbe anche la speranza ultima nel premio ultraterreno che, al contrario, Manzoni avrebbe quantomeno concesso in credito ai suoi umili. Ma è davvero così? Quanto segue non vuol essere altro che una mera considerazione personale, passibile – ça va sans dire – di smentita, legata proprio alla banalizzazione del concetto di “rassegnazione” in autori come Manzoni e Levi.
Partiamo da Manzoni. Nell’ultimo capitolo dei Promessi sposi – il XXXVIII – Renzo e Lucia discutono tra loro della capacità di attrarre il male anche senza compiere alcun tipo di azione sprovveduta o negativa. È il famigerato tema legato alla biblica pazienza di Giobbe (molto ben analizzato, tra l’altro, da Matteo Sarni in una recente monografia): «Io non sono andata a cercare i guai» – asserisce Lucia nelle ultime righe della narrazione, dopo aver ascoltato più e più volte Renzo elencare la sequela dei suoi “ho imparato..” – «son loro che son venuti a cercar me».
Del mancato idillio e del “sugo” finale del romanzo manzoniano si è pure discusso a lungo: è dato ormai per assodato che il vero finale dell’opera ottocentesca sia in realtà rappresentato da La storia della Colonna Infame; ancora una storia di rassegnazione, direbbe qualcuno: Piazza e Mora, vittime sacrificali innocenti, vengono torturati e uccisi per assolvere alla mera funzione di capri espiatori; per contro il Padilla, che è ricco e nobile, si salva sulla parola. “Rassegnatevi, umili: il mondo è contro di voi”, parrebbe dire Manzoni. Eppure una tale affermazione, a una lettura più attenta, appare non solo riduttiva ma anche banalizzante rispetto al messaggio manzoniano.
Fermiamoci qui, per il momento e concentriamoci su Primo Levi: un chimico ateo, reduce dal lager nazista di Auschwitz, che per anni narra delle sue nefande esperienze in tempo di guerra e opta per il suicidio come soluzione finale a una vita funestata dalla depressione. Anche qui, si direbbe, il tema di fondo è la rassegnazione al male del mondo, all’incapacità degli umili di sopravvivere alla “banalità del male” attuato unicamente per il male. Capri espiatori, Piazza e Mora, quanto gli ebrei nella Germania nazista. Il messaggio appare chiaro: il male nel mondo esiste, colpisce i poveri e gli umili più che i ricchi e i potenti, gli autori ne prendono atto e invitano il lettore alla rassegnazione. Stop. Torniamo a Manzoni. È lapalissiano che il pensiero dei personaggi nei Promessi sposi non rappresenti sempre e in toto quello dell’autore; guai se così fosse! Dovremmo, allora, credere che Manzoni concordi con don Abbondio nel definire la peste «una scopa» che elimina i malvagi, sostanzialmente per toglier d’impiccio lui? Chiaro che non esista nulla di più lontano dal pensiero manzoniano e dal concetto di Divina Provvidenza che tanto risuona nelle pagine scolastiche legate al Nostro. Se, dunque, il pensiero di Manzoni non coincide con quello del curato, non coinciderà nella sua interezza neanche con le riflessioni di Renzo o Lucia. Ammettere che Manzoni inviti alla rassegnazione il lettore, attraverso i ragionamenti di due personaggi, equivarrebbe ad accostare le riflessioni di Alessandro Manzoni (sic!) a quelle di due contadini semianalfabeti delle campagne lombarde del Seicento; ovvero a non aver minimamente compreso il romanzo. Dove l’autore mostra, invece, scopertamente il proprio punto di vista – abbandonando anche l’Anonimo che guidava I promessi sposi – è nella già menzionata Colonna Infame.
È in quel testo conclusivo, allora, che andrà cercata la fonte della speranza manzoniana: la Storia è nefasta e a svantaggio degli umili. Allora a che pro narrare di fatti accaduti due secoli prima, quando ormai neanche la colonna originale è più visibile in Milano? E perché, ugualmente, Levi dovrebbe attendere alla scrittura di Se questo è un uomo di corsa, appena rientrato dalle mostruosità di Auschwitz, per poi – dopo lunghi anni – terminare volontariamente la propria vita? Delle motivazioni di Levi, dà contezza egli stesso asserendo che: «il bisogno di raccontare agli “altri”» assume in lager carattere di «impulso immediato e violento […] a scopo di liberazione interiore».
Ma è davvero tutto qui? Ricapitoliamo: Vengo a conoscenza di – o vivo in prima persona – un’esperienza terrificante (la tortura e l’omicidio di Piazza e Mora, la furia nazista di Auschwitz) e avverto il bisogno di raccontarla unicamente per dimostrare che il mondo è un posto orribile o per liberare la mia interiorità. Se ciò fosse sufficiente, non avrebbe importanza che qualcuno leggesse o meno quella scrittura. È da ricercare, allora, nello stesso bisogno intimo di raccontare tali mostruosità la natura della speranza nei due autori: a parere di chi scrive, infatti, sia Manzoni che Levi avvertono prepotente il bisogno di denunciare le brutture del mondo, consci sì che nulla cambierà per un singolo testo scritto in fretta (Levi) o in vent’anni di lavorazione (Manzoni), ma fiduciosi nel fatto che le future generazioni possano, almeno in parte, far tesoro di tali atrocità ed evitare di commetterne ancora. Entrambi gli autori vivono un palese e inguaribile pessimismo nei confronti del proprio tempo ed è allora, forse, un errore pensare che parlassero ai loro contemporanei. Già Ferdinando Camon aveva sottolineato come Levi «non gridava, non insultava, non accusava, perché non voleva gridare: voleva molto di più: far gridare. Rinunciava alla propria reazione in cambio della reazione di noi tutti. Ragionava su tempi lunghi». Sarebbe, allora, un errore credere che anche Manzoni cercasse lo stesso? L’errore di fondo, probabilmente, sta nel pensare agli autori come latori di un messaggio destinato alle loro stesse generazioni o a quelle immediatamente successive: in quel caso, certo, la speranza sarebbe totalmente vana e la rassegnazione pronta ad aggredire anche il più inguaribile degli ottimisti. Manzoni e Levi, forse, ragionavano su tempi davvero molto lunghi, più di quelli che egoisticamente i loro contemporanei tendano ad immaginare: non parlavano alle loro generazioni – o a quelle già nate e, inevitabilmente, inquadrate nelle brutture del mondo circostante – ma inviavano un messaggio forte e deciso a quelle a venire.
«Tutti i semi sono falliti eccettuato uno, che non so cosa sia, ma che probabilmente è forse un fiore e non un’erbaccia», diceva la matricola 7047 della Casa Penale di Turi (non a caso, avido lettore di Manzoni). È per quel fiore, allora, che i pessimisti (ma non disperati) Manzoni e Levi avvertono l’esigenza di lasciare una traccia, non solo nella scrittura immediata (come in Levi) ma anche nella ventennale stesura di un episodio lontano duecento anni, come nel caso della Colonna infame. Quale più alta forma di resistenza, allora, alla rassegnazione che non la speranza in un futuro – magari anche estremamente lontano – ma decisamente migliore? Ci sembra, insomma, che la spinta definitiva alla denuncia che unisce Manzoni e Levi sia proprio quella – lontanissima dal (pre)concetto di avvilente rassegnazione che spesso si insegna a scuola trattando dei due autori – di tramandare, rendere noto, palesare al mondo esterno che il vaso di Pandora è scoperchiato sì, da tempo e nulla o nessuno certamente riporrà il coperchio al suo posto in tempi brevi ma che la speranza – che è quindi speranza nel futuro – risieda ancora lì, timidamente accucciata sul fondo, in attesa di tempi migliori.
teresa.agovino@unimercatorum.it
Postilla bibliografica
- Sarni, L’enigma dell’altro. La Bibbia nei Promessi sposi, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 2016.
- Manzoni, I promessi sposi, a cura di F. De Cristofaro, G. Alfano, M. Palumbo, M. Viscardi, BUR, Milano, 2015.
- Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 2005.
- F. Camon, Conversazione con Primo Levi, Guanda, Parma, 1997.
L'autore
- Teresa Agovino (1987) ha conseguito il dottorato di ricerca nel 2016 presso l'Università 'Orientale' di Napoli con una tesi incentrata sulle riprese manzoniane nel romanzo storico del Novecento. Insegna Letteratura italiana presso l'Università Mercatorum (Roma) e Metodologie di scritture digitali presso l’Università Europea di Roma. Si occupa di ricerca su Alessandro Manzoni, Primo Levi, Giancarlo De Cataldo, Andrea Camilleri, autori sui quali ha pubblicato numerosi articoli in rivista e atti di convegno. Ha pubblicato i volumi: Dopo Manzoni. Testo e paratesto nel romanzo storico del Novecento e Elementi di linguistica italiana (Sinestesie, Avellino 2017 e 2020); I conti col Manzoni e «Sotto gli occhi benevoli dello Stato». La banda della Magliana da Romanzo criminale a Suburra (La scuola di Pitagora, Napoli, 2019 e 2024);“Non basta essere bravi. Bisogna essere don Rodrigo”: Social, blog, testate online, Manzoni e il grande pubblico del web (Armando editore, 2023). Ha vinto il premio 2023 dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Classe di Lettere, con il saggio Da Manfredi all’innominato. Suggestioni dantesche in Manzoni.
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